SPIRITO GUIDA

L’uomo è uno sterminatore cinico e spietato. Cinico in quanto il profitto lo deresponsabilizza moralmente da ogni malversazione compiuta. Spietato perché è disposto a realizzare le più terribili nefandezze per conseguirlo. Non è per caso che sta in vetta alla piramide evolutiva!

Una volta faceva le guerre. Un re voleva conquistare un territorio, mandava un paio di messaggeri al suo omonimo: «ti arrendi?» «No!» «Allora io stermino te e la tua gente!» E finiva che uno dei due vinceva e i sudditi dell’altro venivano schiavizzati. Tutto molto elementare. Poi però razziare e massacrare umani è diventato ordinario, quasi monotono come un rituale religioso. Così ha sentito il bisogno di alzare il tiro. E siccome nessuno sapeva dove Dio si nascondesse, ha preso di mira ciò che ne eguagliava l’assolutezza: la natura. Non che essa fosse esente dalla sua prepotenza, la domesticazione risale infatti al momento in cui ha smesso di rallegrarsi di ciò che offre la terra, quando era nomade, per produrre in base ai propri interessi, quando è diventato stanziale. Ma il suo dominio si limitava a recintare un terreno e sfruttarlo per dimostrare a tutti la propria autorità sugli animali, sulle piante e sugli uomini. Compreso che la sua distruzione, oltre a dare autostima, era profittevole, è nata la civiltà moderna così come viene insegnata dalla storiografia ufficiale.

Gli effetti di queste dinamiche sono sotto gli occhi di tutti. Dal mangiare ai vestiti, dai mezzi di trasporto alle abitazioni, dal tempo libero al lavoro, dalle infrastrutture allo sfruttamento delle materie prime, come l’uomo civile agisce, contribuisce al disboscamento di una collina, alla contaminazione di una falda, al massacro di una specie, all’avvelenamento del suolo, del mare, dell’aria, alla violenza universalizzata. Oggi come non mai il progresso, inteso come mercantilismo, industrializzazione, globalizzazione, consumismo, tecnologia e quant’altro venda come benessere le prigioni di vetro in cui viviamo, le distese di cemento in cui ci perdiamo, l’inquinamento causato per generare energia che dovrebbe accendere la vita e, più in generale, tutto ciò che è sofisticazione, genera devastazione e morte.

Imputare la catastrofe alla sola economia è sviante. Se l’uomo comune è disposto a tutto per il profitto, figuriamoci l’imprenditore che è predatore per natura. Tantomeno si può colpevolizzare la politica, che già si impegna a trovare alternative alla distruzione in atto che non riducano i guadagni di chi la foraggia.

La responsabilità è delle persone così dette perbene, che potrebbero scegliere e non lo fanno. Accettano di essere manipolate e obbediscono alle imposizioni perché nell’asservimento utilitaristico valorizzano esistenze di cui altrimenti non saprebbero che farsene.

Si vantano di essere razionali, ma la ragione non le induce a riflettere, vergognarsi, redimersi fuggendo dall’immoralità, contrastandola, negandola. Le porta invece a orientarsi, scegliere, partecipare all’omologazione standardizzante, selezionando con cura le prede e uccidendole con maggior perizia. In un contesto fondato sulla disumanizzazione sentimentale, però, a forza di conformarsi all’artificiosità, non a caso antitetica alla spontaneità, hanno perso qualunque parvenza di empatia verso le volontà del mondo, quelle stesse con le quali per millenni l’uomo si è relazionato amichevolmente, talvolta si è scontrato, ma di cui sempre ha avuto rispetto perché indispensabili alla sua stessa esistenza, al suo benessere, alla sua felicità.

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Animali e piante non possono impedire la catastrofe. La natura ogni tanto reagisce scatenando le sue forze quasi sperasse nel ravvedimento del folle. Ma non si è mai visto un pazzo ammettere la sua pazzia. Discuterne ancora, oltre a sembrare un trito esercizio retorico, prova quel distacco tipico di quando le persone ignorano la gravità della situazione di cui parlano. Anche gli isolati gesti ribelli si dimostrano inefficaci di fronte all’uniformante cupidigia. La verità è che il progresso è irreversibile e inarrestabile perché l’individuo moderno ne è inconsciamente soggiogato e razionalmente partecipe.

Finché il profitto guiderà le azioni umane, sfruttamento e distruzione saranno pratiche necessarie alla civilizzazione. La devastazione invece che cessare, aumenterà progressivamente, silenziosamente, inesorabilmente. Detta in altro modo: se l’uomo non rompe con l’ordine esistente, si fonde con la natura gioendo di quanto offre, appropriandosi della sua multidimensionalità, identificandosi nella sua molteplicità, esaltandosi nello scambio reciproco dei doni, se non trova se stesso e si realizza attraverso connessioni simbiotiche che gli consentono di essere anziché dover essere, la violenza presto finirà perché non ci sarà più niente da violentare.

La soluzione è semplice: smettere di collaborare col dominio e contrastare con azioni dirette e antagoniste le istituzioni economiche, politiche, sociali, morali in maniera da fiaccarlo, snervarlo, logorarlo, eroderlo lentamente. Al contempo, creare realtà senza proprietà, profitto, competizione, mercato, tecnologia, governo, morale e tutte le altre superfluità spacciate come necessarie dalla società del dominio. Unirsi in aggruppamenti clandestini di piccole dimensioni, nomadi, autogestiti, autarchici, in cui si pratichi la cooperazione, la condivisione, la reciprocità, la solidarietà, il minimo necessario e dove l’etica fusione con la natura consenta di sviluppare connessioni affettive con i suoi elementi. Un’umanità finalmente libera in un mondo che è stato libero finché l’uomo non se ne è separato per impossessarsene.

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Se al termine “uomo” sostituisci quello di cane, muflone, giraffa, lombrico oppure ulivo, felce, baobab, pino ma anche sasso, minerale, cielo, mare e così via, il risultato non cambia. Perché la natura è volontà universale costituita dalle infinite volontà che la compongono, che plasmano e da cui sono plasmate attraverso l’interazione inesauribile. Essa è un corpo indiviso, una “intelligenza collettiva”, dove le singolarità si influenzano casualmente ma incessantemente, ognuna con una propria volontà che la anima e diventa azione, attiva o passiva, attraverso la forma di cui dispone. In questa simbiosi reciproca non c’è domesticazione, ma esplorazione selvatica, irrefrenabile di istinti, passioni e desideri che si mischiano, contrastano, si incontrano e si fondono.

Ma perché l’individuo partecipi a questa dinamica universale, deve autodeterminarsi. Agire completamente libero di esprimere la propria vitalità. Senza vincoli predeterminati e senza paura, quella dannata emozione inculcata dall’autorità perché ciascuno abbia bisogno di sentirsi dire cosa fare.

Solo liberalizzando le pulsioni primordiali è possibile distruggere il dominio ed essere se stessi. Esattamente come le molteplicità partecipano alla processualità delle vita. Per questo in natura non c’è gerarchia: siamo volontà primitive in divenire che si incontrano con altre volontà selvagge in una fusione in continuo movimento. Che sia alga marina, leone, sequoia, verme, umano o roccia “così fredda, così dura, così prosciugata, così refrattaria, così totalmente disanimata”1, ciascuna entità possiede una propria seità che è volontà di partecipare al divenire universale, l’essenza della vita.

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Il benessere proposto dalla modernità è una finzione. Una gabbia che impedisce di accedere alla libertà concessa dal creato. Bisogna quindi rompere con ciò che siamo per diventare ciò che vogliamo essere. E vogliamo essere selvaggi!

La civiltà non è rimbecillire davanti a uno schermo, pagare un mutuo, lavorare per consumare, sottomettersi al dovere per tornaconto mancanza di alternativa o viltà. Civiltà è realizzare la propria personalità per ciò che è. E può essere se l’ambiente non la corrompe.

Per questo l’anarchico ha scelto di riappropriarsi di sé e condividere con gli esseri del mondo la meraviglia dell’esistenza. Vuole godere di relazioni simbiotiche in cui le differenze perfezionino l’identità. Un’affettività pura, sincera, spontanea, senza impedimenti, senza vendersi o vendere, comprare, desiderare, senza recinti, senza domesticazione, senza dipendere o obbedire, senza sfruttare, mortificare, violentare, uccidere. Un uomo finalmente guidato dall’armonia universale che ora raccoglie, ora caccia, ora divide le eccedenze, ora riposa, ora interagisce con il gruppo, ora condivide, aiuta, protegge, ora ozia, ora esplora per conoscere e scambiare i doni, esattamente come la terra insegna. E a tarda sera, davanti al fuoco, cantare le lodi di tanta opulenza.

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Ma se questa affettività per molti è un’attitudine, per la maggioranza dei refrattari è una conquista. Affrancatosi dalle pastoie sociali spesso il libertario è talmente intontito dalla civiltà che deve imparare a dialogare con le cose. Un dialogo che non è fatto di parole, ma è gestuale e sensuale. Ẻ istintuale e spontaneo. E consiste nel connettersi con le volontà altre fino a fondersi con esse. Per chi non è abituato all’inizio può sembrare difficile, ma non deve scoraggiarsi. Ogni fallimento aiuta a penetrare la profondità dell’esperienza.

Un supporto straordinario può essere trovare quello che chiamo spirito guida, cioè un’entità che incoraggi e faciliti la connessione con l’alterità.

Vogliamo provare?

Prendi quell’albero in giardino. Se il civilizzato lo guarda e pensa a uno sgabello o una mensola, tu che sei un libertario subisci il fascino della natura e istintivamente ne rimani colpito. Osservalo con attenzione. Segui la sua chioma mentre oscilla al vento. Ascolta il fruscio delle foglie. Vibra con esse mentre captano la luce. Sfioralo, toccalo, abbraccialo a occhi chiusi. Senti il fremito? Non temere di perdere coscienza, è la tua volontà che attraversa la corteccia. Ora scorre nell’alburno, dove fluttua nei vasi conduttori che portano la linfa, scende e penetra il durame fino al midollo e poi si irradia nella terra attraverso le radici. Lo so, vorresti grattarti perché quelle formiche ti danno prurito, ma ormai la metamorfosi è compiuta.

Vogliamo provare con un animale o preferisci un sasso?

Sapevo che sceglievi Darko!

Guardalo mentre saltella felice. Concentrati profondamente sul suo corpo. I suoi movimenti. La sua gestualità. Cancella i pensieri! Che intorno si oscuri e condividiate l’attimo. Lo senti di nuovo il fremito? Adesso non percepisci più la consistenza della tua materia perché vedi con i suoi occhi, respiri con la sua bocca. Le gambe zampettano, il ventre sobbalza, il cuore batte. Ora sai cosa pensa, sei la sua stessa volontà. Insegui la farfalla. Annusi l’erbetta. Fai pure una pisciatina. Poi ti lanci la palla e così corri, la raccogli e te la riporti per dimostrarti che sei un bravo cane. E corri ancora. E saltelli di gioia. E ti accovacci fra le tue gambe. E sollevi il muso perché non puoi fare a meno del grattino. E appoggi la testa al tuo polpaccio prima di socchiudere gli occhi. «Ecco, bravo. Accarezza proprio lì!» mugoli. E come sei felice quando ti dici che ti vuoi bene…

Te l’avevo detto che è facile connettersi con le entità del mondo!

In fondo basta solo dare amore.

Immagine: U Konen, Sciena notturna, 1928

NOTE

*1 Poesia di Ungaretti: Sono una creatura, da Il porto sepolto, 1916.

URDERGROUND ANARCHICO CORRETTO PER DIVENTARE LIBRO

 

Raimondo Maria Dopraho

 

UNDERGROUND ANARCHICO

 

 

 

 

 

“Lotta. Più sarà intensa la lotta e più sarà intensa la vita”

  1. Kropotkin

 

 

 

1-L’ARRESTO

Sapevo che gli agenti erano venuti sul posto di lavoro. Sapevo che mi avevano cercato a casa perché è difficile che un ladro metta a soqquadro l’appartamento di uno che sta peggio di lui. Mai mi sarei aspettato di trovarli allineati in barriera mentre calciavo la punizione più importante del campionato.

Campetto di Mezzana, quello che d’inverno sembra una pista di pattinaggio, d’estate il deserto del Gobi durante una tempesta di sabbia. Piazzato il pallone, vidi Cirri che teneva la testa bassa, Vanni impegnato in un serrato esercizio respiratorio, Remì tremava.

«Tranquilli ragazzi, stavolta faccio rete!» li rassicurai. Perdevamo da tre partite consecutive e in quella stavamo già sotto di due reti: le sorti del campionato dipendevano maledettamente da quel calcio piazzato.

Impiegai un po’ per mettere a fuoco il delizioso bomber blu sopra i pantaloni slavati, lo scarponcino nero e il berretto tipo baseball con fregio ricamato. Avanzai lentamente ipnotizzato dalla targhetta con la scritta Polizia cucita sui giubbini. «Non hai pagato il campo neanche stavolta?» chiesi a Blasi.

«Sei tu Raimondo Dopraho?» ruggì un agente.

«Anche Maria» precisai. Ci tenevo al mio lato femminile.

Avanzò petto in fuori, mascella possente e occhietto infuocato, superandomi. Non potei seguirlo poiché il suo collega mi spintonò e rovesciai all’indietro, inciampando sul corpo del primo, accovacciatosi dietro le mie caviglie. Mi ritrovai steso sull’erba con un ginocchio sulla testa. Chi provava a scompormi le braccia, chi ballonzolava sulla mia schiena come se pigiasse l’uva, qualcosa di enorme si coricò su di me, immobilizzandomi. Dissi che, se volevano mettermi le manette, sarebbe bastato l’avessero chiesto. Anzi lo pensai e basta, perché non riuscivo a respirare.

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Mi risvegliai stordito in una cella vuota. Faceva male ovunque, ma almeno respiravo. Pareti graffitate, brandina puzzolente, porta con lo spioncino e uno scarafaggio sul materasso che calciai via prima che tentasse di socializzare.

Cigolò il portone della cella.

«Un po’ in ritardo questo tè!» scherzai.

L’agente, un ragazzotto col naso equino e il baffetto fulvo, per non essere meno simpatico, mi capovolse dalla branda trascinandomi per i capelli.

Legati i polsi e le caviglie con un sacchetto del supermercato, venni scortato nella più classica stanza degli interrogatori. Pareti glabre, tavolo rettangolare da una parte, su cui era adagiata una pila di fogli, qualche penna e una pallina di pongo. Vi sedevano un tizio allampanato con occhialini Cavour, barbetta rossiccia tipo Zach Galifianakis in Una notte da leoni1, camicina bianca, giacca grigia e, alla sua destra, una testa tale e quale al Gesù Stempiato di Duccio Boninsegna2, con le guance butterate e il corpo compresso in una divisa con tre formelle e un’aquila dorata sulla spalla. Davanti alla parete illuminata dalla finestra sbarrata, gobboni su un tavolino tondo, una testa cotonata su busto robusto di donna mi dava le spalle.

Due degli agenti che mi avevano scortato uscirono dalla stanza. Il terzo chiuse la porta e si piazzò davanti con sguardo da Guardia Reale. Neanche il tempo di sedere, che bussarono alla porta. Entrò una tracagnotta in uniforme con due bottigliette d’acqua e tre bicchieri di plastica.

«Le ho portato da bere, dottore!» squittì all’emaciato.

«Mi scusi» egli ne fermò la fuga. «Avevo chiesto anche qualche schiacciatina ai ciccioli» disse. Aveva una voce bassa, leggermente nasale, forse con un impercettibile sigmatismo.

Il volto avvampato che la donna esibì dimostrava tutto il rincrescimento per averle appoggiate su un tavolino senza prestare attenzione al doberman accovacciato sotto che, poverino, probabilmente aveva una fame mostruosa dopo aver inseguito tutta la mattina i lavoratori in sciopero senza riuscire a morderne uno.

«Giusto dieci minuti e arrivano!» sibilò.

Lo smunto si assestò nella poltrona.

Il commissario lo imitò.

La cotonata si volse, ma non feci a tempo a scorgerne il volto.

Il poliziotto a guardia della porta continuò a fare la sfinge.

Approfittando di quella acquisita normalità, sedetti pure io.

«Cominciamo con le presentazioni» disse la pertica. «Sono il dottor Ligio Pottutto, sostituto procuratore. Questo a mio fianco è il commissario Manganello, la signora alle sue spalle è Anita Servile». Riempì mezzo bicchiere d’acqua.

«Vuole bere?» chiese. «Magari dopo!» disse. Accese la sigaretta, un paio d’intense aspirate e: «Vuole fumare?» chiese. «Magari dopo!» Guardò l’orologio. «Ma questa focaccia coi ciccioli?». Alzò il telefono, chiese spiegazione del ritardo e riattaccò. «Sono in forno!» farfugliò stranito. «Prima di cominciare, mi permetta un appunto». Accigliato si rivolse al commissario. «Gliel’avevo chiesto cortesemente di non presentarmi indagati in questo stato!».

Il commissario abbassò gli occhi.

Invece io li spalancai. Un pubblico ministero sensibile ai diritti dei detenuti era davvero una bella sorpresa!

«L’ho detto una miriade di volte che mi fanno impressione!». Mi deluse subito. «Capisco che il lavoro è duro e avete bisogno di svagarvi, ma, per favore, portatemeli docciati, cambiati e con una faccia accettabile. Non voglio più ripeterlo!» Puntò il dito su di me: «E lei si pulisca il sangue, che sembra Freddie Krueger!». Mi passò il suo fazzoletto umidiccio.

Il commissario si dissolse e ricompose, tutto sommato, piuttosto velocemente: «Mi perdoni dottore» frinì. «Le garantisco che la prossima volta provvederò personalmente con un po’ di rimmel e fondotinta!».

«Splendido!». Il pubblico ministero spense la sigaretta sgozzandola nel portacenere. «Possiamo cominciare?», guardando me.

«Sono a sua disposizione!» replicai.

«Manganello, lei è pronto?»

«Sono pronto?». Sobbalzò.

«Dotto’, un momento, il computer non parte!». L’assistente con vocina spaurita. «Ho provato tre volte!»

«Forse se lo faceva una sola e fatta bene…!». Pottutto ghignò caustico.

E siccome la segretaria mi fece tenerezza perché continuava a picchiettare i tasti imbarazzata, «Posso?» mi proposi di aiutarla.

«Dove va?»

«Credo di aver intuito il problema». Infilai il caricatore nella presa. «Ora dovrebbe funzionare!». Tornai a sedere.

E in effetti, dopo qualche secondo, sullo schermo del computer apparve una spiaggia tropicale.

«Acceso!» confermò la segretaria.

«Niente male!» ammise il pubblico ministero. «Non si aspetti però che le conceda il patteggiamento per questo!»

«Già, non se lo aspetti!» echeggiò il commissario.

Chissà perché mi venne da pensare alla mia prima cena da detenuto. Me la immaginavo da quando ero nella cella: pollo lesso? Arrosto? Alla griglia? Zuppa? E se zuppa, come? Piccante come la faceva mia nonna? Alle verdure? Del contadino? Araba? Oppure una vellutata per tenersi leggeri? O magari c’è un menù e posso scegliere! Mah, quasi quasi glielo chiedo! Non glielo chiesi. «Sono pronto per cominciare!» dissi.

«Procediamo allora con le generalità!» Manganello ronfò.

«Un momento!». La segretaria si volse nuovamente.

«Che c’è ancora?»

«Il mouse non funziona!»

«Usi il dito!»

«Non lo so fare!»

«Me la concede una cortesia?». Pottutto si rivolse a me con tono gentile. «Mi dà un’occhiata lei, per favore?». Aggiunse: «ma non creda che…»

«Lo so, lo so, nessun sconto di pena!» replicai amabilmente.

NOTE

*1 Una notte da leoni, film, 2009.

*2 Opera del 1284.

 

 

 

2-COSA E’ L’ANARCHIA

2.1-AUTORITÀ E POTERE

«Prima di cominciare, vorrei informarvi di un piccolissimo dettaglio» proferii senza enfasi.

Il pubblico ministero mi invitò a proseguire con un gesto fiacco della mano.

Schiarii la voce. Il cuore batteva forte perché era una vita che sognavo di dire quello che stavo per dire. Tante volte ero stato sul punto di farlo: scontri di piazza, posti di blocco, occupazioni, reati vari, ma mai la soddisfazione di un pestaggio, di un arresto, di un banale fermo, di un mediocre controllo delle generalità per poter affermare: «dichiaro di non riconoscere l’autorità dello Stato. Sono quindi vostro prigioniero politico!».

A parte gli occhiali del pubblico ministero scivolati dalla gobba del naso fin sulla punta, non un movimento dei muscoli facciali, non un respiro, una scintilla in quegli occhietti di triglia che guarda dalla cesta. Forse solo le occhiaie segnalarono il colpo, tinteggiandosi di un cupo color catrame, prima erano marrone castagno, sicuramente più in tono con il grigio tortora della sua pelle. Il commissario, invece, rimase com’era, con la mano incastrata nel doppio mento, un occhio aperto uno chiuso, bocca allentata da cui scivolava la pallina rosa di chewing gum. La segretaria finse di cercare qualcosa nella borsetta. L’agente davanti alla porta Sfinge era, Sfinge rimase.

Non che mi aspettassi folle in subbuglio, dichiarazioni di guerra gridate dal balcone di Palazzo Venezia o l’ingresso di Mastro Titta1, una maggiore partecipazione, però, direi proprio di sì!

Ricordo d’aver pensato: wow, tutto qui? E adesso che faccio?

Improvvisamente il tempo ripartì: «Splendido!» Il pubblico ministero ricominciò a impastare la pallina di pongo. «Quindi, se non ho capito male, noi potremmo anche andare via!». Si rivolse beffardamente al commissario.

Manganello implose in un asfittico: «E dove andiamo?»

«Ma dove vuole andare, Manganello!». Guardò me: «Verbalizziamo quello che ci ha detto, o basta che lo teniamo a mente?». Guardò il compare: «Lei cosa consiglia?». Tornò a me: «Che si fa in questi casi?»

«Non so» esitai. «In teoria, se non riconosco l’autorità della legge, non ho violato alcuna legge. Per cui potrei anche salutarvi…». E poiché nessuno replicava: «Vado?».

Il volto di Pottutto avvinazzò a chiazze: «Mi faccia capire: se non riconosce l’autorità dello Stato, suppongo non riconosca neanche la mia…»

«Beh, direi proprio di no!»

«Non sia così drastico, Dopraho. Ci pensi bene. Ho studiato fino a trentasei anni per essere qui. Potrei offendermi!».

Meditai sollevando lo sguardo: «Ci ho pensato. No!»

«Quella del commissario?»

«Assolutamente!»

«E perché mai?»

«Vuole che glielo spieghi?».

«Pensa che starei a sentire?».

«Se me lo consente, partirei dal principio…»

«Adamo ed Eva?»

«No, la differenza fra autorità e potere… Diciamo così: c’è l’autorità e c’è il potere. L’autorità è un attributo, assegnato dalle tradizioni, dagli usi, dalla morale o dalla legge, che conferisce capacità a una persona, a un ente, a qualunque cosa di agire. In una parola: autorevolezza. Se esercitata implica un’influenza, diretta o indiretta, assoluta o parziale, un’obbedienza passiva, che non esige spiegazioni. Questo è il potere»

«Tipo il mio?» chiese Pottutto tronfio.

«Tipo il suo!» asserii. «Peccato che spesso si trasformi in dominio. Perché chi ha potere inevitabilmente ne abusa. Prendiamo lei. Lei possiede un’autorità conferita dall’ordinamento e dilatata dalla devozione pubblica, che le attribuisce la facoltà di interrogarmi, incarcerarmi, eccetera. Se però il suo comportamento è contrario alla norma, diventa arbitrio».

«L’importante è che non lo sappia nessuno!» si gongolò. «E per questo c’è…» Indicò Manganello.

«Così è per la regola statale o morale. Per quella naturale, invece…»

«Perché c’è anche quella naturale?» Ammiccò al maresciallo. «E che pena prevederebbe?» con sarcasmo.

«I dittatori sono giudicati dalla storia!».

«Così mi lusinga!»

«Quindi il potere diventa dominio ogni volta in cui si manifesta come arbitrio, cioè come esercizio di una potestà incontrastata. Presente quando Alberto Sordi, ne Il Marchese del Grillo, dice ai galantuomini: “Perché io so io e voi non siete un cazzo”2?».

Manganello frinì una risata trattenuta: «Troppo divertente Alberto Sordi!»

«Manganello, non sia banale!». Il PM lo riprese: «Vuole mettere Gian Maria Volonté?»

«E perché, la mimica di Nino Manfredi?» partecipai.

«Siamo mica qui per parlare di cinema!». Pottutto alzò la voce. «In base al suo ragionamento, io posserrei… possiderei… possetterei… avrei sia autorità, che potere, che dominio…». Sogghignò poi al fido scudiero: «Gliel’ho detto che possiamo fare quello che vogliamo!»

«Ecco perché quando portiamo i ragazzi nei sotterranei e poi diciamo che sono caduti dalle scale nessuno si lamenta!» esclamò il commissario.

«Perché quando gli mettete la droga nella tasche?». Pottutto ammiccò un occhiolino.

«E quando lei falsifica i verbali?». Manganello replicò a tono.

«Manganello, non vorrà svelare tutti i nostri segreti!». Il PM s’irrigidì. Poi tornò a me: «Scommetto un mese del suo internamento che c’è un “ma”!»

«E’ una fortuna avere davanti un PM così sagace!» lo adulai.

«Dica dica, sono proprio curioso!».

«Il confine fra l’auctoritas, cioè il potere di fare, e la potestas, cioè il potere su qualcosa, è molto labile. Facile quindi si generino abusi, prevaricazioni, servitù, violenze. Per questo gli anarchici desiderano un mondo senza autorità, cioè potere, quindi dominio, coercizione, oppressione. Comunque si crei e si sviluppi. Per contrastarlo, siccome sono inguaribili sognatori, partono dalla sua manifestazione più sguaiata… Che è?».

Pottutto fece labbrino. Manganello finse di rileggere gli appunti.

«Vi do un indizio: Stirner lo chiamava fantasma

«Chi è Stiner?». Il pubblico ministero domandò a Manganello.

«Stine, l’albanese arrestato ieri per violenza sessuale?». E con occhietti dolci: «A proposito, dopo che gli ho strappato i molari, ha confessato!»

«Stirner, con la erre!» precisai. «È un filosofo dell’ottocento autore del libro l’Unico e la sua proprietà. Un testo fondamentale per l’anarchismo4».

I due replicarono con la faccia inequivocabile dell’ignoranza.

«Stirner definiva lo Stato un fantasma… Certo, dal XIX secolo la società è molto cambiata. Dopo la Seconda guerra mondiale, ad esempio, il post-modernismo, Foucault in particolare, ha dimostrato che il potere si manifesta in tutte le relazioni quotidiane, come l’educazione, la sanità, il governo, che operano fra loro realizzando governamentalità molteplici5. Ciò nonostante, l’abuso istituzionalizzato rappresenta, oggi più di prima, la sublimazione delle quotidiane prevaricazioni. Per questo l’anarchico era e sarà sempre un nemico dell’autorità pubblica. Mi spiace dottore, ma per gli anarchici non esiste alcuna sovranità al di sopra della propria!».

«Questo è un bel problema!» Pottutto bofonchiò, poi riprese a manipolare la pallina di pongo.

 

NOTE

-1 Mastro Titta, all’anagrafe Giovanni Battista Bugatti (1779-1869), famoso boia dello Stato Pontificio.

-2 Il Marchese del Grillo, film con Alberto Sordi, 1981.

-3 Max Stirner, L’unico e la Proprietà, 1844.

*4 Michel Foucault, L’etica della cura di sé come pratica della libertà, intervista del 20.1.1984, in M Foucault, Antologia.

 

 

 

 

2.2-UNDERGROUND ANARCHICO

«Non le dispiacerà quindi se tralascio la lettura delle accuse. Sono due pagine!». Pottutto scartabellò i fogli poi ebbe un ripensamento: «Non è curioso? Neanche un pochino? Non le interessa sapere che si va dall’associazione sovversiva, al terrorismo, al disfattismo politico…?»

«Pure il disfattismo?» lo interruppi. «Siamo mica in guerra!»

«La vita è una guerra!» sghignazzò il pubblico ministero.

«A proposito…» dissi.

«Prego!». Mi guardò da sopra gli occhiali.

«Non dovrebbe essere presente il mio avvocato?».

Pottutto oscillò la testa. «Dovrebbe?» chiese a Manganello. «Verbalizzeremo come sommarie informazioni. Sarà una cosa informale. Fra amici, diciamo. Le piace così?».

Strappò coi denti il filtro della sigaretta e lo sputò facendo canestro nel cestino. La passò sulle labbra, la accese. Lesse a voce bassa qualche frase dal primo foglio: «Mi risulta che a dicembre del 2022 lei abbia aperto un blog dal nome di Underground Anarchico». Esibì una foto della home page. «Conferma?»

«Confermo.»

«Splendido!» assentì compiaciuto. «Carina la grafica!». Mostrò il logo al commissario. «L’ha fatta lei?»

«No.»

«Sa che mio figlio studia grafica? È anche bravino! Pure onesto sul prezzo! Se le servisse per le prossime volte… Perché questo nome?»

«Underground Anarchico?». Sollevai le spalle: «Mi sono ispirato al film di Kusturica.»

«Kusturica, certo!»

«Kusturica come Costanzo?». La segretaria chiese senza voltarsi.

«Kusturica come il regista del film Underground1» precisai. «Con la K all’inizio e la C finale.»

«Kusturizac?»

«Prima della A. E senza la Z.»

«Kusturicac?»

«Mi affascinava la storia di un gruppo di persone che vive per anni un’esistenza parallela a quella reale, ignorando la guerra, il regime di Tito, quanto accade fuori. Mi sembrava rappresentasse in maniera efficace, seppur surreale, quell’idea di esistenza alternativa a cui ho accennato nel blog. Perché vede…»

«Okay, okay!». Il pubblico ministero mi interruppe. «Il film le è piaciuto. Ma non credo la recensione sia rilevante ai fini delle indagini». Lasciò i fogli e appoggiò la schiena alla poltrona. «E perché la bandiera nera?»

«Perché è la bandiera degli anarchici.»

«Sembra il Jolly Roger dei pirati!»

«Forse perché siamo tutti un po’ pirati un po’ signori!2»

«Si è dimenticato il teschio, pero!»

«Un vezzo di originalità!» ironizzai.

«E perché l’aggettivo anarchico?»

«Perché parlo di anarchia, coglione?» avrei voluto rispondere. Invece: «L’ho trovato poetico!»

«Mi spieghi in che senso anarchico sarebbe un aggettivo poetico, perché non vedo poesia nel fatto che sia qui!»

Su questo niente da obiettare.

«E non vedo poesia neppure se quattro imbecilli imbrattano i muri di una strada o se dei giovani incappucciati sfasciano delle vetrine. Non le pare?». Con lo sguardo cercò l’approvazione di Manganello.

«Per non parlare della musica anarco-punk? Quella sì che…!». Il commissario ci sorprese.

«Anarco-punk?» chiese Pottutto come se non avesse capito bene.

«Clash, Sex Pistols, Crass, i Chumbawamba!»

«Mi spieghi quindi perché si definisce anarchico». Il pubblico ministero tornò a me.

«Lo spiego?»

«Spieghi, spieghi!».

Passai la mano sulla bocca. Milioni di parole, sensazioni, immagini, esperienze mi inondarono la testa. Non era facile sintetizzare. Perché l’anarchia era in me da sempre come io ero per lei. Era i miei pensieri, le mie azioni, le mie aspirazioni. Anarchica era la mia concezione della vita, la propensione con cui mi relazionavo con gli altri, il talento grazie al quale mi determinavo. Era un’idea meravigliosa diventata filosofia di vita, che pulsava nelle vene e batteva, sussultava, martellava incessante.

«Signor Dopraho?» il PM mi riportò nella stanza degli interrogatori.

Recuperai una posizione che mi desse solennità e chiesi se aveva letto il mio blog: «Dopo tutto, sono qui per questo, no?»

«No!». Il pubblico ministero d’impulso. «Cioè sì, è qui per questo!» si corresse. «Quanto al blog, ho letto qualche stralcio». Tossicchiò nervosamente. «Ma è stato più che sufficiente, mi creda!»

«Allora vi avrà trovato la risposta alla domanda» proferii serafico.

«Nel blog?»

«Se l’ha letto!»

«Giusto!» ansimò. «Solo che cercarla adesso… saranno cento, duecento, trecento pagine!» Indicò la pila di fogli legati da un elastico che troneggiava sul tavolo.

«Le trova proprio all’inizio. Cerchi pure… Leggiamo insieme?»

«Non starà scherzando?»

«La vita è tutto uno scherzo di cui non siamo altro che gli inconsapevoli protagonisti!» Cominciavo a divertirmi.

Temetti che quell’improvvisa arterite alla tempia sarebbe esplosa. Così, quando la sua mano arrancò sulla scrivania in cerca della pallina di pongo, la spinsi verso di lui.

Impastare per qualche secondo lo calmò. «Quale articolo devo cercare?» chiese.

 

NOTE

*1 Underground, film di Emir Kusturica, 1995.

*2 Julio Iglesias, Sono un pirata ed un signore, 1978.

 

 

 

 

2.3-DIFFERENZA FRA ANARCHIA E ANARCHISMO

 

Prima di dare una definizione di anarchia, mi sembrò opportuno spiegare la differenza fra il termine anarchia e anarchismo.

«Le chiedo solo di essere il più breve possibile!»

Promisi di fare del mio meglio.

«Cos’è l’anarchia?» riflettei a voce alta. «L’anarchia è tante cose… Per me, direi, è un sentimento. Un sentimento di avversione verso qualunque forma di autorità, di oppressione, sopruso, ingiustizia. Ma non tipo: vedo un extracomunitario picchiato dal caporale, mi dispiace per lui ma tiro dritto. Più come: vedo un extracomunitario picchiato dal caporale e il giorno dopo gli faccio trovare i chiodi nel punto in cui parcheggia il furgone ogni mattina

«Manganello aggiunga: danneggiamento a proprietà privata!». Il pubblico ministero si eccitò.

«C’è già!» confermò il maresciallo.

«Allora scriva… manovre speculative su merci!». E a me: «Le piace?»

«Non so cosa sia, ma suona benissimo!» mi congratulai. Ripresi a parlare: «L’anarchia è soffrire delle sofferenze altrui e desiderare che tutti gli altri abbiano eguale libertà e “giustizia”1».

«Tutto qui?» chiese Pottutto con un’espressione piuttosto delusa.

«Mi ha chiesto di essere sintetico!»

«Prosegua!»

«Il sentimento di disprezzo verso ogni forma di prevaricazione si sviluppa in una molteplicità di valori-scopi, da cui derivano altrettante tattiche. Gli anarchismi, appunto. Si pensi all’antitesi fra anarco-comunismo e anarco-capitalismo. L’elemento comune di tutti questi anarchismi, però, è e sarà sempre l’antiautoritarismo, cioè l’attitudine a negare, reagire e lottare contro ogni forma di dominio politico, economico, sociale, religioso, morale per costruire una società in cui ognuno sia libero di realizzare se stesso “senza essere né servi né padroni di nessuno”». Conclusi: «L’anarchia è quindi un sentimento, un’aspirazione. L’anarchismo è la sua attuazione. Pensiero e azione!»

«Pensiero e azione? Questa l’ho già sentita…» gorgogliò Pottutto. «La Giovine Italia? Mazzini, il grande patriota!2»

«Proprio lui!» convenni. «Quel gran patriota su cui pendevano due condanne a morte per terrorismo!»

«Altri tempi quelli!». Pottutto Sospirò.

NOTE

*1 Errico Malatesta, La Base morale dell’anarchismo, 1922.

*2 Pensiero e Azione è una rivista edita da Giuseppe Mazzini fra il 1858 e il 1860. La Giovine Italia è un’associazione politica insurrezionale fondata da Mazzini nel 1831.

 

 

 

 

2.4-L’ANARCHIA NON E’ CAOS

 

«Non è vero che noi anarchici vogliamo fare quello che ci pare!» eccepii. «Abbiamo una visione antigerarchica della società, ciò non significa che non ci sono regole. L’anarchia mica è anomia!». Mi infervorai.

«Ma se nessuno comanda?»

«L’anarchia non è il caos. Così viene narrata dai media, così credono i sempliciotti, così è perché la massa ragiona per luoghi comuni manipolati da chi ha interesse a mantenere gli antagonismi. La realtà però è ben altra cosa. Il caos è provocato dalla disuguaglianza, cioè dagli squilibri di un mondo in cui prevale la forza del dominante sul dominato. Nello stato di natura gli uomini vivevano in armonia, spontaneamente, erano dei bravi selvaggi. Poi qualcuno ha creato la proprietà, sono nate le associazioni e i furbetti di turno hanno inventato lo Stato per difenderla1».

«Un po’ semplicistico!» obiettò il pubblico ministero.

«Stai a vedere che la salvezza dell’umanità è il ritorno alla scimmitudine!» si inserì Manganello.

«Si dice scimmiezza!». Pottutto lo corresse.

«Volevo semplicemente dire che il disordine si crea laddove c’è frustrazione, alienazione, spaesamento, superstizione, subordinazione, soggezione. Cioè dominio. Sa che già nel 1849 Proudhon affermava che l’anarchia è ordine senza potere?2»

«Non l’ho capita!»

«Conoscerà allora l’aforisma secondo cui la libertà è madre, non figlia dell’ordine

«No. Lei Manganello?».

Manganello trasalì: «Io conosco il coro: “o mamma mamma mamma, sai perché mi batte il corazon”…!» intonandolo pure.

«L’insegnante e lo studente, il carceriere e il detenuto, l’imprenditore e l’operaio, il marito e la moglie in una famiglia patriarcale, il governo e il cittadino-suddito, l’economia e i consumatori, sono alcuni esempi di rapporti di soggezione o gerarchici o chiamateli come volete, che l’anarchia vuole eliminare con l’obbiettivo di costruire un’alternativa armonica, pluralistica e antiautoritaria in cui ognuno possa realizzare se stesso in comunione con gli altri, senza prevaricazione dell’individuo sull’individuo, della società sull’individuo, delle istituzioni sull’individuo».

«Ma se nessuno comanda, chi comanda?».

Eravamo solo all’inizio dell’interrogatorio, ma già avevo la certezza che sarebbe stata una lunga giornata.

 

Note

*1 Jean Jacques Rousseau, Discorso sull’ineguaglianza, 1755; Emilio o dell’educazione, 1762.

*2 P. J. Proudhon, confessioni di un rivoluzionario, 1849.

 

 

 

 

2.5-L’ANARCHIA NON E’ COMUNISMO

«Un’altra caratteristica essenziale dell’anarchia è che essa non è una filosofia sistematica ma pratica. Forse l’unica che può definirsi tale. Non fluttua nell’astrazione, ma scava nel fango in cui l’essere si trova quotidianamente intrappolato. Ẻ pensiero e azione. Pensiero che aspira alla libertà e all’eguaglianza, azione finalizzata a realizzarla. Per questo fa così paura!»

«Più che paura, direi, rompe i coglioni!» rilevò Pottutto.

«Sicuramente» sorrisi. «Ma solo a chi sta al potere!»

«Parla come i comunisti!». Manganello si illuminò.

Mi aspettavo quell’obiezione: «Il comunismo non c’incastra niente!». Sollevai teatralmente le mani in un gesto di rifiuto. «A eccezione di alcuni pensatori libertari come ad esempio Landauer, che sostiene che l’anarchia è il fine il socialismo è il mezzo, vale per tutti l’affermazione di Bakunin, secondo cui il così detto stato popolare è nient’altro che il governo dispotico della massa da parte di un’aristocrazia nuova e molto ristretta». Con tono elastico aggiunsi: «Bakunin è uno dei padri dell’anarchia. Un vero rivoluzionario. Conoscete?»

«Non mi sovviene! A lei Manganello?»

«Non mi dice nulla. Signorina Servile» si rivolse alla segretaria, «mi può dare un’occhiata alla banca dati per vedere in quale carcere è detenuto?»

«È morto in Svizzera» precisai.

«Vedi i colleghi elvetici!» esclamò il maresciallo con un pizzico d’invidia.

«Nel 1876. Per morte naturale!» lo delusi. «L’anarchia, come il liberismo e il comunismo, nasce fra il XVIII e il XIX secolo in reazione al machiavellico separatismo fra etica e politica. Presente la frase il fine giustifica i mezzi? A un certo punto ci si rese conto che autorizzare il potere a fare quello che vuole non era il massimo, così i liberali provarono a tirare le fila con la teoria contrattualistica. Poi vennero i comunisti col materialismo storico. Distante dagli uni e dagli altri, c’è l’anarchia. Posso?» chiesi il permesso di prendere la pila di fogli su cui erano stampate le pagine del mio blog.

«Assolutamente no!». Pottutto batté sopra la mano.

«L’illuminista Godwin è considerato l’iniziatore dell’anarchia moderna perché per primo nega qualunque forma di dominio. È grazie a lui che, anni dopo, Proudhon affermerà che il governo dell’uomo da parte dell’uomo è la schiavitù. Per gli anarchici, infatti, niente e nessuno può comandare l’individuo poiché non esiste un’autorità che gli è superiore. Ecco perché rifiutano i totalitarismi, seppur popolari!»

«Si riferisce ai comunisti…?» chiese Pottutto.

«E i socialisti?» domandò Manganello.

«Che c’entrano i socialisti, Manganello!». Il PM lo rimbrottò. «Lo sanno tutti che sono stati fatti fuori dai comunisti perché erano invidiosi dei democristiani!»

«Ma dai?»

«Tangentopoli!».

Manganello avvampò: «I comunisti sono democristiani? O i democristiani sono socialisti? Non ci sto capendo più niente».

Proseguii: «Esistono un’infinità di motivi che portano gli anarchici a diffidare di qualunque sistema che trasferisce il dominio da un tipo di Stato all’altro mantenendo il principio di autorità e il conseguente sfruttamento degli uomini. Il comunismo non è esente.»

«Me ne dica tre perché dobbiamo passare ad altro.»

«Ma sono molti di più!»

«Allora non li voglio sapere!». Pottutto ghignò beffardo. «Prego!»

«Grazie!»

«Non c’è di che!»

«Esso sfocia inevitabilmente nel dispotismo. Elisee Reclus parlando ai troppo spesso fratelli nemici, i comunisti, diceva che l’uomo che va in carrozza non sarà mai amico dell’uomo che va a piedi. Come Bakunin, ne aveva intuito la deriva autoritaria in quanto raggiunto il potere, avrebbero fatto uso anche loro dei suoi strumenti coercitivi: esercito, preti, magistrati, carabinieri, poliziotti e spie1». Mi fermai un attimo. «Il secondo motivo è che socialismo, comunismo, liberismo e altre soluzioni stato-centriche negano la sovranità individuale». Con la mano indicai il numero tre. «La terza è forse più intuitiva, ma non meno importante: socialismo e comunismo cancellano la libertà. Al contrario, il liberismo sacrifica l’eguaglianza in suo nome. Per gli anarchici, invece, non c’è libertà senza eguaglianza e non c’è eguaglianza senza libertà. La dimensione etica anarchica fa leva proprio sul presupposto che la vera libertà individuale si realizza garantendo l’eguaglianza del prossimo e che l’eguaglianza del prossimo ha bisogno della completa realizzazione di ogni singola libertà. Per l’anarchia si è liberi quando si è uguali e si è uguali quando si è liberi: né opprimere, né essere oppressi, direbbe Emile Armand: né servi né padroni!».

Il pubblico ministero portò la penna fra i denti e mi fissò dubbioso.

Il maresciallo lo imitò. Ma anziché tra i denti la punta del lapis finì in una narice. «Ahia!» starnazzò.

«Ha finito?» chiese il pubblico ministero. Poi si massaggiò la pancia. «Mi consente una chiamata?»

«Prego!» dissi.

«Sono Pottutto, con chi parlo? Assistente Randello può cortesemente procurarmi una lavagna? Non una lavanda, ho detto una lavagna!… Non ho detto bevanda, ho detto lavagna, come quella che sta in classe! … Come non è mai andato a scuola?». Guardò Manganello: «Da quando assumete gli analfabeti?».

Gli occhietti del commissario articolarono un prolungato nistagmo: «il sovraintendente Coltello ci teneva tanto che suo genero lavorasse con noi!»

«Dei cartoncini bristol? Non avete neanche quelli?». Tappò la cornetta e si rivolse a Manganello: «Capisco l’ignoranza e chiudo un occhio per la raccomandazione, ma che sappiano almeno mettere due neuroni insieme, cribbio!». Gli fumavano le orecchie. «Già che ci sono, Randello, volevo anche chiederle… Mi ha riattaccato!». Per qualche secondo si guardò intorno con aria da naufrago che si è appena svegliato sulla spiaggia di un’isola deserta. Ricompose il numero: «Randello, è sempre lei? Ispettore Puntello buongiorno, sono il pubblico ministero Pottutto. Sto chiamando dalla stanza degli interrogatori. Posso chiedere a lei?». Pausa. «La schiacciata coi ciccioli a questo punto sarà carbonizzata!». Si morse il labbro. «So che non è un cameriere!». Pausa. «So che sta lavorando!». Pausa. «So che… ehi, abbassi la voce. Sa chi sono io?». La faccia divenne color mammola e riemerse la famigerata arterite alla tempia. «Mi ha riattaccato!» bisbigliò nel vuoto.

«Vuole che solleciti io?». Indicai il telefono.

Disse che preferiva lasciar perdere. Infilò una mano nella tasca della giacca ed estrasse un contenitore di plastica con dentro un triangolo di castagnaccio. «L’ha fatto la mia mammina!» gemette.

E così, tra un morso e un altro, gli raccontai del voltagabbana comunista nella guerra civile spagnola: «Sa che probabilmente sono stati i sicari stalinisti a uccidere il leader anarchico Buenaventura Durruti?… La stessa fine che i marxisti hanno fatto fare a Nestor Machno e agli anarchici durante la guerra civile russa. Finché gli facciamo comodo…!»

«Non ci pensi!». Pottutto mi consolò.

«Però spiace. Perché se i comunisti fossero stati meno stronzi, adesso, invece di essere qui, avrei potuto battere la punizione che avrebbe salvato la mia squadra dalla retrocessione!».

Note

1 Elisee Reclus, L’Anarchia, 1894.

 

 

2.6-TRILUSSA

 

A proposito di socialismo, mi venne in mente una poesia di Trilussa.

«Vogliamo farci una risata?» proposi al pubblico ministero.

«Ci dice tutti i nomi degli anarchici che hanno collaborato con lei?»

«Molto meglio!»

«Ha deciso di iscriversi al concorso per allievi ufficiali?»

Il pubblico ministero sfogliò le pagine del blog fino ad arrivare a quella che avevo indicato.

Mi bastarono due versi per capire che manco la filastrocca del pulcino avrebbe saputo intonare.

«Dia a me!» lo esortai.

«Provo io?». Manganello si propose.

«No!» rispose un coro che comprendeva oltre al sottoscritto e il pubblico ministero, anche la segretaria e, seppur con un sibilo informe, la Sfinge davanti alla porta.

«Mi raccomando, silenzio finché non ho finito!» li istruii. Cominciai:

«Un Gatto, che faceva er socialista

solo a lo scopo d’arivà in un posto,

se stava lavoranno u pollo arrosto

nella cucina d’un capitalista.

 

Quanno da un finestrino su per aria

S’affacciò un antro Gatto: Amico mio,

persa – je disse – che ce so pur’io

ch’appartengo a la classe proletari!

 

Io che conosco bene l’idee tue

So certo che quer pollo che te magni,

se vengo giù, sarà diviso in due:

mezzo a te, mezzo a me… Semo compagni!

 

-No, no: – rispose er Gatto senza core

Io nun divido gnente cò nessuno:

fo er socialista quanno sto a diggiuno,

ma quanno magno so conservatore!1».

 

Terminata la lettura seguì qualche secondo in cui il pubblico ministero e il maresciallo non batterono ciglio. Fu la segretaria la prima a strozzare un abbozzo di risata. Bastò perché Pottutto gorgogliasse un: «Ah!» vibrato, a cui seguì l’eh, eh! di Manganello che lo fissava per capire se e quanto osare.

«Carina!» disse il primo sospettoso. «Socialista quando ha fame… conservatore quando mangia…»

«È geniale!» replicai deluso da quella reazione asfittica. «Carina è una felpa. Carina è la giraffa di peluche che si vince al Luna Park. Carina può essere Elisabetta Canalis!»

«No, quella è bona!». Il maresciallo sciolse gli istinti.

«Manganello!». Pottutto lo riprese. E parlandogli con la mano davanti alla bocca: «Chi è Elisabetta Canalis?»

«Non la conosce?»

«Dovrei?».

Il maresciallo smanettò il cellulare e gli mostrò una foto in cui la soubrette era avvolta da pizzi e trasparenze.

«Simpatica!» il PM frinì. «Simpatica e intelligente!»

«Suvvia, dottore!» Manganello gli fece gomitino. «Si lasci andare. Altro che simpatica, questa è proprio bona!».

 

NOTE

1, Trilussa, Er compagno scompagno, poesia.

 

 

 

 

 

2.7-L’ANARCHIA NON E’ NICHILISMO: DISTRUGGERE E EDIFICARE

 

Il PM sbirciò nuovamente l’immagine della showgirl.

«Andiamo avanti con l’interrogatorio?» dissi. Non capivo se la sua espressione fosse dovuta alla consapevole rassegnazione che non gli sarebbe mai toccata oppure a quel tipo di biasimo che neanche anni di liberazione sessuale con Wilhelm Reich1 avrebbero sanato. «Vorrei sottolineare un altro aspetto…»

«Su di lei?». Puntò il dito sulla soubrette.

«Dell’anarchia.»

«Giusto, dell’anarchia. Di quello parlavamo!»

«In tanti associano erroneamente l’anarchia al nichilismo. Sono due cose completamente diverse» sentenziai.

«Diverse!». Pottutto gorgogliò ancora imbambolato.

«Benché abbiano tratti comuni…»

«Comuni.»

«Granciporro!» dissi per vedere se ripeteva anche quello.

«Come?»

«Dicevo che il nichilismo e l’anarchia sono due cose completamente diverse. Il nichilismo è una dottrina filosofica che…»

«Mi scusi se la interrompo» mi fermò il magistrato.

«Non si preoccupi, sarò breve!» avendo intuito cosa volesse chiedere. «Il nichilismo nasce verso la metà del XIX secolo. Si sviluppa in Russia e si diffonde in Europa come critica radicale della società, dei suoi valori, delle sue leggi, della metafisica, della morale. Molti dei suoi esponenti, infatti, pianificavano di sovvertire i regimi uccidendo i tiranni. Ma il nichilismo è anche una filosofia. Afferma che, se il reale non è reale, non è possibile conoscerlo, quindi la realtà è nulla.»

«Non fa una piega!» disse Manganello.

«Zitto un po’!» Pottutto pensieroso. «Tipo Gorgia? Anche lui, se non sbaglio…»

«Si vede che ha fatto il classico!» lo adulai. «E ha ragione, perché la filosofia è come un bravo cuoco, non butta via niente!» dissi. «Esso nasce in reazione alla fede irrefutabile che l’illuminismo riponeva verso la ragione e trova in Artur Schopenhauer uno dei principali sostenitori. Egli afferma che il mondo non esiste perché è pura apparenza, però la volontà può percepirlo attraverso la propria negazione. Un po’ contorto, lo so. Ma Il mondo come volontà e rappresentazione è un libro bellissimo2. Anche Stirner può considerarsi un nichilista…»

«L’albanese?»

«Il filosofo!»

«Anche Stirner, dicevo, è considerato un teorico del nichilismo, soprattutto per le sue posizioni antireligiose e negazioniste. Ma l’elenco dei sostenitori è lunghissimo. Pensate che alcuni anarchici, in gran parte anarco-individualisti, si dichiaravano nichilisti per distinguersi dalla corrente sociale dell’anarchismo. Mi viene in mente Renzo Novatore, che si vantava di negare qualunque cosa e lo faceva, parole sue, con entusiasmo dionisiaco che irride qualsiasi prigione teoretica, scientifica, morale. Un rifiuto del mondo che lo portava a lottare contro le strutture coercitive per affermare la propria capacità di potenza3

«Sembra Nietzsche!»

«Novatore si è molto ispirato al grande filosofo. Parla di capacità di potenza da realizzare attraverso azioni di lotta individuale, spesso anche violenta, contro il sistema…»

«Un rompipalle, insomma!»

«Coi controfiocchi!»

«E dov’è che abita questo Novatore?»

«Abitava!»

«Si è trasferito?»

«Anche lui è morto.»

«No!» tuonò Manganello candidamente deluso.

«Commissario» lo rasserenai, «mica li può arrestare tutti!».

++++

«Se il nichilismo nega pervicacemente la società, Dio, l’uomo, l’essere, l’anarchia si sviluppa in tutt’altro modo. Essendo una dottrina pratica che ambisce al progresso della condizione umana, contempla la distruzione dell’ordine esistente per sviluppare una realtà alternativa, diversa, migliore. Diceva, infatti, Proudhon: destruam et aedificabo4. Ovvero: distruggerò e edificherò. Gli anarchici abbattono per creare. Non per piacere o bisogno o semplicemente per negare, ma per realizzare il fine etico di una società più giusta. E quando anche Bakunin afferma che la passione per la distruzione è anch’essa passione creatrice è convinto, come lo sono tutti gli anarchismi, dell’importanza di cancellare gli impianti, gli apparati, le dottrine, l’ideologia, la morale, qualunque dogmatismo che regge il sistema per crearne uno nuovo fondato su una libertà ed eguaglianza che siano finalmente reali, concrete, incondizionate, reciprocamente godibili, non concesse dall’alto.»

«E così si ritorna all’autorità!». Manganello sollevò la testa.

«Sempre là si va a finire!». Il pubblico ministero mugugnò con un’espressione sufficiente.

«Quindi l’anarchia non è nichilismo. Non vuole distruggere punto e basta. Vuole sì eliminare ogni forma di autorità che deturpa lo spirito umano, ma vuol anche costruire un mondo antiautoritario e paritario. Destruam et edificabo, appunto! Distruggere le dipendenze alienanti per diventare padroni di se stessi. Finalmente attori principali della propria vita. Questa è l’anarchia».

 

NOTE

1 – Reich, assertore della liberalizzazione sessuale per eliminare la “corazza caratteriale” che impedisce alle persone di essere felici.

2 – Artur Shopenhauer, Il Mondo come volontà e rappresentazione, 1819.

3 – Renzo Novatore, da Anch’io sono un nichilista, articolo scritto nel 1920.

4 – Proudhon, Il sistema delle contraddizioni economiche, 1846.

 

 

 

 

2.8-MORALE ED ETICA

«Ma c’è di più!» li presi in contropiede.

«Ci vuole dire dove tenete le armi?». Pottutto si eccitò.

«Le nostre armi sono le parole!» scherzai.

Dalla tasca interna della giacca, la stessa da cui prima aveva tirato fuori il castagnaccio, prese una clessidra. «Le do due minuti!». La sabbia cominciò a cadere. «Uno e cinquanta, uno e quarantanove, uno e quarantotto…».

Presi fiato. «L’anarchia è una scelta etica» sentenziai. «Conoscete la differenza fra etica e morale?» chiesi.

«La morale è andare a messa!». Il pubblico ministero improvvisò.

«Commettere un reato è immorale!» aggiunse il maresciallo per non essere da meno.

«La differenza è molto semplice: la morale è quel complesso di valori, ideali, tradizioni culturali e religiose che una società si dà per soddisfare il bisogno di sopravvivenza. E la società cos’è? È quella somma di persone riunite da un potere sovrano a cui viene detto che solo realizzando il suo interesse potranno conseguire il proprio. Quindi la morale è data dai valori, ideali, eccetera eccetera, che tale Potere crea e impone per legittimarsi e perpetuarsi. In altri termini, la morale è uno strumento di controllo: devi fare quello, non devi fare quello!». Conclusi: «E se per i primitivi queste prescrizioni si saldavano nelle consuetudini, in epoca medioevale negli imperativi religiosi, oggi che Dio è morto…»

«Come è morto?». Manganello sobbalzò sorpreso.

«È un po’ che è morto!» replicò saccente il pubblico ministero.

«Lo sanno tutti che la civilizzazione gli ha dato il colpo di grazia!» dissi.

«Ma dai!»

«La tecnologia ha ucciso l’immaginazione e senza immaginazione…». Non c’era bisogno che terminassi la frase. «Morto Dio, il suo posto è stato preso dallo Stato prima, dal capitalismo scientifico poi. Non cambia granché: una volta l’autorità stava lassù, oggi sta qua giù, in mezzo a noi. E non c’è autorità che non esprima la sua morale». Mi presi una pausa. «Ma, oltre a consentirle la conservazione, perché l’autorità ha bisogno della morale?»

«Per essere più giusta?»

«Wow, il nostro Manganello!» giubilai. «Soprattutto perché senza morale non ci sarebbero gli ingiusti, e senza ingiusti, il Potere non potrebbe proclamarsi giusto!». Schiarii la voce. «Non è detto, però, che un comportamento moralmente corretto sia anche oggettivamente corretto. Faccio un esempio: mio padre, oltre a essere un bevitore numero uno, aveva il vezzo di dimostrarci il suo amore con delle sane labbrate. Un giorno vidi mio fratello che frugava nel suo armadio. Colto in flagrante, confessò che stava cercando qualche spicciolino per uscire con gli amici. L’avessi riferito al babbo, cioè avessi raccontato la verità, avrei tenuto un comportamento moralmente corretto, ma mio fratello avrebbe preso una tale vagonata di botte che non lo avrei più riconosciuto. Non avessi detto la verità, sarei stato complice, cioè avrei tenuto una condotta moralmente improba, e il vecchio avrebbe cambiato i connotati anche a me.»

«Scommetto che non ha detto niente!». Pottutto sogghignò.

«I soldi li ho presi io. Così mio padre non è impazzito e mio fratello non ha rischiato la vita… e sono andato al cinema con la mia ragazza!».

Il pubblico ministero mi fissò interdetto. Poi: «Mi spiace, ma la clessidra…». La indicò per mostrare che la sabbia era scesa completamente.

«C’è l’extra-time» dissi. «Mi avete interrotto più volte!».

Alzarono le mani.

++++

«L’etica, dal greco ethos, cioè carattere, comportamento, ha un significato più ampio. Di fronte a una determinata situazione, a una condotta da tenere, una scelta da fare, l’individuo si interroga su cosa è giusto e cosa è sbagliato. Attiva quindi un ragionamento che tenga conto degli aspetti personali, sociali, ambientali, altro, che lo portano a una soluzione che contempli la sua personale idea di giustizia». Li vidi dubbiosi. «Faccio un esempio. Se mi trovo in un bosco, posso buttare la sigaretta accesa fra le sterpaglie rischiando un incendio, oppure posso spengerla con le dita e metterla in tasca. Decido per questa seconda alternativa in quanto valuto che, se provocassi un incendio, non solo violerei la legge, cosa di cui mi fregherebbe il giusto, ma ucciderei gli alberi, gli animali, la natura circostante, cosa di cui non mi darei pace. Attraverso un giudizio razionale-emotivo, quindi, scelgo un comportamento che realizza il mio senso di giustizia, ovvero proteggere madre natura. Questa è l’etica.»

«No, questa è la morale!» replicò Pottutto piccato.

«No, è etica!» ribattei.

«È morale!» insistette.

«Etica!». E siccome le sue vene cominciavano a gonfiarsi: «Prego!» Gli passai la pallina di pongo. «Se non si arrabbia, glielo spiego in un altro modo!» dissi conciliante.

«Già, lo spieghi anche a me, perché non ho mica capito tanto bene!» sibilò il maresciallo.

«Lo spiego a entrambi, contenti?». Mi voltai verso le segretaria gobboni sul computer. «Lo spiego anche a lei, signorina?».

Fece no col ditino.

«Ho detto che il Potere impone alla società la sua morale per non estinguersi. Ma chi o cos’è questo Potere?» chiesi a bruciapelo. «Ve lo dico io!» li soccorsi. «È il potere economico: chi ha i soldi. In una società autoritaria, sempre loro comandano!» dissi con la faccia dell’ovvietà. «Quindi la morale è quell’insieme di linea guida a cui le persone devono conformarsi per soddisfare il potere economico che si ramifica nelle molteplici strutture di dominio. Fin qui ci siamo?».

Proseguii: «Con l’etica la situazione si ribalta: è l’individuo che giudica, dubita, valuta, sceglie. Non è più un soggetto passivo, ma diventa attore, interprete e giudice della contingenza. Stabilisce cosa è giusto e cosa è sbagliato. E lo fa attraverso un processo razionale ed emotivo, sottolineo emotivo perché non esiste ragione senza sentimento, che tenga conto del carattere, delle esperienze, delle conoscenze, degli affetti, di tutto ciò che forma la sua personalità in divenire.»

«Mi sa di già sentito!» eccepì il pubblico ministero convinto.

«Probabile in quarta liceo!» chiarii. «Il concetto ha radici, infatti, nell’illuminismo.»

«Ecco, nell’illuminismo… Ce l’avevo sulla punta della lingua!». Il PM gongolò. «Grozio?».

Non mi sembrò il caso di spiegare che Grozio era un giusnaturalista. Mi limitai a un «Kant!» detto sottovoce per non mortificarlo. «L’anarchia, infatti, coglie, e in alcuni casi estremizza, i principi illuministici. A proposito…»

«Mi perdoni». Il magistrato indicò ancora la clessidra: «Ormai abbiamo superato l’extra-time, i supplementari e i calci di rigore!»

«Chiudo velocemente!» lo rassicurai. «Nel 1781…»

«Allora mi prende in giro? Dice di fare veloce e va indietro di tre secoli?»

«Mi faccia finire, vedrà che… Nel 1781 Kant scriveva quel Vangelo contemporaneo che è la Critica della ragion pura. Per farla breve, egli distingueva fra il fenomeno e il noumeno. Il fenomeno è la conoscenza empirica data dall’esperienza. Il noumeno è la conoscenza della cosa in sé, che può avvenire soltanto attraverso la ragione pura, cioè un giudizio emancipato da ogni determinazione morale, normativa, eccetera. Un processo razionale che sfocia nell’idea. Etico, quindi… Fin qui ci siamo?».

Silenzio cosmico.

«In maniera simile ragiona l’anarchico, che può considerarsi l’ultimo degli illuministi, quando critica l’ordine esistente per tendere alla propria idea assoluta di giustizia suprema. Egli rifiuta la legge e la morale per creare un proprio codice che tenga conto della sua personalità, dei suoi interessi, delle sue aspirazioni. Si affranca così dai condizionamenti esterni per porre in essere scelte autonome. Come diceva Ghandi, infatti, l’etica sta nel scegliere la propria strada e percorrerla senza paura. Ed è proprio in virtù di quell’ideale supremo, di quel giudizio di valore che guida ogni decisione personale che Malatesta attribuisce al sentimento di amore che nasce dal soffrire quando gli altri soffrono, il fondamento dell’essere anarchico. Perché cosa è più etico di voler eliminare ogni sorta di ingiustizia?»

«Non ho capito una cosa». Pottutto borbottò guardando Manganello, che gli rispose con un’espressione da: Solo una?. «Lei parla di giustizia, di bene e male, ma non ho capito a cosa si riferisce. E soprattutto, è un’ora che siamo qui e ancora non mi ha fatto un nome! Per me, ad esempio, a questo punto potrebbe essere giusto applicarle due elettrodi… Dove va, Manganello?»

«A prendere il generatore coi cavi elettrici!» bofonchiò il maresciallo. «Non ha appena detto che…?»

«Si metta a sedere!».

Ringraziai il pubblico ministero per la clemenza e gli feci presente che non sarebbero bastati due giorni per riassumere tremila anni di storia di filosofia etica.

«Allora mi dica quale è la vostra idea di giustizia e tagliamo la testa al toro!».

 

 

 

 

 

2.9-LA GIUSTIZIA NON E’ DIO

«Okay!» dissi. «Tanto per cominciare la nostra idea di giustizia non è data da un’entità intangibile. Per intenderci: non ci sono comandamenti a cui obbedire per conquistare il Paradiso. Non c’è Dio, nessun Dio che impone cosa è bene e cosa è male.»

«Lo sapevo. È ateo!» gorgoglio sprezzante Manganello.

«Maresciallo, si calmi Forse ha capito male!» osservò il PM. «Sarà mica ateo?» chiese rivolto a me.

«Solo durante la settimana. Il weekend mi dedico all’orto!»

«Ha visto?». Pottutto tranquillizzò l’ufficiale. «Il weekend si dedica all’orto… Che c’entra l’orto?» di nuovo a me.

«Un uomo che non ama la natura, che non apprezza la sua bellezza, che non prova tenerezza per gli animali è un uomo senza spiritualità, un automa incapace di cogliere che nel continuo divenire della vita, seppur per un attimo insignificante dell’infinito, è parte di una meraviglia. Deus sive Natura diceva Spinoza». E sospirando: «Non avete idea di quanta trascendenza c’è in una gallina!»

«Una gallina?»

«In un fiore che sboccia o in un ciliegio che fruttifera!»

«In un ciliegio?»

«Ha mai colto un frutto dall’albero e poi lo ha mangiato?»

«Una volta. Una mela.»

«E cosa ha provato quando l’ha morsa?»

«C’era il baco dentro!»

«La mela col baco… sublime!» recitai. «Gli anarchici non credono in una vita a venire. Non possono concepire un’entità che guarda da chissà dove o giocherella con le esistenze come facevamo da bambini con i Playmobil

«Ma la mia mammina dice che la fede spiega il mondo!»

«Se lo dice la sua mammina!». Alzai le braccia in senso di resa. «La fede, come lo spiritualismo, nasce da un bisogno di risposte. Ma se quest’ultimo non si stanca mai di cercarle, la prima ricorre a costrutti suggestivi che intontiscono le menti: è una fantasia dell’immaginazione vestita di onnipotenza, diceva Elisee Reclus.»

«Dio non intontisce nulla: c’è il libero arbitro.»

«Quindi osserva e giudica? E siamo più tipo film, serie televisiva o reality show? In ogni caso non mi sembra molto consolante! Se gli uomini hanno bisogno di guardare oltre per dare un senso alla cose, confidare nell’irreale è il metodo più sbrigativo per rendere tutto accettabile!»

«Quanto cinismo! La fede è… la fede è un atto d’amore!»

«Non la facevo così sentimentale!»

«E si sbagliava perché metto amore in tutto quello che faccio!»

«Anch’io ci metto tanto amore!» intervenne Manganello che, evidentemente, si sentiva emarginato dalla discussione.

«Come potrei mandare in prigione le persone se non mettessi amore nel mio lavoro?» precisò il PM.

«Perché io nell’estorcerle la confessione?» disse Manganello.

«Perdonate. Mi ero lasciato fuorviare dal pregiudizio!»

«E quando ci metto amore è come se sentissi Dio che mi parla e mi dice: continua così, sono fiero di te!»

«Sicuro non sia il diavolo?» scherzai. «Pensi, però, come siamo diversi: io quando ho bisogno di trascendenza mi dedico all’orto.»

«Ancora quest’orto?»

«Niente è sublime come innaffiare una pianta o potare un albero. La bellezza della natura, la sua armonia, quel senso di essere parte di un tutto… Le piace passeggiare nei boschi?» chiesi al pubblico ministero.

«A volte!» Pottutto rimase vago. «Quegli alberi uno accanto all’altro, le chiome che coprono il cielo, quei fruscii misteriosi… non so come spiegarle: mi mettono ansia!»

«Mai camminato a piedi nudi?»

«A piedi nudi? Con tutti i sassi, la mota, le formiche…?»

«Preferisco pensare che Dio zampetti fra loro piuttosto che immaginarlo lassù!»

«Si chiama fede proprio per questo!»

«Si chiama fantasia proprio per questo!» replicai. «Credere nell’ignoto sarà molto consolatorio e suggestivo, ma non è meno illusorio dell’idolatrare una sedia, un foglio di carta, una ciabatta, oppure il Quelo1. Capisco chi ha bisogno di conforto e apprezzo le persone spirituali. Ma se cercassero nel fango anziché in cielo, sicuramente l’uomo sarebbe più consapevole. Per non parlare degli effetti devastanti che la religione ha prodotto nella storia…2»

«Non sarei così categorico, la Chiesa fa anche cose buone. Prenda, ad esempio, la mensa per i senzatetto che sta alla fine della strada!»

«Quella è solidarietà» precisai. «Crede davvero che l’uomo non sarebbe solidale col prossimo se non ci fosse la religione? Certo che lo sarebbe! Tutti proviamo pietà e desiderio, quasi un bisogno fisico, di aiutare chi sta peggio. Prima ho citato Malatesta per il quale essa è un principio assoluto, ma Proudhon parla di mutualismo, Kropotkin di mutuo appoggio. La solidarietà è innata in ciascuno di noi. Non ha bisogno di imposizione divina, casomai di un ambiente incontaminato che la valorizzi». Mi interruppi perché Manganello scuoteva la testa vistosamente. «Non è d’accordo, maresciallo?»

«Pensavo alla pietà…»

«E…?»

«Quando l’arrestato nega l’evidenza… vi giuro, è più forte di me!»

«Non se ne faccia un cruccio. Negli psicopatici è consueto il deficit affettivo!» lo consolai. E perché non replicasse: «Per il momento, comunque, preferirei non dilungarmi sull’argomento.»

«Eviterei di tornarci anche più tardi!» sottolineò Pottutto.

«Come vuole, dottore. Ma se deve essere una confessione, sarebbe meglio fosse completa. Non le pare?».

NOTE

1 – Culto di un pezzo di legno inventato dal genio comico di Corrado Guzzanti.

2 – Da M. Bakunin, Dio e lo Stato, 1882: È necessario ricordare quanto e come le religioni intorpidiscano e corrompano i popoli? Esse uccidono in loro la ragione, il principale strumento di emancipazione umana, e li riducono all’imbecillità, condizione essenziale della loro schiavitù. Esse disonorano il lavoro umano e ne fanno un contrassegno e una fonte di servitù. Esse uccidono la cognizione e il sentimento dell’umana giustizia, facendo pendere sempre la bilancia dalla parte dei bricconi trionfanti che godono del privilegio della grazia divina. Esse uccidono la fierezza e la dignità umane, proteggendo solo gli esseri servili e gli umili. Esse soffocano nel cuore dei popoli ogni sentimento di fratellanza umana, colmandolo di crudeltà divina”… Tutte le religioni sono crudeli, tutte sono fondate sul sangue; perché tutte si adagiano principalmente sull’idea del sacrificio, cioè sul sacrificio perpetuo dell’Umanità all’insaziabile vendetta della Divinità. In questo sanguinante mistero, l’uomo è sempre la vittima, e il prete, uomo anch’esso ma uomo privilegiato dalla grazia, è il divino carnefice. Questo ci spiega perché i preti di tutte le religioni, i migliori, i più umani, i più comprensivi, hanno sempre nel fondo del loro cuore, hanno sempre nei loro sentimenti qualcosa di crudele e sanguinario.

 

 

 

 

2.10-LA GIUSTIZIA NON È LA LEGGE

«Dico solo che come non è necessario Dio, non occorre una legge per stabilire cosa è bene cosa è male.»

«Ah, no?» Pottutto esclamò.

«Eh, no!». Ne imitai il tono. «La legge, statale o morale che sia, non produce mai vera libertà. Quando la nostra condotta è ingabbiata nelle regole, si ha solo subordinazione a una volontà esterna. Con essa, infatti, io non scelgo, sono libero solamente di obbedire a essa1».

«Preso appunti, Manganello?». Il pubblico ministero colse in fallo il maresciallo a cui si era rotta la punta del lapis.

«Solo se incondizionatamente libero, ossia non determinato dai preconcetti, dalle superstizioni, dai dogmi, l’individuo può sviluppare una propria, esclusiva coscienza di sé, cioè una personalità, ed essere nel mondo, non essere del mondo. A quel punto potrà determinarsi come, uso le parole di Proudhon, autocrate di se stesso. Al contrario, senza consapevolezza non c’è personalità, quindi niente autonomia. E senza autonomia addio etica. Quando Stirner diceva che la libertà deve essere totale, un pezzetto di libertà non è libertà è perché aveva capito che la libertà è la condizione necessaria per il compimento della volontà, senza la quale ci scordiamo l’autodeterminazione».

Il pubblico ministero mi guardò storto.

«Perché mi fissa in quel modo?»

«Secondo me sta dicendo un sacco di fregnacce per nascondere la verità!»

Un «Cioè?» grosso come una casa penzolò dalle mie labbra.

«E cioè che volete fare quello che vi pare!»

«Dice? Se mi permette, faccio l’esempio della Scuola di Little Commonwealth fondata da Homer Lane.»

«Conosciamo questo Homer Lane?». Il magistrato domandò a Manganello che, in fretta e furia, sfogliò le prime due pagine di un blocchetto su cui erano appuntati alcuni nomi: «Non c’è!» gli rispose.

«Allora segni!» ordinò il primo.

Rimasero molto male quando dissi che era morto anche lui.

«Little Commonwealth era un esempio di scuola comunitaria autogestita che accoglieva giovani disadattati, in gran parte poveri o delinquenti. Lane, invece di rimproverarli o punirli, li lasciava fare o partecipava al gioco. In quel modo lo scontro perdeva di significato e i ragazzi non solo si calmavano, ma cominciavano ad autoregolamentarsi.2»

Feci una pausa impressionato dalle loro espressioni da cernie nel congelatore. «Questa esperienza di educazione libertaria ci insegna due cose: la prima è che è possibile passare dalla legge del più forte all’auto-responsabilità. La seconda è che qualunque gruppo sociale, anche se costituito da rifiuti della società, può creare spontaneamente e armonicamente una comunità fondata sulla condivisione delle regole senza bisogno di imposizioni dall’alto. Da ciò consegue un’altra sacrosanta verità, ovverosia che le leggi servono solo per perpetuare i privilegi di chi le fa3».

«Non può convincere un uomo di legge che la legge sia inutile!» esclamò Pottutto con sufficienza.

«Quindi, fosse un uomo d’agricoltura, ci riuscirei?» lo sferzai. «L’organizzazione non deve prevalere sull’individuo perché l’ordine non si crea con la sottomissione e si conserva grazie al terrore!4».

«Ma io mica la sto terrorizzando?» il pubblico ministero s’inalberò.

«No, ma le piacerebbe!»

Lo ammise con una fugace oscillazione di quell’orribile capoccia a forma di pera.

«Ma in tutto questo, sapete qual è la cosa buffa?»

«Ora mi fa anche gli indovinelli?»

«La cosa buffa è che le persone credono davvero che realizzi il bene pubblico. E sono talmente plagiate da essere convinte che rappresenti la loro volontà. Ipnosi collettiva, la chiamava Tolstoj». Sospirai. «Più prosaicamente, è semplice stupidità!»

NOTE

1 – Così anche Bakunin: Lo Stato restringe la libertà dei singoli solo per assicurare loro la parte restante. Ma ciò che resta può essere sicurezza, non è mai libertà”, perché, “la libertà è indivisibile; non si può toglierne una parte senza ucciderla tutta. Questa piccola parte che si toglie è l’essenza fondamentale della mia libertà. In M. Bakunin, Federalismo, Socialismo, Antiteologismo, incluso nel volume Libertà, eguaglianza, rivoluzione, 1976.

2 – Filippo Trasatti, Lessico minimo di pedagogia libertaria, 2020.

3 – Da E. Malatesta, L’Anarchia, 1891: Il governo infatti si piglia la briga di proteggere, più o meno, la vita dei cittadini contro gli attacchi diretti e brutali; riconosce e legalizza un certo numero di diritti e doveri primordiali e di usi e costumi senza di cui è impossibile vivere in società; organizza e dirige certi esercizi pubblici, come posta, strade, igiene pubblica, regime delle acque, bonifiche, protezione delle foreste, ecc… ”Apre orfanotrofi e ospedali e si compiace spesso di atteggiarsi, solo in apparenza s’intende, a protettore e benefattore dei poveri e deboli. Ma basta osservare come e perché esso compie queste funzioni, per riscontrarvi la prova sperimentale, pratica, che tutto quello che il governo fa è sempre ispirato allo spirito di dominazione, ed è ordinato dal difendere, allargare e perpetuare i privilegi propri e quelli della classe di cui egli è il rappresentante e il difensore”… ”Un governo non può reggersi a lungo senza nascondere la sua natura dietro un pretesto di utilità generale, esso non può far rispettare la vita dei privilegiati senza darsi l’aria di volerla rispettata in tutti; non può far accettare i privilegi di alcuni senza fingersi custode del diritto di tutti.

4 – Femminismo e Anarchia, Emma Goldman, Raccolta di scritti di Emma la rossa, pubblicata nel 2009.

 

 

 

2.11-L’ANARCHIA NON VUOLE GOVERNARE

Il pubblico ministero guardò gli appunti sul libretto.

«Mi sono perso» disse. «Com’è che siamo passati a parlare della legge?»

«Mi aveva domandato quale fosse la nostra idea di giustizia e ho escluso che sia la legge e Dio.»

«Allora, vediamo di concludere!»

«Subito!» dissi. «Noi anarchici siamo convinti che qualunque condotta sia giusta se realizza la volontà personale in armonia con la volontà degli altri. Per questo vogliamo una società libera, egualitaria, orizzontale, in cui non sia possibile il dominio dell’uomo sull’uomo, della società sull’uomo, delle istituzioni sull’uomo.»

«E che c’entra lo Stato?»

«C’entra per due motivi: in primo luogo perché rappresenta la sublimazione della coercizione arbitraria. In secondo luogo, perché è la longa mano del Potere, cioè il mezzo attraverso il quale esso definisce e impone regole di condotta e convoglia la volontà collettiva in maniera da soddisfare gli interessi propri e di chi lo sostiene.»

«Quindi vorreste una società senza Stato per colpa di due leggiucole?» chiese Pottutto col tono di un vecchio amico. «Che esagerazione! Se il sistema non vi piace, create un partito e governate!»

«Ma chi, noi?»

«Di voi stiamo parlando!» disse Pottutto.

«Proprio di voi stiamo parlando!» gli fece eco il maresciallo. «Perché non governate se siete tanto bravi?».

Il PM lo guardò irritato: «lasci perdere le provocazioni maresciallo, che quando ci avete provato è sempre andata a schifio!»

«Non vorrei sembrare presuntuoso, ma l’anarchia non ha mai detto che vuole governare!» dissi.

«Ah, no? E che vuol fare, casino e basta?»

«Fate casino e basta, eh!» ripeté Manganello.

«Non siamo e non saremo mai un partito e non vogliamo o vorremo governare. Ho appena detto che ambiamo a una società senza dominio e lei mi invita a creare il nostro?».

Pottutto si incassò nelle spalle: «Potreste fare come quelli… come si chiamano quelli che anni fa volevano difendere le balene? Mi aiuti, Manganello!»

«Non so, dottore. Ho un po’ di confusione in testa!». Il doppio mento del maresciallo vibrò minacciosamente. «Balene, balene, balene…» ripeté. «Per caso voleva dire Pinocchio?»

«Che c’entra Pinocchio?»

«Quand’è stato mangiato dalla balena!»

«Gli ecologisti?» lo aiutai.

«Gli ecologisti, esatto!». Il PM batté le mani. «Se ne venivano fuori ora con le balene, ora gli orsi polari, ora con il nucleare… che poi, quante volte sarà scoppiato Chernobyl?». Allargò le braccia. «Sono diventati un partito e…»

«E che fine hanno fatto?» chiesi. «Conseguito il potere, le persone commettono delitti su delitti perché il profitto le rende deboli ed egoiste. E se fossero oneste, finirebbero comunque schiacciate1. Questa è l’inevitabile realtà.»

«È tutto un magna-magna!»

«E voi magnate?». Osservai prima l’uno poi l’altro. «Magnate, magnate!». Sorrisi. «Chi si unisce ai ranghi del governo alla fine diventa uno strumento nelle sue mani.2»

«Il vecchio Tolstoj?». Pottutto ispirato.

«Ha letto i suoi libri?»

«Ci mancherebbe! Però ricordo la foto nel sussidiario… O era Socrate? Forse Marx?… Sono tutti barbuti quei fanatici!».

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«Noi anarchici siamo contro i partiti e siamo contro ogni forma di governo. I partiti sono associazioni verticistiche di potere, dotati di organizzazione rigida e gerarchica. Di fatto l’antitesi della spontaneità di cui ci nutriamo. Quanto al governo, non avrebbe senso guidare il popolo dal momento che siamo i primi a non voler essere governati. Le persone non hanno bisogno di tutori, di custodi, di garanti, di responsabili, di politici che dicano cosa fare o, peggio ancora, che agiscano al posto loro. Sarebbe una contraddizione rispetto all’etica dell’autonomia. Se cedessimo alle tentazioni commetteremmo lo stesso errore di Andrea Costa, quando nel 1882 abbandonò l’Internazionalismo facendosi eleggere nel collegio di Ravenna. Voleva fare il riformista, fu solo un traditore.»

«Colgo dell’astio nelle sue parole!» rilevò il PM.

«Ma no!» mi difesi. «Forse!» cedetti. «Che non si confonda, però, la nostra avversione alle istituzioni col rifiuto aprioristico della politica. Aborriamo i galantuomini al governo, ma non la gestione della cosa pubblica. La concepiamo, però, non come un’imposizione verticistica, bensì come naturale sviluppo di relazioni attraverso cui ogni individuo partecipa personalmente e consapevolmente alla condivisione del bene comune. Vede, Bookchin diceva…»

«Chi?»

«Buk-chin!» sillabai.

«È cinese?» domandò Manganello.

«Americano!» precisai.

«Ma di origine cinese!» insistette.

«Il governo è professionismo che vuole obbedienza, non impegno. Il senso di responsabilità verso la comunità nasce invece “da un’educazione politica formatasi nel corso di una partecipazione, non di un’obbedienza istituzionalizzata”3. Per questo gli anarchici auspicano un coinvolgimento diretto, orizzontale, che parta dal basso. Sbaglia chi ci definisce apolitici. Siamo antipolitici, ma nel senso che lottiamo contro la politica del dominio, della plutocrazia, della soggezione e dello sfruttamento. Perché una società funziona se edificata conoscendo il terreno, scavando solide fondamenta, con mura compatte e un tetto resistente alle intemperie. E soprattutto, se chi vi abiterà partecipa alla costruzione con entusiasmo. Immaginate che meraviglia sarebbe una casa costruita con le nostre mani, in cui lei, pubblico ministero…»

«Chi io?»

«Sì, lei!». Sorrisi. «In cui lei è orgoglioso del parquet che ha posto con tanta perizia». Guardai Manganello: «E lei maresciallo, non si commuove a pensare a quella mensola che ha messo con tanto amore?».

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«E se per gli anarchici è inconcepibile un partito, figuriamoci governare un popolo!»

«Suvvia, non faccia l’ipocrita. A chi non piace il potere? Lusso, donne, soldi, droga… soprattutto droga!» Starnazzò il maresciallo.

«Non so di cosa parla!».

Il pubblico ministero guardò Manganello che, capito fosse arrivato il momento, puntò il dito: «E quegli otto chili di pasticche che abbiamo trovato nel bagagliaio della sua auto?»

«Che esagerazione!». Senza scompormi. «Non ho mai fumato neanche una canna. Ce l’ha messe lei?».

Si contrasse come un riccio: «Non ancora!» bisbigliò.

«L’obiettivo dell’anarchia non sarà mai la presa del potere. Governare significa dirigere l’andamento politico ed economico di uno Stato. Il che è impossibile visto che ne vogliamo la dissoluzione. La società può vivere senza comando perché le cose che funzionano meglio sono quelle in cui nessuno ha ingerenza, che si realizzano spontaneamente per volontà condivisa in modo che tutti ci trovino utile e piacere4». Sospirai. «È più chiaro adesso cosa intendo quando dico che l’anarchia rifiuta il governo perché lo considera inutile?».

Pottutto fermò Manganello: «Lasci perdere, maresciallo. È sicuramente una domanda a trabocchetto!»

«Noi anarchici non vogliamo governare, né essere governati. L’essere umano possiede una dimensione etica naturale che gli consente di decidere personalmente cosa è giusto e cosa è sbagliato. Per fare ciò, però, occorre eliminare gli ostacoli artificiali che gli impediscono di essere libero: economia, Stato, religione, morale, tradizioni e così via. E il solo modo per conseguire questo obiettivo è creare un sistema di valori che, escluso il profitto, sia fondato sul piacere della condivisione5».

«Perché ridacchia?» il pubblico ministerò domandò contrariato.

«Non ridacchio!»

«Ma certo che ridacchia. Vero Manganello che ridacchia?»

«Casomai ridacchiavo!» precisai. «Perché ora non sto ridacchiando!»

«Chiamo l’agente scelto Sevizia per farlo smettere di ridacchiare?» proferì il maresciallo condiscendente.

«Suvvia Manganello, un ridacchiamento non ha mai fatto male a nessuno!». Poi guardò me: «Ma se lo rifà…».

NOTE

1 – Louise Michel, Presa di possesso, 1890.

2 – Lev Tolstoj, Il rifiuto di obbedire, raccolta di riflessioni, 2019.

3 – Murrai Bookchin, Democrazia diretta, 2001.

4 – Errico Malatesta, L’Anarchia, 1891.

5 – Da Pierre Josepf Proudhon, L’idea Generale di Rivoluzione nel XIX secolo, Edizioni Centro Editoriale Toscano: “Essere governato significa essere guardato a vista, ispezionato, spiato, diretto, legiferato, regolamentato, incasellato, catechizzato, controllato, stimato, valutato, censurato, comandato, da parte di esseri che non hanno né il titolo, né la scienza, né la virtù. Essere governato vuol dire essere, a ogni azione, a ogni transazione, a ogni movimento, quotato, riformato, raddrizzato, corretto, tassato, addestrato, taglieggiato, sfruttato, monopolizzato, concusso, spremuto, mistificato, derubato”.

 

2.12-RIAPPROPRIARSI DELL’UMANESIMO

«Che è successo?» domandò il PM sorpreso dal mio improvviso incupimento.

Come se fossi stato catapultato davanti al Benefattore dello Stato Unico di Zamjatin1 e avessi dovuto spiegargli chi sono gli umani: «Vi ho detto che non condivido l’approccio collaborazionista del post-anarchismo?»

«No, eh? Sapesse noi!»

«Lo conosce?»

«Assolutamente. Ma già dal nome…!»

«Per farla breve: i pensatori post-anarchici sostengono che la società sia un reticolo di modelli che induce all’acquiescenza. L’unica possibilità di reagire al dominio è che l’azione del singolo crei una breccia di libertà che poi diventi principio condiviso che cambia il mondo.»

«E questa cosa non le piace?»

«Non è che non mi piace, trovo che insistere sulla suggestione dell’azione individuale che demolisce i muri sia alquanto retorica. I muri saltano in aria o si abbattono a picconate o franano da soli o, più sagacemente, si aggirano. Riconosco al post-anarchismo il merito di aver invalidato e abbandonato ogni fideismo nella legge morale per concentrarsi sul reale, cioè su condotte non dogmatiche ma funzionali a un determinato contesto2. Riconosco altresì che concetti come l’anarchia della quotidianità di Paul Goodman, gli atti di quotidiana resistenza di Scott, le rivoluzioni silenziose di Colin Ward offrono spunti interessanti alla coscienza e alla crescita del movimento anarchico. Dubito però, anzi sono certo, che la soluzione contro il dominio consista nello sviluppare monadi isolate».

«Si appunti la parola monadi. Deve essere un termine in codice!» bisbigliò Pottutto a Manganello.

«Le monadi sono…». Lasciai perdere. «Quando leggo autori post anarchici, ho come la sensazione che abbiano interiorizzato l’irreversibilità. Il che, peraltro, è più che possibile dal momento che il capitalismo ha cristallizzato la cultura. Sperare che l’azione individuale cambi la realtà è illusorio quanto l’attesa del Gran Giorno. Senza considerare che la condotta isolata, anche quando parte da propositi meritori, spesso viene ingabbiata nel solipsismo, nella misantropia, nell’alienazione.»

«Non mi piacciono tutti questi termini oscuri!» Manganello bisbigliò al PM.

«Gliel’ho detto maresciallo: sta parlando in codice per metterci alla prova.»

«Dice?»

«Dico, dico. Sorrida come se capisse!». Poi mi invitò a concludere.

«L’azione individuale è il punto di partenza, ma occorre superare il settarismo, riappropriarsi dell’umanesimo berneriano attraverso cui trasformare la consapevolezza di sé in condivisione sostanziale. Credo sia indispensabile tornare a parlare di umanità!».

Pottutto fece un’espressione da esticazzi!

Manganello scoppiò una risata tutta sputacchi e carne danzante.

«Forse è meglio se approfondisco l’argomento!»

«Anche no. Grazie!».

 

NOTE

1 – E. I. Zamjatin, Noi, Fanucci editore, 1921.

2 – Michel Onfray, Il post-anarchismo spiegato a mia nonna, edizioni Elèuthera, 2011.

 

 

 

2.13-COS’È IL BENE COMUNE

Il pubblico ministero aggrottò le sopracciglia. Sguardo indagatore e denti che mordicchiavano il labbro. «Qualcosa non mi torna. Finora ha parlato di individualità. E l’individuo fa questo, e l’individuo fa quello, e l’individuo su e l’individuo giù. Ora parla di umanità. Mi sembra una contraddizione!»

«Una contraddizione?» chiesi.

«Manganello, lei non ci vede una contraddizione?»

«Dotto’». Il maresciallo si compresse. «Io so solo che devo andare in bagno!»

Lo seguimmo trotterellare verso la porta.

«Collega, devo passare!» si rivolse alla Sfinge davanti ad essa, che sembrava non avere alcuna intenzione di scansarsi. Gli batté la mano sulla spalla, gli pizzicò la guancia, gli tintinnò il pacco, gli puntò la pistola in un occhio. Niente.

«Bravo figliuolo, fossero tutti ligi come te!». Gli schiaffeggiò bonariamente la faccia. «Però adesso fammi il piacere…!»

«Maresciallo?». Pottutto lo richiamò.

«Sì, dottore?… Là, dottore?». Indicò la porticina che stava fra la segretaria e la parete. «Ma è alla turca!» eccepì. «Mi arrangio!». Si chiuse dentro. La riaprì. «Spiace se la tengo aperta? Manca la luce!»

«Torniamo a noi» bramì il PM. «Mi stava dicendo?»

«Mi ha chiesto perché sono passato dall’individuo all’umanità. La risposta è molto semplice: l’anarchico tiene alla libertà più di ogni altra cosa1, ma è cosciente che se fosse mero egoismo, la vita sarebbe un vagare senza approdo. L’individuo, infatti, prova un senso di compiutezza solo quando si percepisce come parte di un tutto. Questo tutto è la vita, che scorre e diviene insieme alle cose del mondo, di cui coglie l’essenza quando agisce spinto dal desiderio di realizzare il bene comune. L’interesse condiviso».

Sbatté la porta del bagno e il maresciallo scorrazzò nella stanza: «Mi sono perso qualcosa?»

«Stavo per citare Bakunin».

Tornò dentro e chiuse a chiave. Qualche secondo e riaprì.

«Scherzavo!» disse divertito.

«Per il filosofo la dignità umana si conquista con l’emancipazione. Una lotta serrata volta a realizzare la giustizia, che è libertà e fraternità. Per questo ripete più volte di credere nel trionfo dell’umanità sulla terra

«Che sarebbe?»

«Che sarebbe?» ripetei. «Cosa vuol dire essere uomini secondo voi?».

Pottutto liberò un’espressione tipo Franco Califano di fronte a una bella donna. «Glielo devo proprio dire?»

«E lei?» chiesi a Manganello.

«Ho sei figli… Non c’è bisogno di molte spiegazioni!»

«L’uomo è un corpo». Mi sfiorai il braccio. «Dentro il corpo cosa c’è?»

«Ci sono gli organi» rispose Pottutto.

«Sicuramente. Oltre quelli?»

«Le vene?» ci provò Manganello.

«Siamo fatti di intelletto, istinto, sentimenti. In una parola: volontà. Esattamente come ogni altro non umano. Volontà che si determina. Progredisce… E sapete come progredisce?».

«Lo chiede a noi?»

«Premendo un bottone dalla mattina alla sera e vegetando stremati il resto del tempo davanti a uno schermo per dimenticare chi si è? Indebitandosi fino alla tomba per quattro mura? Bramando quell’ammorbidente di cui il comico sembra non possa fare a meno? Non scherziamo! La vita dell’uomo moderno, che lavora e consuma è una merda!»

«In effetti!». Pottutto sospirò. «Anch’io odio fare shopping la domenica con mia moglie!»

«In questo mondo in cui siamo meri ingranaggi, che fine fanno la ragione, l’istinto, il sentimento? Kaput! Arrivederci! Au revoir! Auf wiedersehen! Bye bye! Siamo stati educati a concepire la vita in funzione del lavoro, il lavoro in funzione del consumo, il consumo in funzione dell’esistenza. Ecco perché siamo infelici!»

«Non vedo molte alternative!»

«Le alternative sono due: o il meglio ubriachi che rotelle dell’ingranaggio2, o una rivoluzione culturale e pratica che ci restituisca la nostra umanità in armonia con l’equilibrio naturale, spogliandoci del superfluo, sottraendoci alla manipolazione dell’artificio. Basta poco per essere felici: relazioni umane faccia a faccia e un rapporto diretto con la natura. Tutto il resto è deturpazione del nostro essere, alterazione delle nostre attitudini, negazione della spontaneità. Quindi ansia, nevrosi, preoccupazione, infelicità.»

«Dove vuole arrivare, Dopraho?»

«Dove sono arrivato» dissi. «L’anarchia mira a costruire una società in cui le relazioni siano in armonia fra loro e si sviluppino in un ambiente che le aiuti a evolversi.»

«Tutto qui?»

«Se le sembra poco!»

«Sa che più parla, più mi sembra Savonarola?3»

«Non farete bruciare sul rogo anche me?»

«Noi siamo civili. L’aspetta una bella cella d’isolamento per il resto dei giorni!»

«La ringrazio!»

«Non c’è di che!»

NOTE

1 – Gaston Piger, Signorina anarchia, Ortica edizioni,2021.

2 – Così Aiello parlando del poeta Tao Yuanming che faceva uso di alcol “per lasciarsi alle spalle le costrizioni di una vita serrata negli obblighi del meccanismo sociale”. In Giuseppe Aiello, Taoismo e anarchia, La Fiaccola edizioni, 2017.

3 – Girolamo Savonarola, 1452-1498, fu un predicatore popolare che venne scomunicato e bruciato sul rogo come eretico.

 

 

 

 

 

2.13.2-BENE COMUNE DELLO STATO VS BENE COMUNE DELL’ANARCHIA

«Ho detto che l’anarchia ha come fine il bene comune. Ma attenzione, anche lo Stato dichiara di voler realizzare il bene comune. E lo fa avvalendosi dei suoi mestieranti più agguerriti. Quando i vari politici, giornalisti, burocrati, scosciate, scrittori, artisti, prostituiti vari e tutti coloro che altrimenti dovrebbero lavorare evocano il bene pubblico come fine perseguito dallo Stato, mentono sapendo di mentire.»

«Ora non mi faccia la solita morale!»

«È un rischio che si corre sempre quando si disprezza!» replicai. «L’esempio è il legalismo imperante: fatua adorazione del sacro paganizzato! Peccato che lo Stato di divino abbia ben poco, visto che con la legge fa il proprio interesse, realizza il proprio profitto, legittima il proprio bene.»

«Molto qualunquista!»

«Il potere è reazionario per definizione. Lo dimostra il fatto che tanti di quei dei diritti civili che attribuiamo alla politica illuminata sono stati conquistati attraverso sollevazioni popolari inizialmente rivoluzionarie1. Quando la politica legifera simulando un qualche interesse verso il popolo è solo per circoscrivere il malessere sociale che pregiudicherebbe la sua stabilità, oppure per riattizzare il capitalismo, che altrimenti stagnerebbe o regredirebbe. Sempre la stessa storia: captato il disagio, essa lo argina aumentando o definendo nuove forme di controllo sociale!». Feci una pausa per ripartire con slancio: «Ditemi una cosa che lo Stato fa per i cittadini di sua iniziativa?».

Mentre il PM si lisciava la barba, «Le strade!» esclamò il maresciallo.

«Ma se l’altro giorno è venuto a prendermi perché un cratere mi aveva sfasciato la ruota dell’auto!» lo riprese Pottutto.

«Allora la sanità!»

«Lasci perdere!». Stavolta Pottutto si strappò un ciuffo dalla basetta: «Piscio saette da tre settimane e quei bastardi mi hanno fissato l’urologo fra nove mesi!»

«Ha provato con gli ortaggi? Sono pieni di vitamine… E se dico la scuola?». Di nuovo il maresciallo.

«Sulla scuola, potrei anche darle ragione» dissi. «Come luogo di addestramento all’obbedienza è assai efficiente!»

«Faccia poco lo spiritoso!» mi redarguì Pottutto.

«Esatto. Faccia poco lo spiritoso!» ripeté Manganello.

«Non mi avete ancora risposto!» sogghignai.

Ci pensarono.

«La giustizia!». Pottutto si accese.

«Se i magistrati fossero tutti come lei!» ironizzai.

Mi dette ragione.

«Ci sono: il Papa!». Di nuovo Manganello.

«Sta in un altro Stato!» lo corresse Pottutto.

«Come dottore, hanno spostato Roma?»

«Manganello, mi faccia una cortesia: si limiti a prendere appunti!».

E a me: «Adesso basta!» ruggì. «Se volevo rispondere alle domande a trabocchetto andavo al Quiz Show!»

«Ha ragione» dissi. «L’importante è che sia chiaro che il bene pubblico di cui tutti si riempiono la bocca fa solo l’interesse di chi sta lassù…». Puntai il dito verso l’alto.

«Il procuratore capo Persecuzio?» chiese il pubblico ministero allarmato.

«Che c’entra Persecuzio?»

«È nell’ufficio proprio sopra di noi!»

«Il bene comune di cui parla l’anarchia, invece, tiene conto delle personalità, degli interessi, delle aspirazioni reali di ogni individuo. Sorge dal basso e si sviluppa con la condivisione, l’unione delle singole aspirazioni per uno scopo condiviso: la comunità di egoisti, o comune, gruppo, clan, associazione, agglomerato, soviet , qualunque struttura organizzata in maniera autonoma, antigerarchica e autogestita, dove le persone si uniscono per condividere un obiettivo. Ed è con questa comunità partecipata che l’anarchia realizza la sua etica».

Potutto emise una smorfia poco convinta. «Qualcosa non quadra…» Inforcò gli occhiali e lesse gli appunti: «Ma se sto bene per conto mio, perché devo condividere con gli altri?»

«Ciascuno è libero di fare quello che vuole e nessuno può e deve ostacolarlo. Se a lei piace vivere un’esistenza ascetica è una sua scelta. Ma arriva sempre il momento in cui l’individuo deve relazionarsi e allora la questione si porrà nuovamente e forse in maniera più esasperata perché avrà perso l’abitudine alla convivialità. Ciò detto, se lo spirito comunitario fosse imposto dall’alto sarebbe l’ennesimo dispotismo. Le faccio l’esempio del Kibbuz, quel modello di società cooperativa ebraica i cui membri si impegnavano a realizzare pratiche anarchiche come limitare l’autorità, abolire le gerarchie, favorire la partecipazione diretta. La regola era che i bambini venissero sottratti alle famiglie biologiche fin da piccoli affinché la comunità provvedesse alla loro educazione. In questo modo crescevano come essa voleva, acquisendone i principi e i valori. Principi e valori che, a prescindere dalla loro giustezza, erano pur sempre imposti dal gruppo sociale, pertanto non scelti. Pur partendo da premesse libertarie quindi, i suoi seguaci utilizzavano un metodo che non aveva niente a che vedere con la naturalità e la spontaneità. E senza naturalità e spontaneità, cioè senza una scelta libera, dove per libera intendo che porti a una personalità cosciente, non si realizza l’etica anarchica. Per questo l’anarchia non impone modelli. Al massimo spiega e consiglia affinché ciascuno scelga consapevolmente la propria via. Come diceva Ghandi: la morale non sta nel seguire una strada già battuta, ma nel scegliere la propria e percorrerla senza paura».

«Dopo Ghandi manca Einstein e poi li ha citati tutti!». Pottutto sghignazzò soddisfatto per la battuta. Poi cambiò intensità: «Le ricordo che ancora non mi ha dato un nome!»

«Non si agiti, abbiamo appena cominciato!».

 

NOTE:

1 – James Scott, Elogio dell’anarchismo, Elèuthera edizioni, 2014.

2 – Colin Ward, Anarchia un approccio essenziale, Elèuthera edizioni, 2014.

 

 

 

 

2.14-L’ANARCHIA NON È UTOPIA

«Questo concetto di comunità proprio non mi va giù!» grugnì il pubblico ministero.

«Ci facciamo portare un Jagermeister?»

«Non ho capito!»

«Per buttare giù!» dissi con leggerezza disincantata per non ferire il suo orgoglio suprematista.

«Questa idea di comunità di cui mi ha parlato dà per scontato una fiducia nel prossimo che… perché?»

«Perché?»

«Già, perché?» mi pressò anche il maresciallo.

«Soprattutto come?»

«In che senso come?»

«Come fate ad avere tutta questa fiducia? Il prossimo è sempre lì, in agguato, pronto a saltare addosso, a rubare il posto, ad approfittare delle debolezze, ad agguantare quello che è tuo». Con un gesto della mano mi invitò ad avvicinarmi: «Le faccio vedere cosa intendo!» mi sussurrò nell’orecchio.

Dalla tasca della giacca prese un pacchetto di patatine. Lo aprì, né mangiucchiò qualcuna, lo pose sul tavolo vicino a Manganello, si volse verso la signorina Servile. Mentre confabulava con lei, il maresciallo allungò furtivamente la mano e ne afferrò una manciata.

«Maresciallo!». Il PM si girò di scatto. Gli ordinò di risputarle. E a me: «Ha visto cosa intendo? Ecco perché la sua idea di fratellanza mi sembra molto ingenua!».

«Gli esperimenti di psicologia sociale di Milgram le fanno un baffo!1» scherzai. «Sa cosa diceva Graeber?».

«Chi, il cantante magrolino che ce l’aveva con la politica?»

«No, quello è Gaber2, E comunque Giorgio Gaber non era solo un cantante… Parlo del filosofo David Graeber… diceva che i veri ingenui sono coloro che credono nell’infallibilità delle istituzioni pubbliche, senza accorgersi che l’aurea sacrale dei suoi burocrati giustifica le più immonde nefandezze di cui si fanno artefici!3».

«Non esageri!» s’inalberò il PM.

«Mi perdoni, dottore. L’ha detto lui!»

«Chi, Manganello?»

«Graeber!»

«Quello che canta?»

«Il filosofo!»

«Non mi convince!» Pottutto si grattò il collo. «L’anarchia è solo un’utopia!» esclamò col tono del PM che inchioda l’interrogato innanzi a una prova schiacciante.

«Lo dicono in tanti!» glissai. «A questa critica potrei rispondere in un’infinità di modi diversi» dissi. «Di sicuro è utopia per chi ha testa infarcita dalla logica del dominio e della competizione e che preferisce la sicurezza delle catene e la deresponsabilizzazione della dipendenza4. Ma cos’è la vita se non una continua nella ricerca dell’ignoto?».

«E come la mette con la morte delle utopie?».

Confessai che non mi aspettavo una domanda così arguta: «Se per utopie si intendono quei sistemi che regolamentano ogni aspetto della vita quotidiana, l’episteme in generale, come direbbero i cattedrati, credo che non esistano più. La tecnologia ha cancellato l’immaginazione e senza immaginazione… Lei guarda la televisione?»

«Certo che la guardo. Come tutti, suppongo.»

«Lei la guarda?» chiesi a Manganello.

«Sto fisso su Fox Crimes!». E col suo solito sorriso edentulo: «C’è sempre da imparare!»

«Perché, lei non guarda la TI-VI?»

«Mi annoia» dissi.

«Tipico di voi intellettualoidi!»

«Trovo molto più divertente fantasticare.»

«Intellettuale e sognatore… la razza peggiore!»

 

 

NOTE

1 – Esperimento di Stanley Milgram realizzato nel 1961 per dimostrare la subordinazione dei soggetti innanzi all’autorità.

2 – Giorgio Gaber, cantautore, musicista, cabarettista, semplicemente un artista, 1939-2003.

3 – Ingenui sono coloro che assegnano a qualcuno il ruolo di magistrato, con poteri di vita o di morte sugli altri esseri umani, nella convinzione che rimarrà sempre giusto e imparziale. Così in David Graeber, Dialoghi sull’anarchia, Eleuthera edizioni, 2019.

4 – Gaston Piger, Signorina anarchia, Ortica Editrice, 2021.

 

 

 

 

 

2.15-NON CI SONO POTERI BUONI

Improvvisamente bussarono alla porta.

Con passo felpato e un vassoio fra le mani, entrò la stessa tracagnotta in uniforme che ci aveva lasciati prima che cominciasse l’interrogatorio.

«Ecco le sue schiacciatine!» disse con entusiasmo da bersagliera. «Dove le appoggio?»

«Le metta qui!». Pottutto liberò lo spazio davanti a sé. Poi la sua espressione da labrador si trasformò in Mefistofele cacciato dal Regno dei Cieli: «Le avevo chieste coi ciccioli!»

«Li avevano finiti!» tremò la poverina.

«Dottore sono buonissime!». Il maresciallo ne stava mangiucchiando una strisciolina. «Glielo dica anche lei!» mi coinvolse.

«Gustosissime!» confermai.

«Una prelibatezza!» grugnì ancora il maresciallo, la cui mano venne colpita dal righello sciabolato da Pottutto mentre ne afferrava un altro pezzo.

Il magistrato addentò e fu come Ego quando assaggia la Ratatouille1.

Con un gesto solerte Manganello sollecitò la tracagnotta a sloggiare.

Il pubblico ministero riaprì gli occhi appagato: «Certo che questo benedetto potere è proprio un’ossessione per voi anarchici!». Pulì fra i denti con l’unghia del mignolo.

«Ossessione? Direi proprio di no!» lo corressi. «Posso?» indicai la bottiglietta d’acqua.

Dalla tasca della giacca ne tirò fuori una vuota: «La prenda là!». Indicò il bagno.

Mi tenni la sete e: «Il potere è maledetto! diceva Bakunin. Esso genera gerarchia, subordinazione, obbedienza, oppressione e tutto ciò che rende il mondo un posto malvagio. In una parola: diseguaglianza. E una società fondata sulla diseguaglianza non sarà mai il luogo in cui gli individui potranno essere felici!»

«Ah, no?»

«Eh, no!» sorrisi. «Senza eguaglianza non c’è libertà. E viceversa». Presi la pila di fogli su cui era stampato il blog, cercai la pagina che mi interessava e lessi le parole di Bakunin: la libertà degli altri, lungi dall’essere un limite o la negazione della mia libertà, né è al contrario la condizione necessaria e la conferma. Non divengo veramente libero se non attraverso la libertà degli altri, così che più numerosi sono gli uomini liberi che mi circondano, più profonda e ampia è la loro libertà, più estesa, più profonda e più ampia diviene la mia libertà».

«A me non dispiace se qualcuno mi dice cosa fare!»

«Tipo essere libero di scegliere fra obbedire o obbedire? Servitù volontaria, la chiamava quel giovanotto impertinente di Étienne De La Boétie nel XVI secolo. All’età di diciotto anni scrisse un libretto talmente rivoluzionario che venne pubblicato post-mortem. Affermava che l’uomo viene educato alla servitù, si adatta alla servitù, accetta la servitù, a tal punto che le persone non conoscono altro che quella e si accontentano e sopportano per partecipare ai piaceri che offre. Ma il servo è sempre servo e il suo godimento è un illusione. Per questo invitava gli uomini a liberarsi dal giogo. Decidete di non servire più, e sarete liberi2, diceva. Proponeva quello che quattro secoli dopo Stirner avrebbe definito essere padroni di se stessi

«Sinceramente io tutti questi servi non li vedo!» obiettò Pottutto. «Lei ne vede, Manganello?»

«Magari!» crocchiò il maresciallo. «Qui non si finisce mai di lavorare!».

Riprese il PM: «Lei confonde la sana coercizione che garantisce la disciplina con la schiavitù». Si volse verso il maresciallo: «Che ne pensa, Manganello?»

«Ineccepibile!»

«Che ho detto?»

«Che se gli anarchici vanno affanculo si sta tutti meglio?».

Pottutto gli strappò dalle mani il foglio sul quale disegnava quello che con molta fantasia poteva essere un cavallo.

«È un cane!» precisò il maresciallo.

«Lei parla di disciplina» dissi. «Quindi di legge. Ma chi fa la legge?»

«Il Parlamento, naturalmente!»

«Fuochino!»

«La forza!» seguì un sorprendente Manganello.

«Bravo maresciallo!». Si meritava i complimenti. «In una società fondata sul dominio, solo e soltanto il più forte detiene il potere. A volte in maniera violenta come nei totalitarismi, altre in maniera subdola e manipolatrice come nelle democrazie. Potere che definisce i comportamenti che la massa deve necessariamente osservare. Si chiama ordine sociale e il suo scopo è consentirgli di sopravvivere, crescere, perpetuarsi.»

«E fin qui è una filastrocca già sentita. Se adesso ci facesse magari qualche nome!».

Lo ignorai: «Cosa genera tale forza?». Perché non si stancassero troppo: «Ve lo dico io. Nella società del dominio il più forte è sempre e soltanto il più ricco, colui che domina dalla piramide di lingotti, azioni, monete su cui è seduto, dando ordine ai governi e al vassallaggio di menare gli schiavi perché non smettano di lavorare alla sua edificazione.»

«Quindi?»

«Quindi propongo la lettura di una bella poesia sul Potere» dissi.

«No, la poesia no!» gorgogliò Pottutto.

«Pure sul potere!» seguì Manganello.

«Non è proprio una poesia, ma l’estratto di una canzone…»

«Manganello, vada a prendere il mangianastri!»

«Non serve!» dissi. «Basta il testo… reciti pure a voce alta!»

«A voce alta?»

«A voce alta!».

Pottutto prese un respiro profondo e:

 

Certo bisogna farne di strada

da una ginnastica d’obbedienza

fino ad un gesto molto più umano

che ti dia il senso della violenza

Però bisogna farne altrettanta

Per diventare così coglioni

Da non riuscire più a capire

Che non ci sono poteri buoni3

 

Il magistrato tolse fiaccamente gli occhiali e mi fissò implorandomi di parlare per primo.

«Per il momento limitiamoci a constatare che non ci sono poteri buoni!» dissi senza aggiungere altro.

«Tutto qui?»

«Mi conceda un po’ di suspense!»

 

NOTE

1 – Ratatouille, film di animazione della Pixar Animation Studios, 2007.

2 – Etienne de La Boétie, Discorso della servitù volontaria, 1548.

3 – Fabrizio De André, Nella mia ora di libertà, nell’album Storia di un impiegato, 1973.

 

 

 

2.16-PERCHÉ FA PAURA L’ANARCHIA

Il pubblico ministero invitò la signorina Servile ad aprire la finestra. «Metta questo a contrasto!». Dalla tasca della giacca tirò fuori un codice di procedura penale.

La segretaria lo appoggiò fra le persiane.

Stavo per riprendere a parlare che dalla strada si levò un urlo straziato. Mi voltai e il codice non c’era più.

«Signorina? Aggiunga al capo d’imputazione le lesioni aggravate!» le ordinò Pottutto.

Non volevo dargli soddisfazione replicando che ce l’aveva messo lui, così: «Perché vi fa tanto paura l’anarchia?» lo sferzai. «L’anarchia non è caos e non è disordine. Non è anomia, né acrazia. E allora perché?»

«Perché?» ripeté Pottutto. Guardò Manganello, poi giochicchiò con la penna prima di squadrarmi: «Scarpe da ginnastica consumate, jeans strappati, maglietta stropicciata… Solo un anarchico può presentarsi in questo modo a un interrogatorio!»

«Mi hanno arrestato mentre giocavo a calcio!»

«Perché, lei non può giocare a calcio come tutte le persone civili con un bel completino di flanella, la camicia chiara e la cravatta in tinta unita?».

Il maresciallo lo tolse dall’imbarazzo: «Lo so io!» disse. «Perché quando ci sono le manifestazioni, siete gli unici che reagite alle nostre legnate!»

«E vi facciamo pure male!» sfoggiai un sorriso amichevole. «Ma non può essere per qualche bernoccolo che ci odiate tanto, no?».

Pottutto sfogliò i fogli del mio blog cercando la risposta.

Manganello si arricciò la ciccia dell’avambraccio.

«Siete dei sovversivi!» disse il primo.

«Ma questo è un complimento!» replicai ironicamente. «Se ci lasciaste vivere come vogliamo, nessuno sovvertirebbe niente. Invece volete che ubbidiamo, che ci adeguiamo al regime, che reprimiamo la nostra volontà per soddisfare la vostra!»

«Perché la nostra è quella giusta!» replicò Manganello.

«Se amate essere servi, servite pure. Ma non pretendete che tutti lo siano!»

«Non è possibile!» intervenne Pottutto. «Lo Stato non può accettare che qualcuno lo sia e altri no. Si creerebbero delle intollerabili discriminazioni. È una questione di eguaglianza. Lei che fa tanto il saputello saprà che l’articolo tre della Costituzione dice che siamo tutti uguali!»

«Ci sono!» esclamò Manganello appoggiando il ventre sul tavolo. «Voi anarchici siete violenti!»

«Violenti noi? Ma se siamo anti-violenti per definizione? Ovviamente se veniamo provocati, rispondiamo. Ma non c’è niente di violento in quello che diciamo e facciamo.»

«È sempre una violenza fare ciò che non si deve fare!» gongolò Pottutto.

«Direi che violenza è costringere a fare ciò che non si vuole fare!» rilevai. «Quindi se obbedissimo senza lamentarci saremmo dei bravi cittadini? Sa che non avevo mai considerato questa prospettiva? Quasi quasi quando esco ne parlo coi ragazzi. Poi torno e vi riferisco… Ma non scherziamo! Che il Potere ci dia la possibilità di organizzarci, che non ci imponga le sue leggi, che non ci obblighi al suo sistema economico, che non ci opprima con la sua religione e la sua morale. E allora andremo tutti d’amore e d’accordo!»

«Non faccia l’ingenuo, sa che questo non è possibile!»

«Certo che lo so. Perché lo Stato pretende di essere il dominatore assoluto». Cambiando tono: «Mi dispiace deluderla, ma noi obbediamo solo alla nostra ragione, al nostro istinto, alla nostra volontà.»

«E allora prendetevi le manganellate!». Manganello si stizzì.

«Lo lasci perdere, maresciallo!». Pottutto lo redarguì. «Quanto a lei» tornò a me, «è la storia a dire che siete violenti!»

«La storia scritta da chi?» gli replicai. «C’è stato solo un periodo, quello della così detta propaganda del fatto fra la fine dell’Ottocento e la Prima guerra mondiale in cui gli anarchici hanno pensato di reagire all’oppressione con azioni dirette contro i simboli del potere. Si trattava però di pochi, isolati idealisti che speravano di risvegliare le masse. Sono tutti morti sul campo o finiti in prigione.»

«Allora gliene dico un’altra: non si capisce cosa volete!» si esaltò il pubblico ministero.

«Ma l’ho ripetuto un’infinità di volte: vogliamo solo vivere la nostra vita senza che nessuno ci dica cose fare!»

«Non mi sono spiegato. Lo Stato ha bisogno di certezza, anche quando si parla di nemici. Voi invece siete un casino totale: uno dice una cosa, uno ne dice un’altra… insomma, che palle!»

«L’anarchia è pluralista per definizione. Per questo dovete rassegnarvi a non poterla controllare. Non abbiamo una segreteria di partito che ordina come dobbiamo pensare e cosa dobbiamo fare, non abbiamo un leader, non abbiamo un movimento omogeneo…»

«Però capisce che così…!». Pottutto fece una faccia spazientita. «Almeno un ufficio di pubbliche relazioni, una sede, un capo da arrestare ogni tanto… Ogni volta sembra di ricominciare dall’inizio!»

«Per noi la figura del capo è inammissibile!»

«Ma per noi sì!»

«Lo vede?»

«Lo vede cosa?»

«Che ho ragione. Per voi è inconcepibile che possiamo agire senza un leader perché siete il prodotto della società del dominio: una società in cui ci sono dominanti e dominati, chi dà gli ordini e chi obbedisce. Siete come quegli europei che raggiunsero le coste del Sud America e quando trovarono i nativi che vivevano in una società senza fede, senza legge, senza Re, quindi senza gerarchia, li considerarono incivili. Non vi capacitate di come le persone possano unirsi, organizzarsi, autogestirsi, senza che qualcuno si imponga sugli altri. Siete talmente succubi del principio di autorità che, se non foste servi dello Stato, con la stessa fierezza lo sareste di qualcos’altro. Per questo ridiamo di voi esattamente come facevano gli indigeni quando osservavano gli europei che davano gli ordini e obbedivano1

«Le faccio notare che quella società del dominio, che le piace tanto svilire, ha portato la civilizzazione!»

«A dire il vero, ha portato parecchio sterminio. La civilizzazione è solo la creazione di nuovi spazi di mercato da sfruttare per aumentare il profitto di chi non si accontenta di quel troppo che già possiede!» replicai a denti stretti. «Penso che la narrazione liberal-capitalista da una parte e comunista dall’altra abbiano paura. Paura della nostra libertà, della nostra determinazione, della nostra capacità di autogestione che minaccia il loro imperio. Per questo ci ostacolano, ci reprimono, ci denigrano. Zinn diceva: finché le lepri non avranno i loro storici, la storia sarà raccontata dai cacciatori2. Ma attenzione, che la storia è in continuo divenire e ciò che oggi sembra certo, domani chissà!».

Per qualche secondo mi fissarono inespressivi.

Poi Manganello ruppe il silenzio: «Adesso che c’entrano le lepri?».

 

NOTE

1 – Aneddoto raccontato da Pierre Clastres in Anarchia Selvaggia, Eleuthera Edizioni, 2017.

2 – Howard Zinn, 1922-2010, storico, saggista. Citato da Isabelle Attard in Perché sono diventata anarchica, Eleuthera Edizioni, 2021.

 

 

 

 

2.17-EDUCAZIONE TRADIZIONALE VS EDUCAZIONE LIBERTARIA

«Splendido!». Pottutto attese che tornassi al mio posto. «Vuole una sigaretta?»

«Ho smesso da quando mio padre…»

«La prenda!». Sorrise a bocca stretta. «Mica vorrà godersi tutti gli ergastoli?» Svaporò sulle lenti degli occhiali. «Sa cosa credo?»

«Sono curioso» dissi.

«Credo che le piaccia parlare di libertà e di eguaglianza, ma sotto sotto vorrebbe che tutti la pensassero come lei!»

«Di solito questo avviene in democrazia…»

«Non vuole che gli altri le dicano cosa fare, ma vorrebbe che gli altri facessero cosa dice!»

«Questa invece è la tirannia che sta dietro la sua maschera!»

«Non le credo!»

«L’anarchia non impone la propria visione del mondo1. Auspica però che le persone diventino più consapevoli e si uniscano per migliorarlo. Una crescita che comincia da ragazzi, quando si è fragili e manipolabili. Non a caso i libertari considerano l’educazione il principale mezzo di emancipazione contro le deturpazioni provocate dal dominio. Criticano, infatti, la scuola tradizionale, che invece di sviluppare la personalità degli individui, mortifica e annichilisce imponendo nozioni inutili e un apprendimento acritico che costringe all’obbedienza annullando la soggettività. Insomma, tutti siamo andati a scuola…».

Manganello tossicchiò voltandosi dall’altra parte.

«Okay, quasi tutti!» precisai. «Ricordiamo i banchi scomodi, il silenzio durante le lezioni, la possibilità di parlare se interrogati, l’alzarsi se autorizzati e via discorrendo. C’è un professore che comanda, ci sono gli studenti che obbediscono. Un rapporto vessatorio, verticale, che inevitabilmente degenera in relazione sociali alterate, in cui l’individuo non può esprimere la propria autenticità perché costretto a essere disciplinato, deferente e remissivo. Disciplina, consenso e remissività che sono le basi su cui il potere si regge.»

«Mi sta dicendo che se il mondo non le piace la colpa è dei maestri?»

«Le sto dicendo che la scuola è uno dei tanti strumenti utilizzati per ammaestrare le persone e renderle incapaci di agire autonomamente. Ma perché l’individuo si realizzi, occorre che apprenda e viva l’esperienza coscientemente, senza condizionamenti: sia capace di autodeterminarsi. Cosa che sarà sempre preclusa se la sua mente verrà infarcita dalla logica della supremazia. Non è un caso, infatti, che i più innovatori pedagoghi fossero libertari.»

«Libertini?»

«Libertari!»

«Libertari?»

«È sinonimo di anarchici. Però fa molto fariseo. Per questo piace tanto ai perbenisti!»

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«L’educazione tradizionale, che indottrina e plasma la mente all’obbedienza, è l’espressione della società autoritaria, in cui il chiamato da Dio, obbedì2 porta le sue convinzioni a realizzare la banalità del male di cui parla Hannah Arendt3». E guardando Manganello che esitava a scrivere il nome: «Hannah si scrive con due H» dissi.

«Come Deborah-h?» Con doppia aspirazione finale.

«Una all’inizio e una alla fine» precisai. «Le scuole sono allevamenti intensivi in cui i giovani vengono indottrinati ad accettare l’obbedienza e selezionati per essere lavoratori docili e remissivi, perciò efficienti, produttivi e performanti».

«Come al solito le piace esagerare. A scuola, come nella vita, sono i migliori che vanno avanti!»

«I migliori chi?» sorrisi. «La meritocrazia è una baggianata. Già nell’Ottocento Bakunin la definiva l’ideologia del nuovo capitalismo. Recentemente anche il Papa ha detto che è la legittimazione etica della disuguaglianza. E poi, chi sono questi così detti migliori? I più bravi a sgobbare? I più obbedienti? I drogati del profitto? Per non parlare di come il denaro assicuri ai soliti figli di scuole prestigiose, master, esperienze all’estero e conoscenze necessarie all’inserimento nel mondo del lavoro che conta. La parità di condizioni di partenza è l’ennesima illusione soffiata in faccia ai sempliciotti.»

«Quindi, secondo lei la scuola non serve a niente?»

«Non ho detto questo! Senza la castrazione scolastica la società del dominio non potrebbe sfornare a getto continuo impiegati ben addomesticati necessari alla conservazione dei sistema!4» Ironizzai.

«Tanti bei discorsi!» il maresciallo si stizzì. «Vado a chiamare l’agente Sevizia che questo non lo sopporto più!»

«Si rimetta a sedere, Manganello!» lo esortò Pottutto.

 

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«Se nella società del dominio lo scopo della scuola è svolgere una “funzione socializzante”, cioè conformare l’individuo ad essa per garantire la sua perpetuazione, la pedagogia radicale ha come obbiettivo la realizzazione della personalità dell’individuo e lo sviluppo dei suoi interessi, delle sue aspirazioni, dei suoi bisogni, dei suoi propositi. Abbandonando il sistema educativo autoritario, impositivo, trasmissivo, passivo e certificatorio, si focalizza sul discente. Sperimenta una serie di metodi mediante i quali aiutarlo a diventare cosciente di sé, quindi capace di autodeterminarsi. Metodi fondati sull’esperienza, sull’esplorazione, sul sovvertimento del rapporto gerarchico docente-allievo, sul rigetto della conformistica psicologia del risultato perpetuante l’ordine esistente.»

«Ci mancava Freud!» Pottutto si animò.

«Per psicologia del risultato intendo il voto.»

«Che c’incastrano le elezioni!» il solito Manganello.

«Forse si riferisce a quello religioso!» lo corresse Pottutto.

Pensai a quanto fosse divertente avere un uditorio di quel livello.

«L’educazione libertaria non mira a indottrinare e selezionare. Sviluppa l’autonomia, lo spirito critico e la capacità di mettere in discussione5. Qualità che sono il principale strumento di emancipazione contro ogni omologazione uniformante e conformista, senza la quale è appiattimento totale, assoluto annichilimento. Le sue proposte sono una continua ricerca della soluzione alla necessità stirneriana di diventare padroni di se stessi, con l’obiettivo di realizzare uno stile di vita alternativo, contraddistinto da un’etica che richiama ciascun individuo alla coerenza tra il pensiero e la propria esistenza concreta6».

«Che c’è?». Pottutto si rivolse a Manganello che si martoriava il naso.

«Scuola si scrive con la C o con la Q? Mi confondo sempre!»

«Lei come l’ha scritto?»

«Con la S maiuscola poi il punto».

«Andiamo avanti!». Il PM si rivolse a me.

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«I paradigmi della scuola libertaria sono la sperimentazione, la spontaneità, l’autodeterminazione e il pluralismo. Sperimentare significa educare attraverso un approccio esperienziale: la consapevolezza di sé, quindi delle attitudini e delle abilità personali, cosi come dei difetti e delle lacune, si forma passo dopo passo, attraverso una crescita che solo l’approccio diretto col caso concreto consente di sviluppare. L’impegno degli insegnanti deve focalizzarsi sul ragazzo lasciandolo libero di apprendere, sbagliare, correggersi. Nessuna imposizione di nozioni astratte, ma un confronto continuo con la vita. Deve educarsi a vivere pienamente e intensamente, libero dalle costrizioni mentali e fisiche… Se proprio dobbiamo insegnargli qualcosa, insegniamogli a godere l’estasi dell’esperienza: la bellezza del qui e ora. È sfiorando puramente l’attimo che l’uomo è! Il giovane deve apprendere spontaneamente, senza essere condizionato dalla figura dell’insegnante o dell’ambiente in cui è inserito. Massima importanza viene dato al contatto diretto con le cose, alla manualità, all’immaginazione, alla creatività quali propellenti per sviluppare la curiosità, l’interesse, la ricerca. Niente tabelle, nozioni, autorità, voti, gerarchia, privilegi, imposizioni e, soprattutto, manipolazione. Spazio al gioco, perché il divertimento favorisce la creatività e la crescita personale.»

«Abbiamo finito con la scuola?». Pottutto approfittò della mia pausa.

«No!»

«No?»

«Quasi, però!» dissi. «Condizione necessaria affinché lo studente impari ad autodeterminarsi è che la sua maturazione avvenga in un contesto pluralista. La diversità pungola a gestirsi, a superare gli ostacoli, a darsi degli obiettivi, ad autodeterminarsi ricorrendo alle proprie capacità, affrontando caso per caso con un confronto costante fatto di differenze, discussioni animate, errori, tentativi e apprendimento. Essere diversi significa essere ingovernabili. Per questo il Potere si impegna tanto a uniformare!».

Pottutto tirò un sospiro di sollievo: «Però adesso abbiamo finito!»

 

NOTE

1 – L’esercizio e la pratica della dominazione sia pregiudizievole e nefasta allo sviluppo e alla espansione della personalità umana. Per questo non si sognerebbero mai di imporre il loro punto di vista a coloro che dichiarano di non saper fare a meno dei paraocchi e delle redini dell’autorità . Cosi in Emile Armand, L’iniziazione individualista anarchica, 1923, Tip di C. Mori 1956.

2 – Bibbia, Lettera agli Ebrei, 11,8. NdA – Il chiamato da Dio, obbedì è Abramo.

3 – Hannah Arendt, La banalità del male, 1963, Feltrinelli.

4 – Comitato invisibile, L’insurrezione che viene, 2007.

5 – Isabelle Attard, Perché sono diventata anarchica, 2021, Eleuthera.

6 – G. Ragona, Anarchismo, ivi.

 

 

 

 

2.18-LA LIBERTÀ

«Qualificare la libertà è complesso perché non esiste una definizione unica. Lo dimostra il fatto che ogni dottrina filosofica ha voluto spiegarla a modo suo. Si va da Aristotele per il quale un’azione è volontaria e libera quando non è condizionata da fattori esterni, alla teologia per cui la razionalità non conta niente perché Dio è tanto buono che ci dona la sua grazia; da Spinoza per il quale l’uomo è uno dei modi di essere Dio ma Dio è migliore, all’ottimismo di Rousseau per cui: l’uomo nasce libero, ma ovunque è in catene; dalla libertà kantiana che si realizza attraverso la ragione e fuori dall’esperienza, alla concretezza di Hegel che la identifica in un processo dialettico dello Spirito Universale insito nella storia; da Marx per cui è strumento di liberazione economica, sociale, politica, a…»

«Oh!» esplose Pottutto. «Ora basta!»

«Solo l’ultima, dottore!» lo pregai. «A Sartre per cui l’uomo sarà sempre un’infelice perché consapevole di non essere trascendente; da… scherzavo!».

Il pubblico ministero ne approfittò per tirare fuori dalla tasca della giacca una baguette farcita con prosciutto crudo, cipolle rosse tagliate a rondelle, scaglie di grana, pancetta, uovo sodo, tonno, bresaola, mango, cetriolini, crema di piselli, due gocce di olio al tartufo, frittata, pomodori secchi, e un mix di mascarpone, maionese, senape e mostarda.

Con un’occhiata gli feci capire che Manganello stava sbavando.

Lo ignorò.

«Quanto le piacerà citare i filosofi!». Tornò a me con tono confidenziale.

«Tutto ciò che diciamo è già stato detto. E poi la filosofia aiuta a pensare e pensare è importante, ci distingue da… un cetriolo!». Sorrisi. «Per me la libertà è…»

«È una cosa lunga?»

«La definizione è brevissima: la libertà è assenza di costrizioni.»

«Tutto qui?»

«Suppergiù!» sollevai le spalle. «Sono libero se penso, scelgo e agisco come voglio per soddisfare il mio interesse, per realizzare il mio bene, per conseguire la mia felicità che» anticipai la domanda, «non può essere materiale giacché condizionata dalla necessità». Dissi. «Ma quali sono gli ostacoli alla mia libertà?»

«A parte una decina di ergastoli?».

«Sono quelli che impediscono lo sviluppo personale: tutto ciò che avversa la vita, la salute, l’identità personale, la libera manifestazione del pensiero, eccetera. In sintesi: un’autorità che dica di fare ciò che non voglio fare.»

«Ha citato i diritti soggettivi sanciti dalle Costituzioni …»

«Le quali, però, non hanno fatto altro che codificare diritti innati preesistenti, che l’uomo ha sempre considerato inalienabili, irrinunciabili e imprescrittibili, appropriandosene affinché i governi potessero interpretarli secondo convenienza.»

«Non la seguo!»

«Prendiamo un diritto a caso: il diritto alla salute. Non c’è bisogno che dimostri che sia innato: l’uomo lo riconosce e garantisce da sempre. La Costituzione lo definisce come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività. Ciò significa che lo Stato si impegna a fornire gli strumenti per assicurare alla società i mezzi per tutelarla. Lo stesso articolo, però, prevede che nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. Ecco l’ipocrita, benché immancabile, contraddizione che consente di derogare il diritto naturale: stabilendo infatti che il trattamento sanitario può essere disposto nei confronti dell’individuo anche contro la sua volontà o il suo interesse con una semplice legge, di fatto lo spoglia della titolarità conferendola allo Stato. Facile immaginare come gli effetti di questa stortura possano essere devastanti. Se domani, ad esempio, un governo ritenesse utile che fossimo biondi, basterebbe una legge e tutti dovremmo tingere i capelli, pena la sanzione, la segregazione, la disapprovazione sociale… Ma non divaghiamo!»

«Ecco bravo, non divaghiamo!»

«Stavo dicendo che la libertà è determinarsi senza ostacoli1. Per gli anarchici, infatti, libertà significa essere sovrani di se stessi, quindi scegliere di dare forma alla propria volontà. Essere liberi di pensare, di vestire, di andare, di condividere, di lavorare, di amare, di godere di tutto ciò che offre la vita2. Una libertà, pertanto, non assoluta né astratta, ma concreta.  Ma perché ciò sia possibile, niente e nessuno deve imporre ciò che è bene o ciò che male. Per questo affrontano quel periglioso quanto entusiasmante processo di iniziazione che porta alla conoscenza del sé.»

«Iniziazione tipo caverna platonica!»

«Bello quest’esempio filosofico!»

«Allora Massoneria!». Pottutto si corresse. «È la stanza buia in cui mi hanno chiuso per ore!3»

«La libertà è una conquista. Non può essere concessa né parziale, cioè elargita dallo Stato, dal Re, dal Potestà, da Dio, dalla società, da un individuo chicchessia, in quanto nasconderebbe nel suo seno una qualche forma di autorità. È indivisibile, non si può toglierne una parte senza ucciderla tutta diceva Bakunin4. Inoltre, deve essere condivisa perché uno è tutto e tutto è uno. Se vivessi su un’isola deserta, sicuramente sarei libero: un Robinson Crusoe solitario che parla con la noce di cocco. Divertente all’inizio, ma poi dovrei scegliere fra abbattere la palma a testate o concedermi agli squali. Allo stesso modo, fossi circondato da servi, mi vergognerei della mia libertà, mi disprezzerei per la mia indifferenza. Perché la libertà, la vera libertà, non può prescindere dalla co-partecipazione all’armonia universale. Sono libero solo se anche gli altri lo sono e gli altri lo sono se tutti siamo eguali. Per questo libertà ed eguaglianza sono complementari. La libertà senza eguaglianza è privilegio, l’uguaglianza senza libertà è una tirannia5. Ed è in questa identità fra individui che l’eguaglianza si realizza spontaneamente sotto forma solidarietà. Che non è la solidarietà evangelica, cioè la virtù teologale per la quale si ama il prossimo per amore di Dio, non è la solidarietà sociale che impone l’uniformità per essere manipolabili, bensì una comunità di affinità che si oppongono alla tirannia e condividono uno scopo. Fratelli, infatti, gli anarchici si chiamano fra loro. Per taluni camerati, compagni per altri. In sostanza, individui riuniti sotto la stessa bandiera, guidati da obiettivi comuni, stimolati da un’unione materiale e spirituale autentica, razionale e sentimentale».

Al mio silenzio Pottutto replicò con un’espressione fra il pianto e la nausea.

«Che ha, si sente male?» chiesi preoccupato.

«Tutto bene» singhiozzò. «Rimpiango solo d’aver accettato l’incarico!»

+++++

«So a cosa sta pensando. Lei sta pensando che sono un illuso perché gli uomini sono divoratori di altri uomini, vero?»

«Homo homini lupus!»

«Bravo, ha studiato Hobbes!» rilevai sarcastico. «La concezione che gli uomini siano guidati da istinti animali e che, se non controllati, si mangerebbero vicendevolmente è la solita giustificazione autolegittimante del dominio che fa leva sul servilismo dei molti. La maggior parte degli uomini non mangia nessuno. Al massimo abbaia senza mordere. Di sicuro, però, vivere in una società omologata, che non rispetta le differenze e i bisogni individuali e sociali, accresce frustrazione e alienazione, quindi induce a rifiutare la vita, le relazioni, la natura stessa, impedendo all’individuo di raggiungere la piena consapevolezza di sé. Che fare allora?»

«Già, che facciamo?»

«Dobbiamo dichiarare guerra a tutto ciò che impedisce la fusione armoniosa degli istinti. Perché la vera armonia scaturisce naturalmente dalla fusione dell’individuo con la collettività. Una fusione che si realizza spontaneamente superando i fantasmi della religione che plagia le menti, del governo che soggioga le condotte, della proprietà che vincola ai bisogni e nega le aspirazioni. Ma nessuno ci libererà se non noi stessi. La libertà si conquista!»

«Scommetto mezzo sigaro», Pottutto tirò fuori un cubano dalla tasca della giacca, «che avete in progetto di far esplodere qualche bella bombetta!» disse tutto eccitato.

«Parli, stragista!» grugnì Manganello.

«Mi spiace deludervi» risposi. «Ma non faccio scoppiare neppure i petardi a Capodanno!»

«Rapimento di qualche autorità?»

«Tipo?»

«Non so… un parlamentare?»

«Ci costerebbe troppo» dissi. «Quelli mangiano assai!»

«Allora un assessore!»

«E, secondo lei, mi abbasserei a rapire un assessore?»

«Un generale dell’esercito?»

«Meglio uno sbirro. Quantomeno gli restituiremmo pan per focaccia!» scherzai.

«Spero non sia un pubblico ministero!»

«La libertà è la massima aspirazione di ogni anarchico e lottare per essa è il più sacro dei doveri. Ma non può svilupparsi in un confronto suicida col Potere…»

«Perché ne tocchereste, eh?» si svegliò Manganello.

«Non mi dica che sta pensando di imbrattare qualche muro, mi deluderebbe!» disse Pottutto.

«Sarà spontanea. Sarà un’ombra. Sarà silenziosa. Sarà impercettibile. Sarà costante e diffusa. Sarà…»

«Sarà, sarà quel che sarà, del nostro amore che sarà…». Pottutto iniziò a cantare.

«Prendiamo oggi quel che dà, e quel che avanza per domani basterà…» seguì Manganello.

«E quando avremo qualche anno di più, se a dirmi t’amo sarai ancora tu…» di nuovo il magistrato.

«La mia dolce gelosia ti terrà un po’ compagnia ogni volta che andrai via!6» In coro. Stringendosi poi in un caloroso abbraccio.

 

NOTE

1 – Cercate voi stessi, diventate egoisti, ognuno di voi divenga Dio onnipotente! diceva Stirner, che aggiungeva: riconoscete ciò che siete veramente e lasciate correre le vostre aspirazioni ipocrite, la vostra stolta mania di essere qualcos’altro da ciò che siete1. Da Max Stirner, L’unico e la sua proprietà, ivi.

2 – Siamo en dehors, dice Emile Armand, che vogliono vivere per vivere, per compiere la propria funzione di bipede a statura eretta, dotato di pensiero e di sentimento, capace di analizzare delle emozioni e di catalogare le sensazioni. Vivere per vivere, senz’altro. Vivere per trasferirsi da un luogo all’altro, per apprezzare le esperienze intellettuali, morali, fisiche, delle quali è cosparsa la strada di ciascuno: per goderne; per suscitarne quando l’esistenza appare troppo monotona; per porvi fine o rinnovarle, secondo i casi. Vivere per vivere, per soddisfare i bisogni del cervello e il richiamo dei sensi. Vivere per acquistare il sapere, per lottare e formarsi un’individualità spiccata, per amare, per abbracciare; per cogliere i fiori dei campi e mangiare i frutti degli alberi. Vivere per produrre e consumare, per seminare e raccogliere, per cantare all’unisono con gli uccelli, distendersi al sole sulla spiaggia dei mari e sul greto dei fiumi». E ancora: «Vivere per vivere, per goderne aspramente, profondamente, di tutto ciò che offre la vita» E qui si fa quasi poetico: «Per sorseggiare fino all’ultima goccia la coppa di delizie e di sorprese che la vita tende a chiunque acquista coscienza del proprio essere. Da Emile Armand, Iniziazione individualista anarchica, ivi. (NdA. En dehors è come Armand chiamava i refrattari, i ribelli).

3 -Nell’iniziazione massonica è il luogo buio in cui sosta l’iniziato durante il rito di passaggio prima di vedere la luce. Simbolizza la morte prima della nascita.

4 – Sono veramente libero solo quando tutti gli esseri che mi circondano, uomini o donne, sono egualmente liberi. La libertà degli altri, lungi dall’essere un limite o la negazione della mia libertà, ne è al contrario la condizione necessaria e la conferma. Non divengo veramente libero se non attraverso la libertà degli altri, così che più numerosi sono gli uomini liberi che mi circondano, e più profonda e ampia diviene la mia libertà. È invece proprio la schiavitù degli uomini a porre una barriera alla mia libertà, o, che è lo stesso, è la loro bestialità a negare la mia umanità; perché, di nuovo, posso dirmi veramente libero solo quando la mia libertà, o, che è lo stesso, quando la mia dignità di uomo, il mio diritto umano, che consiste nel non obbedire a nessun altro uomo e nel determinare i miei atti in conformità con le mie convinzioni, mediate attraverso la coscienza ugualmente libera di tutti solo quando la mia libertà e la mia dignità mi ritornano confermate dall’assenso di tutti. La mia libertà personale, così convalidata dalla libertà di tutti, si estende all’infinito . Da M. Bakunin, Dio e Stato, 1882, Feltrinelli.

5 – NdA. La frase originale è: la libertà senza socialismo è un privilegio dell’ingiustizia; il socialismo senza libertà è schiavitù e brutalità.

6 – Tiziana Rivale, Sarà quel che sarà, 1997.

 

 

 

 

3-INGRANAGGI MENTALI

Bussarono alla porta.

Un tarchiatello in divisa si affacciò timidamente per avvisare Pottutto che c’era una telefonata per lui.

«Per me?»

«Per lei!»

«Dica che sono impegnato!»

«È urgente!»

«Chi sarà mai?» rifletté imbarazzato. «Deve essere mia moglie. Stamani è stata a parlare con i professori di nostro figlio… Tutte le volte è una tragedia!» aggiunse con ghigno crepuscolare.

«Non è sua moglie!».

Il pubblico ministero lisciò il baffo con la penna. «Sarà mica la pizzeria… magari hanno visto le luci accese?»

«Non è la pizzeria, dottore!»

«Manganello, ha pagato la tintoria?»

«È il dottor Persecuzio» tuonò il tracagnotto.

La segretaria smise di battere a macchina.

Manganello scivolò sulla sedia fino a nascondersi sotto il tavolo.

Avrei giurato che la sfinge sulla porta avesse chiuso gli occhi.

O forse fu solo una mia impressione.

Il magistrato oscillò tremolante. Sbiancò, avvampò, sbiancò ancora per assestarsi su un livido cadaverico.

«Persecuzio?» chiese terrorizzato. Per non cadere afferrò il riporto del maresciallo. Ma i capelli erano unti e gli sgusciarono di mano.

«Il procuratore capo!» la giovane ribadì.

«Manganello, risponde lei per favore?»

«E che gli dico?»

«Non so. Come s’inventa le prove, s’inventi una scusa!»

«Non mi faccia questo!» supplicò il maresciallo.

«Vuole che ci parli io?» proposi.

«Lo farebbe per me?»

«Per gli amici questo e altro!».

Alla fine, Pottutto si rassegnò al destino: «Va bene, me lo passi!».

Attendemmo in apnea che trillasse il vecchio telefono Sip color grigio topo poggiato sulla cassettiera alle spalle dei miei inquisitori.

«Pronto, chi parla?» farfugliò Pottutto. «Buongiorno, dottor Persecuzio… Certo che sapevo che era lei, dottor Persecuzio… Perché allora ho chiesto chi parla? Non saprei dottor Persecuzio. Per abitudine, forse?… No dottor Persecuzio, non faccio il cretino! A proposito dottor Persecuzio, volevo complimentarmi perché la foto sul giornale le risalta il profilo egizio!… No, dottor Persecuzio, non faccio neanche il leccaculo!… Immaginavo volesse parlarmi dottor Persecuzio… L’interrogatorio? Abbiamo cominciato giustappunto a conoscerci, dottor Persecuzio. L’indagato è affabile e collaborativo e sta spiegando con dovizia cos’è l’anarchia… Come dottor Persecuzio? Non gliene frega di sapere cos’è l’anarchia e vuole solo i nomi per la stampa?». Pottutto coprì la cornetta e a me: «Dice che vuole solo i nomi per la stampa!»

«Quali nomi?» replicai di labiale.

«Sicuramente, dottor Persecuzio. Le prometto che l’indagato non ne tralascerà uno!». E a me: «Mi informa che vi impiccherebbe tutti voi anarchici!». Quasi a giustificarsi: «Non si preoccupi, gli piace esagerare!». Tornò ad ascoltare il procuratore capo e poi coprì di nuovo la cornetta: «Sostiene che a quest’ora col dottor Comma avrebbe già confessato!».

Lo rassicurai negando con un gesto della testa.

«Le prometto dottor Persecuzio che parlerà così tanto che alla fine dovrà fare i fumenti perché gli torni la voce!… Allora ci sentiamo più tardi, dottor Persecuzio… Buona serata. Saluti la signora. È ancora in ufficio? Allora saluti la segretaria. Grazie della telefonata. A presto e buon lavoro. Buon inizio e buon principio. Ad meliora et at maiora semper… Ha buttato giù!» Il magistrato fissò il vuoto. «Gli sarà piaciuta la citazione latina?». I suoi occhi spauriti scivolarono dal faccione del maresciallo, alla scrivania, a me. Si morse il labbro.

«È stato bravo»!» lo rassicurai.

«Dice?»

«Molto determinato e conciso. Adesso però possiamo proseguire l’interrogatorio?».

+++++

Per recuperare la sua attenzione riassunsi su un foglio alcune parole chiave della socialità anarchica:

Liberarsi dagli ingranaggi mentali

Coscienza di sé → Padrone di se stesso

Autonomia = libertà-eguaglianza

 

Sintetizzai: «Affinché gli uomini manifestino la propria personalità in maniera libera ed eguale, occorre che siano coscienti di sé, ovverosia neghino i condizionamenti esterni e vivano seguendo la propria natura. Emancipati così dagli ingranaggi mentali, diventano padroni di se stessi, quindi capaci di determinarsi senza assoggettamenti. Che non significa fare quello che pare, poiché il mero perseguimento dei desideri e piaceri è un ciclo senza fine che porta a sofferenza, bensì fondersi nell’unità del mondo».

Pottutto e Manganello si fissarono come se il peggio dovesse ancora venire.

«In un articolo del blog spiego tale evoluzione con le parole di Stirner. Sarà pure delirante, egoista ed esaltato come sostengono i suoi detrattori, ma usa immagini così ficcanti, paradossi, bizzarrie ed è così al confine fra genio e follia che ogni volta che lo leggo mi illumino d’immenso!» scomodai Ungaretti1. «Il suo pensiero, infatti, coglie in pieno la necessità che la volontà si emancipi dalla contingenza per sprigionare tutta la sua potenza. Nietzsche non ammetterà mai di essersi ispirato a lui, ma senza l’Unico, il Superuomo sarebbe stato più uomo che super!»

«Sta dicendo che lo ha plagiato?»

«Lascio a voi giudicare!»

«Signorina Servile, terminato l’interrogatorio prepari subito un bell’avviso di garanzia nei confronti di questo falsificatore da strapazzo!» paupulò Pottutto.

«Ben fatto!» seguì Manganello.

«Il filosofo…» ripresi.

«Chi, quel Shiller?» domandò il PM.

«Si chiama Stirner» precisai. «Anche se I Masnadieri sono una bella botta di ribellione!2». Proseguii: «Il filosofo parte dal presupposto che l’individuo non sia l’io è tutto idealizzato da Fichte, né l’io del popolo che è una potenza impersonale, spirituale, è la legge quindi uno spettro, non un io, né quello regolamentato dallo Stato in quanto esso non è pensabile senza il dominio e la schiavitù, tantomeno quello contemplato dalla religione per cui la persona viene soggiogata dalla promessa del bene sommo e non presta più attenzione ai propri desideri, o l’homo oeconomicus, poiché nell’avere, ossia negli averi, gli uomini sono diseguali…»

«Non è che ci rimanga granché!» rilevò Manganello.

«Per Stirner, infatti, idealismo, società, Stato, religione, capitale sono forme di dominio. Occorre che l’Unico si ribelli per diventare padrone di sé, cioè individuo capace di determinarsi secondo la propria volontà senza subire le pressioni, le suggestioni, i fantasmi che da sempre la soggiogano. Solo quando il mondo sarà nostro, il suo potere non sarà più contro di noi ma con noi, afferma3».

«Lo diceva anche mia nonna che bisogna essere se stessi!» squittì il maresciallo.

«Le nonne sono sempre molto sagge!» convenni.

«L’urgenza di diventare padroni di se stessi è un concetto trasversale all’anarchia. Kropotkin, ad esempio, pur avendo una concezione del mondo, della società, dell’anarchia stessa completamente opposta dall’individualista, sostiene a sua volta che il capitalismo, la religione, la giustizia, il governo sono grandi cause di depravazione. Lo afferma per dimostrare la potenza del mutuo appoggio, ma la sostanza non varia4.. Entrambi i filosofi, così diversi ma così eguali, parlano degli ingranaggi mentali da cui dobbiamo affrancarci per essere padroni di noi stessi: religione, società, Stato, capitale». Guardai il pubblico ministero: «Adesso li vediamo uno alla volta.»

«Non basta citarli?» chiese.

«Dottore, mi dia un po’ di soddisfazione!».

 

NOTE

– 1 Mi illumino d’immenso è una poesia di Giuseppe Ungaretti, 1888, 1970.

– 2 I Masnadieri sono un’opera che critica le convenzioni sociali e l’autorità del poeta tedesco Friedrich Shiller 1759-1805.

– 3 Max Stirner, L’Unico e la sua proprietà, 1844.

– 4 Noi non chiediamo che una cosa, ovverosia eliminare tutto ciò che nella società umana impedisce il libero sviluppo, cioè tutto ciò che falsa il nostro giudizio: lo Stato, la Chiesa, lo sfruttamento; il giudice, il prete, il governo, lo sfruttatore, poiché in una società basata sullo sfruttamento e la servitù, la natura umana si degrada. Da Peter Kropotkin, La morale anarchica, 1890.

3.1-LA RELIGIONE

«Il primo ostacolo è la religione. Non mi riferisco soltanto alla venerazione di Dio, Allah o Odino, eccetera, ma a ogni dottrina che inebetisce la ragione e il sentimento proiettando il sé fuori dall’esperienza. La religione nasce da un bisogno di risposte alle domande su cosa accade dopo la morte e, di conseguenza, quale è il senso della vita. Alla prima ribatte con fantasie più o meno bizzarre in cui divinità mattacchione si prendono gioco di noi, ma che amiamo lo stesso perché siamo masochisti. Alla seconda replica concependo regole di condotta la cui osservanza favorisce un miglior soggiorno eterno. Facile comprendere come la definizione delle medesime sia ambita dal Potere quale strumento di controllo sociale. Ovviamente non è il luogo per analizzare come le religioni ottenebrino la ragione e deformino l’emozione…»

«Bravo!». Pottutto e Manganello applaudirono.

«Ma non posso ignorare che anche la religione sia l’antitesi dell’autodeterminazione» decretai. «Il credente, infatti, non opera per se stesso o per gli altri, ma per ingraziarsi la benevolenza dell’entità venerata. Si comporta secondo la sua volontà e la invoca sia affinché interceda negli affari mondani, sia per assicurarsi un posticino temperato per l’eternità…»

«Dovrebbe far ridere?» chiese Pottutto irritato.

«In realtà dovrebbe far piangere!» lo provocai.

«Il fedele è una persona fragile a cui non basta la vita per trovare risposte. Ha talmente bisogno di rassicurazioni che, potesse, tornerebbe nell’utero materno!»

«Questa invece mi fa impressione!» esclamò Pottutto.

«All’opposto l’anarchico, diciamo il negatore in generale, trova nell’esperienza la propria ragione. Detto che è nella natura umana il bisogno di conforto, sapete perché deve essere realizzato da un’entità trascendente?»

«Boh!» risposero in coro.

«Io non so neanche che vuol dire trascendente!» aggiunse il maresciallo.

«La risposta è semplice: pur non ammettendolo per orgoglio e perché è meglio tacere si sa mai portasse male, l’uomo disprezza talmente ciò che è e come vive che si deresponsabilizza delegando la propria sorte all’immaginazione. Chiude gli occhi e se qui è caos, di là è pace; se qui è odio, di là è amore; se qui è niente, di là è tutto. Ma perché il sogno si realizzi occorre che l’artefice sia onnipotente, onnisciente, indefettibile, intellegibile, intangibile… insomma, tutto ciò che l’uomo non è1! Non a caso, infatti, i paradigmi della religione sono sempre stati gli dei che guardano dall’alto, gli uomini che ne subiscono i capricci, il culto per mantenerli tranquilli e sereni. Le religioni monoteiste hanno prodotto un salto di qualità: anziché tante divinità, ce n’è una sola creatrice e imperante. Si è passati dal politeismo, che possiamo immaginare come una moderna famiglia allargata, paternalistica ma tollerante, al patriarcato in cui il padre burbero ordina e i figli obbediscono per evitare gli schiaffoni. Monoteista è il cristianesimo, ma anche l’ebraismo, l’islamismo e compagnia cantante.»

«E l’Induismo?»

«Più che una religione, direi che è un insieme di credenze.»

«Il Buddismo?»

«Forse più una filosofia!»

«E tifare il Napoli? Quella sì che è una religione!» si interpose Manganello.

«Questo passaggio ha sancito anche il mutamento del rapporto col sacro: se una volta bastava un banalissimo sacrificio per amicarsi quella o quell’altra divinità, per alimentare la concordia ed evitare che gli dei riversassero i loro capricci sulla terra, con il dio unico e assoluto l’uomo ha subordinato la propria volontà alla sua rinunciando a ogni possibilità di determinarsi».

«Ma c’è il libero arbitrio!» obbiettò Pottutto.

«Che giustifica la responsabilità, quindi il senso di colpa e la conseguente sanzione divina!» chiarii. «Infatti Dio ci dice che si è liberi di fare una cosa anziché un’altra. Ma se facciamo l’altra ci punisce. Geniale! Così geniale che tutte le manifestazioni di potere che nei secoli si sono succedute hanno scimmiottato questo principio!» dissi. «La verità è che la religione è il più potente dei costrutti in quanto agisce sulla fragilità umana creando regole, dogmi, imposizioni a cui è impossibile sottrarsi. Si chiama morale. Ogni religione ha la sua. Inderogabile!»

«E cos’altro si aspetta da una religione?»

«Dalla religione niente. Dalle persone, invece, che si guardino intorno e cerchino la propria essenza. Poi sollevino gli occhi e godano dell’essere parte del tutto. Vivere armonicamente con ciò che ci circonda è l’unico scopo della vita. Si è liberi nella consapevolezza di ciò, si è eguali nella sua pratica. Pur essendo una banale verità, invece, l’uomo preferisce obbedire. Con l’effetto che c’è sempre qualcuno che si appropria dell’autorità e ne approfitta per il proprio tornaconto.»

«Dimentica però che credere è un atto di fede!»

«Non c’è dubbio. Poiché se la logica dimostra tutto e il suo contrario, non rimane che appellarsi all’emotività, la più democratica e distinguibile delle esperienze umane. Dio esiste per chi ha un cuore grande: chi lo ignora è una persona arida e malvagia! E così, zitta zitta, la religione ci rifila la più pervicace delle gerarchie: quella fra buoni e cattivi.»

«Non mi piace questo sarcasmo!» obiettò Pottutto.

«Perché, lei crede in Dio?» gli domandai.

«Certamente!»

«E lei?» chiesi a Manganello.

Il maresciallo aprì con disinvoltura il bottone della divisa e da sotto un quintale di pelo esibì una croce dorata avvolta da una schiera di ciondoli: «Questa è la Madonna di Lourdes, questo è San Bernardo da Aosta protettore degli alpinisti, questo è San Ignazio di Loyola protettore dei militari, poi c’è San Vincenzo Ferrer protettore dei muratori, San Pasquale protettore dei cuochi, San Erasmo che protegge dall’acidità di stomaco, San Dionigi per il mal di testa, oltre a…»

«E quello?»

«Questo? Questo è il cornetto che mi ha regalato la mia nonnina!»

«I suoi amici, invece?» mi sferzò Pottutto. «Sono con o contro Dio?»

«Con o contro… Mica siamo nell’arena a decidere le sorti di un gladiatore!» esclamai. «Posso dire che gli anarchici non la pensano tutti allo stesso modo. Il che può suonare strano, ma in realtà è conforme al nostro pluralismo. C’è chi crede e chi no. L’importante è che nessuno imponga all’altro la propria concezione del mondo. Godwin, ad esempio, il padre dell’anarchia moderna, ma anche Tolstoj e Berneri, criticavano l’ateismo anarchico. Il primo sosteneva che la ragione fonda la religione; lo scrittore russo, invece, che il regno di Dio fosse immanente; l’agnostico Berneri, infine, sottolineava come l’ateismo intransigente rischiasse di diventare un dispotismo totalitario. In senso contrario, la maggior parte degli anarchici è convinta che della religione se ne possa fare a meno in quanto alimenta le gerarchie divine e terrene, mantiene gli esseri umani nella soggezione e nella superstizione, quindi nell’ignoranza e nella subalternità, oltre a fomentare discordie, guerre, confini, muri di incomprensione e discriminazione2».

Poiché ormai mi guardavano con espressioni tipo Giuditta di Klimt3, conclusi: «L’Assoluto è sempre una violenza poiché è il più potente strumento di manipolazione che fa leva sulla debolezza umana mascherata da senso di colpa. Per questo gli anarchici collocano il loro paradiso e la loro felicità sulla terra e vogliono godere pienamente e sanamente della vita, cioè vivere l’esperienza quotidiana con tutta la passione, la forza, l’altruismo, il coraggio, la determinazione, l’amore possibile. Non ha senso agognare l’immortalità quando le cose belle finiscono sempre!».

 

 

NOTE

– 1 Così parlava Lidwig Feuerbach in L’Essenza del Cristianesimo del 1843.

– 2 Pippo Guerrieri, L’Anarchia spiegata a mia figlia, BSF Edizioni, 2018.

– 3 Gustav Klimt, Giuditta, olio su tela, 1901.

 

 

 

3.2-LA SOCIETÀ: MORALE SOCIALE

«Altro ostacolo alla coscienza di sé è la società» dissi. «Essa è l’insieme di soggetti, solitamente affini per abitudini, cultura, identità, che instaurano relazioni reciproche in maniera organizzata, condividendo scambi, linguaggi, funzioni sociali, regole comportamentali, attività economiche. Può svilupparsi in un dato territorio, oppure, se si tratta di popolazioni nomadi, può mutare di volta in volta. Appena costituita è un’entità viva e fibrillante. Presto però, perde l’effervescenza iniziale e il suo dinamismo si cristallizza in consuetudini e condotte che, nel tempo, attraverso la memoria, le leggende, i rituali, spesso in simbiosi con la religione, diventano un giogo.»

«Mi sembra inevitabile, se vuole conservarsi!»

«La marmellata si conserva. L’uomo deve evolversi!» rilevai. «Conservare significa salvaguardare, cioè difendere un ordine acquisito in opposizione al naturale divenire delle cose. Che nella società del dominio implica che il più forte padroneggi e spadroneggi all’infinito la massa passiva o beneficiando della sua assuefazione o reprimendola con la coercizione legale o plasmandola attraverso norme interiorizzate come necessarie. Faccio un esempio di come la morale sociale sia ineluttabilmente reazionaria: quando negli anni sessanta le donne cominciarono a indossare la minigonna, dovettero difendersi dall’accusa d’immoralità. Ovviamente in quell’indumento non c’era niente di pericoloso o perverso, ma gli uomini intuivano i rischi che avrebbe corso la società patriarcale se esse avessero rivendicato la libertà di poter scegliere».

«Figuratevi che l’altro giorno mia moglie ha chiesto se poteva prendere l’auto!» Manganello inframezzò.

«Sono gli inconvenienti del progresso!» lo canzonai. «La morale sociale quindi, come la religione e la legge, è uno strumento di controllo volto a conservare lo status quo che fa leva sulla remissività, sull’ignoranza e sull’oscurantismo. In sintesi sul conformismo omologante.»

«Ho capito». Pottutto mi interruppe. «Ma se uno nasce in una società e quella società ha determinate regole…?»

«Avrebbe senso rispettarle se le avesse scelte. Ma qui nessuno sceglie niente. L’individuo subisce le abitudini, le memorie, i cicli, la disciplina e il convenzionalismo del contesto in cui è nato, senza alternative e senza che gli sia consentita la possibilità di aderire, creare e godere di un ordine che gli si confaccia. La domanda allora è: chi ha interesse a mantenere queste regole morali?… Ve lo dico io. Anzi, l’ho già detto: la fonte è la solita della religione e dello Stato: ovverosia il Potere.»

«Lo sapevo. È sempre colpa sua!» obiettò Pottutto.

«Pensate alla favoletta lockiana secondo cui le persone sentono il bisogno di associarsi per dare vita a un governo che difenda la proprietà1. A forza di ripetere che essa è un diritto assoluto, la sua preservazione è diventata un dovere morale. Eppure è sotto gli occhi di tutti che provoca sofferenza, odio, diseguaglianza, dividendo gli uomini fra ricchi e poveri e fra chi possiede di più e chi meno. Non vi pare?»

«Ha ragione!» gorgogliò Manganello. «Non è giusto che i miei figli vivano in cinquanta metri quadrati mentre qualcuno tiene una villa tutta per sé!» ammiccò verso Pottutto.

«E lei come fa a saperlo?» questi replicò stizzito.

«Non gliel’ho mai detto?». Il maresciallo esitò. «Un paio d’anni fa il dottor Persecuzio mi ha chiesto di pedinarla e…»

«Pedinarmi?»

«Pensava fosse omosessuale!»

«Omosessuale? Ma che…?»

«Non si preoccupi. Appena ho visto la sua signora, ho riferito subito che era una persona perbene!»

«Anche la morale sociale quindi è sempre ingiusta in quanto obbedire a una norma non condivisa annienta l’identità personale. E di fronte a un’identità violata, l’anarchico non può rimanere indifferente!» dissi.

«No? E che fa?»

«Si ribella ovviamente!»

«E che palle con questo ribellamento!» esclamò Pottutto.

Senza sottolineare l’errore lessicale: «Come che palle?»

«Mi perdoni, mi sono lasciato andare!». Il magistrato roteò il collo e sottovoce: «Comunque un po’ che palle lo è davvero!» confessò. «Sembra che per lei sia importante solo quello. Ma, dico io, non si stanca mai?»

«Se mi stanco? Mi stanca l’ingiustizia. Mi stanca l’indifferenza. Mi stanca l’assuefazione. Mi stancano la devozione e la disciplina. Mi stancano l’apatia e la passività. Non mi stanca la reazione. Che sia critica o lotta. Dobbiamo dissolvere gli ingranaggi mentali affinché una volta snebbiato il cervello la ragione e il sentimento vivano la propria natura e gli individui siano in grado di fabbricare la propria città interiore2

Il pubblico ministero fissò la pila di fogli come se temesse il momento della lettura.

Ghignai malvagiamente per tenerlo sulle spine. Poi conclusi: «Ricapitolando, la società impone principi, valori, linee guida, modelli utili alla sua perpetuazione, cioè alla sua organizzazione funzionale al mantenimento dei privilegi. Ed esattamente come la religione, la legge, l’economia, la sua forza centripeta schiaccia l’individuo. L’alternativa è la coscienza di sé, cioè affrancarsi dall’oppressione per essere liberi di scegliere. E per scegliere liberamente occorre distruggere le catene che dalla tradizione autoritaria all’odierna omologazione annullano la personalità.»

«Ma l’uomo ha bisogno di chi gli dice cosa fare!»

«E che è un cane?» replicai. «Capisco il bisogno di una stella polare. Ma che derivi dalla conoscenza empirica, cioè sia personale, non imposta!»

«Finito?» chiese Pottutto approfittando della mia pausa.

«Quasi» dissi. «Perché ciò avvenga risolutivamente occorre una cosa…»

«Che è?» chiese annoiato.

«Ma la lotta allo Stato, naturalmente!»

«Sentivo che non dovevo chiederglielo!».

NOTE

– 1 John Locke, Il secondo trattato del governo (The treatises of government), 1690.

– 2 In grado di evolvere e vibrare a loro agio, a ciascuno il compito di edificare la propria concezione della vita, di completarsi, di fabbricare la propria Città interiore. A ciascuno il compito di dirigere la propria vita, d’orientare la propria attività secondo le tendenze proprie, il proprio temperamento, il proprio carattere, le proprie aspirazioni2. Da Emile Armand, L’iniziazione individualista anarchica, 1923.

 

 

 

 

3.3- STATO: IL CONTRATTO SOCIALE

«Facciamo un break?» disse Pottutto dopo essersi stirato come uno scimpanzé.

«Non vedevo l’ora!». Manganello si alzò trionfante.

«Parlavo di me. Lei controlli gli appunti!»

«Non si preoccupi dottore, Non scappano!». Il maresciallo batté vigorosamente la mano sul blocco.

Il PM lo fulminò. Poi con disincanto tirò fuori dalla tasca della giacca una tazzina di caffè fumante. Lo sorseggiò lentamente chiudendo gli occhi. Si rimise a sedere. Pulì le lenti degli occhiali. «Splendido!» proruppe. «Dov’eravamo rimasti?»

«Allo Stato» dissi.

«Quale stato?»

«Lo Stato!»

«Sì, ho capito, ma quale stato: solido, liquido, aeriforme… Scherzo!». Evidentemente la pausa gli aveva risollevato l’umore. «Come sempre mi raccomando…»

«Dieci minuti?»

«Cinque!»

«Nove!»

«Sei!»

«Sette e accordo fatto!». Sputai nella mano e gliela porsi.

Sputò nella sua e me la strinse.

«Il più grande impedimento all’essere se stessi è lo Stato. Ma cos’è lo Stato?» domandai enfaticamente. «Per Benjamin Tucker Stato è una parola sulla bocca di tutti ma pochi la usano avendo un’idea di quel che intendono. E sapete perché? Perché lo Stato non esiste!»

«Come non esiste?» gorgogliò Manganello. «E chi ci paga lo stipendio?»

«Forse ha ragione». Pottutto tergiversò. «Ha mai visto il signor Stato?»

«Esso infatti è un’entità astratta, impersonale e invisibile che agisce attraverso le istituzioni, gli apparati, l’amministrazione e ogni forma di potere con cui ci interfacciamo e contro cui sovente ci scontriamo. Non c’è una definizione giuridica precisa. Un consesso sociale può autogestirsi prevendendo l’etica partecipazione di tutti alle sue decisioni, oppure crea strutture che lo disciplinino dall’alto perché chi è in basso è stato educato a pensare di non esserne capace. Si può pertanto definire come la forma politico-organizzativa che un gruppo sociale stabilisce per la gestione della cosa comune.»

«E fin qui non mi pare abbia fornito un contributo rilevante alla scienza giuridica!» obiettò Pottutto.

Ignorai il sarcasmo: «Individuata la forma politica, compito di giuristi, filosofi, cortigiani è darne una parvenza di ragionevolezza. E se al tempo del monarca assoluto si evocava l’intercessione divina, con lo Stato-nazione il razionalismo illuminista ha giustificato la sua assolutezza attraverso forse il più bell’esempio di fantasia applicata al potere: la teoria del contratto sociale. Una credenza ormai talmente radicata nella coscienza collettiva che ancora oggi viene menzionata dalla dottrina come principio supremo dei sistemi giuridici moderni.»

«La conosco!». Pottutto si esaltò.

«Ottimo. Allora non c’è bisogno che la spieghi!»

«Però non la ricordo!». Si riscattò con Manganello: «Immagino non sappia neanche di cosa stiamo parlando, vero?»

«E invece sì!». Il maresciallo replicò infastidito. «È quella teoria in cui si stabilisce che le persone si mettono d’accordo per creare un qualcosa…». Qui esitò, «un qualcosa in cui tutti siano d’accordo. Perché è meglio andare d’accordo che litigare. No?».

Il magistrato lo fissò in attesa che si smaterializzasse.

«La teoria del contratto sociale sembra una barzelletta perché tutti, anche i più sempliciotti, soprattutto i più sempliciotti, devono interiorizzarla: l’uomo se abbandonato a se stesso è una bestia stupida e cattiva, quindi ha bisogno di qualcuno che gli dica cosa fare. Questo il principio che si articola in due principali orientamenti: da una parte abbiamo Hobbes, per il quale gli uomini sono brutti, sporchi e cattivi e, se liberi di agire, sanno solo divorarsi gli uni con gli altri. Per cui è necessario che rinuncino alla libertà individuale per conferire al Leviatano il potere di mantenere l’ordine.»

«Esatto. Proprio come ricordavo!». Pottutto proferì convinto. «Poi c’è… Cok o qualcosa di simile, vero?»

«Esatto» dissi. «Il famoso uovo alla coque!» lo dileggiai. «Si chiama Locke. Ricorda?»

«Assolutamente!»

«Vuole parlarcene?»

«È lei il divulgatore, io sono il PM. Rispettiamo i ruoli, per cortesia!»

«Locke sostiene che gli uomini senza legge non sono così male. Sono liberi, uguali, vivono in armonia con la natura e, addirittura, riconoscono, rispettano e tutelano i diritti inviolabili in maniera spontanea. Peccato non siano affidabili. E così anche lui, che era partito tanto bene, regredisce a sua volta sulla necessità che gli individui si uniscano in una società e che essa deleghi al Principe il potere di imporre e mantenere l’ordine.»

«Un altro Leviatano?»

«Non proprio. Se per Hobbes esso implica un dominio verticistico, dall’alto verso il basso, come può essere il potere di un re, Locke afferma che la società permane anche quando il Principe diventa tiranno o si dissolve. Quindi il Potere è orizzontale.»

«Orizzontale, verticale… in diagonale non c’è niente?» crocchiò Manganello sfrontato.

«Di fatto la teoria del contratto sociale che cementa i nostri sistemi giuridici è puro catechismo, di cui ha il tono e il linguaggio dogmatico, come asseriva Camus1. Si fonda, infatti, su una delega che non esiste. Nessuno ha mai trasferito la propria autodeterminazione al popolo o al governo, nessuno ha mai accettato di rinunciare alla propria identità. Per questo lo Stato è illegittimo e opera come un bandito di strada che intima alle persone o la borsa o la vita

«Bella questa!»

«Lo diceva Spooner. Rende l’idea, vero?» dissi. «La teoria del contratto sociale è una superstizione di cui la Costituzione è il simbolo sacro a cui tutti devono prostrarsi. Un dio dei filosofi e degli avvocati surrogato del dio dei sacerdoti, rispetto al quale, però, è molto più autoritario. Infatti, se all’Assoluto si può rifiutare devozione e poi si starà a vedere cosa succede, allo Stato si obbedisce necessariamente per dovere di nascita, pena la defenestrazione sociale e disumane sofferenze fisiche e morali. Per questo non esistono soluzioni intermedie alla sua eliminazione, Anche limitare le sue funzioni alla sola sicurezza interna ed esterna e all’amministrazione della giustizia2 è una farsa. Lo Stato è e rimane una menzogna spregevole che fa leva sulla buona fede dei sempliciotti. Si professa etico fondando il suo dominio su un presupposto ingannevole, la delega. Peccato che nessuno gli abbia chiesto di esistere, né gli abbia conferito il potere di agire per suo conto violando la legge di natura per cui ciascuno deve decidere della sua vita.»

«Però è grazie alle leggi se lei può parlare anziché essere su un patibolo!»

«Il patibolo ci vorrebbe per questi… il patibolo!» echeggiò Manganello.

NOTE

– 1 Albert Camus, L’uomo in rivolta, Adelphi, 1951.

– 2 Così Herbert Spencer, che riprende la teoria della minarchia di De Molinari in Herbert Spencer, The man versus the states, 1884.

 

 

 

 

 

3.4-STATO: LA FARSA DELL’AGIRE IN NOME DEL POPOLO SOVRANO

«Probabilmente ha ragione: non fossimo in democrazia il boia avrebbe già raccatto la mia testa. L’ipocrisia si manifesta sempre con un’apparente moralità! Tuttavia, ciò non cambia l’evidenza che lo Stato sia dispotico perché si impone attraverso la sottomissione e costringe all’obbedienza con la coartazione. Né può valere a suo favore, cioè a garanzia della democraticità del sistema, la presenza delle elezioni.»

«Vuole negare anche quelle?»

«Che il sistema sia elettorale proporzionale, maggioritario, uninominale, plurinominale, a turno doppio, unico, o con pescaggio dei numeri tipo tombola, le elezioni sono una farsa. L’elettore non decide niente perché i candidati sono imposti dai partiti. Una volta eletti, essi dispongono di un mandato in bianco in virtù del quale possono fare quello che vogliono. Una libertà assoluta e incontrollata, dimostrata dalle infinite volte in cui ne abusano o violano impunemente il programma elettorale. Il loro obiettivo non è il bene del cittadino, a cui solo in prossimità delle elezioni fingono di interessarsi, ma il proprio, cioè conservare più a lungo possibile i privilegi e quello delle caste che devono proteggere, cioè delle forze economico-finanziarie che ne legittimano la sopravvivenza.»

«Che qualunquismo!»

«Qualunquismo e complottismo sono termini utilizzati da chi non sa come replicare alle critiche!» rilevai.

«Ma certo che so replicare!»

«Prego!».

Pottutto manipolò così violentemente la pallina che schizzò via di mano: «Come si permette? Mica sono io l’interrogato!» sbottò.

Proseguii: «Sulle elezioni torno a breve. Adesso mi interessa parlare dell’altra illusione su cui si fonda la democrazia: che il potere sia esercitato in nome del popolo. In realtà popolo è una parola retorica dal contenuto inconsistente. Chi è il popolo? Dove sta il popolo? Cosa fa il popolo? Il popolo è quello che acclamava Mussolini affacciato al balcone di Piazza Venezia o il corteo bersagliato da lacrimogeni e caricato in via Tolemaide? Il popolo è quello che accoglie gli immigrati o quello inneggia sui social all’inabissamento delle carrette? Il popolo è quello che tace e acconsente o che si ribella? Il popolo è quello manipolato dai media o la massa che dubita? Il popolo non esiste! È un concetto manipolatorio che uccide l’individuo, l’unico vero titolare di sovranità in quanto dotato di pensiero e azione.»

«Il popolo siamo noi!» cinguettò Pottutto roteando il dito.

«Noi?» chiesi.

«Noi, noi!» indicò anche me.

«Non si prenda troppe confidenze!» replicai con un sorriso. «Il termine popolo unisce i sempliciotti nell’identità del branco che obbedisce al maschio alfa. È una suggestione vecchia come il creato di cui il potere ha sempre fatto buon uso, qualunque fosse la forma di governo. Democrazia e tirannia rappresentano, infatti, la stessa autorità con la differenza che quest’ultima opera in maniera esplicita, senza bisogno di nascondere la violenza e inorgogliendosi del suo abuso, mentre la prima è più infida in quanto sfrutta l’illusione del benessere e la veemenza della manipolazione e del conformismo, riservando la prepotenza bruta alle sole situazioni emergenziali. Per avere un’idea di come subdolamente ottiene l’adesione, basta leggere le argute riflessioni di Etienne de La Boétie… 1»

«Devo leggere?» Il PM chiese terrorizzato.

Lo esonerai in cambio di una mentina.

«Dall’epoca in cui il giovanissimo Etienne scrisse la sua opera non è cambiato niente. Ancora oggi il Potere mantiene l’ordine e accresce i propri profitti avvalendosi dei ruffiani della voluttà, quella schiera di malvagi approfittatori che si nascondono nella legalità, benpensanti biasimevoli e vili disposti a danzare sulle ceneri dell’umanità pur di poggiare la testa su guanciali pieni di soldi…»

«Sa cosa mi fanno venire in mente le sue parole?» Pottutto si irradiò.

«Un gelato alla nocciola?… Non so, mi dica!»

«I caporali di Totò.»

Mi sentii avvampare dall’emozione: non lo facevo capace di citare il grande maestro.

NOTE

– 1 Non sono dunque gli squadroni di cavalieri, non sono le schiere di fanti, non sono le armi a difendere il tiranno. A prima vista non ci si crede, ma è davvero così: sono sempre quattro o cinque che mantengono il tiranno, quattro o cinque che gli tengono l’intero paese in servitù… perché si erano fatti avanti da sé, o perché era stato lui a chiamarli, per farne i complici delle sue crudeltà, i compagni dei suoi piaceri, i ruffiani delle sue voluttà, i soci nello spartirsi il frutto delle sue rapine… Quei sei hanno poi sotto di loro seicento approfittatori, e questi seicento fanno ai sei quel che i sei fanno al tiranno. Questi seicento ne tengono poi sotto seimila, a cui hanno fatto fare carriera, affidandogli il governo delle province, o l’amministrazione ella spesa pubblica, per avere mano libera, al momento opportuno, in avarizia e crudeltà, compiendo nefandezze tali da poter resistere soltanto nella loro ombra, riuscendo cioè solo grazie a costoro a sfuggire leggi e sentenzeGrande è poi la schiera che viene dopo, e chi volesse divertirsi a districare questa rete non ne vedrà seimila, bensì centomila, milioni, stare attaccati al tiranno con questa corda… si arriva insomma al punto che il numero di persone a cui la tirannia sembra vantaggiosa risulta uguale a quello di chi preferirebbe la libertà… Così, non appena un re si proclama tiranno, tutto il peggio, tutta la feccia del regno… gli si ammassa intorno e lo sostiene per avere la propria parte di bottino e per diventare così, sotto il grande tiranno, a loro volta dei piccoli tiranni. Da Etienne De La Boétie, Discorsi sulla servitù volontaria, 1576.

– 2 Totò dice che l’umanità si divide in due categorie di persone: gli uomini e i caporali. Gli uomini sono la maggioranza, i caporali la minoranza: Gli uomini sono quegli esseri costretti a lavorare tutta la vita come bestie, senza vedere mai un raggio di sole, senza la minima soddisfazione, sempre nell’ombra grigia di un’esistenza grama. I caporali sono appunto coloro che sfruttano, che tiranneggiano, che maltrattano, che umiliano. Questi esseri invasati dalla loro bramosia di guadagno li troviamo sempre a galla, sempre al posto di comando, spesso senza avere l’autorità, l’abilità o l’intelligenza, ma con la sola bravura delle loro facce toste, della loro prepotenza, pronti a vessare il pover’uomo qualunque”. Perché “caporali si nasce non si diventa! Da Siamo uomini o caporali, film, 1955.

 

 

 

 

3.4.2-STATO: CRITICA ALLA DELEGA ELETTORALE

«La democrazia non è la sola cosa che non ci piace dell’ordine costituito. Prima però di rimpinguare la lista, vorrei fossero chiari i motivi.»

«Li serbi per l’interrogatorio di garanzia!»

«Ma come?» esclamai. «Preferisce che sia un altro giudice a prendersi i meriti della confessione?». Mi rivolsi anche a Manganello: «Immagini la soddisfazione del suo nome scritto sul giornale!»

Si guardarono senza parlare.

«Va bene!» disse Pottutto. «Ma sia breve. E poi voglio dei nomi!»

«Quali nomi?»

Batté il pugno sul tavolo: «Tutti. A partire da quando andava all’asilo!».

Per accontentarlo, gli raccontai di come sabotavo il registro di classe. Poi ripresi a parlare: «Ho criticato il concetto di sovranità popolare e ho affermato che le elezioni sono una farsa perché rappresentano l’abdicazione alla sovranità individuale.»

«Brevemente!»

«Brevemente!» ripetei. «La prima obbiezione è che la delega politica si fonda sul presupposto che gli uomini non siano capaci di autodeterminarsi e quindi abbiano bisogno di chi lo fa per loro. Ma è una contraddizione perché, se non possono decidere per sé, evidentemente non possono neanche eleggere chi lo faccia al loro posto. Le torna?» Pausa. «Le dirò di più: nel diritto comune il mandato generico si applica solo ai minori e gli interdetti, quindi lo Stato ci considera come deficienti?».

«Lei è una volpe!» Pottutto mi adulò.

«Aggiungo che se la prassi e il Codice civile prevedono che il mandatario sia responsabile verso il mandante, perché la Costituzione sancisce che ogni membro del Parlamento esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato1

«Perché?» chiese Manganello a Pottutto.

«Perché?», Pottutto chiese a me.

«Perché così si parano il culo!» esclamai candidamente.

«Dopraho!»

«Mi perdoni, ma quando ci vuole, ci vuole!» Poi chiarii: «La verità è che il Potere considera il popolo è una bestia2, per cui non si fa pregiudizi a domesticarlo quando gli torna utile».

Afferrai il bicchiere di plastica. Era vuoto. Finsi di bere per non dare soddisfazione ai mei interlocutori.

«Altra favoletta è che in democrazia tutti possano partecipare all’attività politica. Niente di più falso!» dissi. «Intanto per candidarsi, fare campagna elettorale, svolgere attività serve denaro. Molto denaro. Talmente tanto che il parlamento straripa di ricchi affaristi che non hanno la minima idea di cosa sia la vita reale. Inoltre, per partecipare all’attività politica occorre avere conoscenza. Una conoscenza culturale, delle tradizioni, della collettività, delle relazioni, della pratica. Una conoscenza che manca alla massa di elettori costretta a vivere in una dimensione marginalizzata, dominata da dinamiche tecnologiche padroneggiate solo da pochi eletti. Ciò comporta che le stesse scelte politiche, economiche, sociali vengono affidate a uomini di scienza, con l’effetto di creare una dittatura di saggi onnipotenti che governano su cittadini incapaci di misurare la portata della posta in gioco3. Non siete d’accordo?»

«Su cosa?». Manganello sollevò mollemente il testone.

«Almeno faccia finta di ascoltarmi!» lo ripresi.

«Ma la sto ascoltando!»

«Allora si sforzi di capire!»

«Si sforzi un pochino, maresciallo. Non mi faccia fare queste figure!», lo rimproverò anche Pottutto.

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«Altro paradigma della democrazia rappresentativa è il principio della maggioranza con cui si stabilisce che la decisione prevalente è quella che raccoglie più consensi. Fondata sull’assunto rousseauiano che la sua decisione realizza sempre la volontà generale4, di cui però non dà dimostrazione, essa porta all’inevitabile schiavitù volontaria. Di fatto la maggioranza è il più subdolo mezzo per annientare le divergenze. Inconcepibile per chi, come noi anarchici, fa del pluralismo un principio unificatore».

«E quindi?»

«Quindi il dominio della maggioranza è una baggianata perché non tiene conto della minoranza5. Di fatto non è altro che l’ennesimo strumento con cui il Potere concede diritti per creare schiavitù».

«Vorrebbe decidere con la monetina?» disse sarcastico Pottutto.

«Avete presente l’esempio della scatola di fagioli?» chiesi.

«A quest’ora ci sta più uno snack al cioccolato!»

«Immaginate che il vostro commerciante preferito un giorno smetta di vendere la marca di fagioli che vi piace tanto perché, per risparmiare, decide di trattare esclusivamente quella che va per la maggiore. A quel punto o cambiate alimentari, oppure dovete adattarvi. In ogni caso subite la sua volontà6. Cosa spiega questo esempio?»

«Io so solo che i fagioli mi fanno scorr…!»

«Manganello!». Pottutto lo interruppe prima che finisse la volgarità.

«Dimostra che la maggioranza è sempre autoritaria in quanto chi è in minoranza deve obbedire alla sua volontà anche se ciò va contro i suoi interessi» rilevai. «Esiste unicamente un sistema che mette tutti d’accordo: la democrazia diretta, che consente la partecipazione personale alle decisioni, e che sia unanime, cioè condivisa.»

«Ma figurati!»

«Occorre cambiare la mentalità. Concepire la società non come un ostacolo ma come una sintesi delle singole individualità. Liberi accordi stabiliti tra gruppi liberamente costituiti per soddisfare l’infinita varietà di bisogni e di aspirazioni degli uomini civili, diceva Kropotkin7

«Embè, se lo diceva Kropotkin!»

 

NOTE

 

– 1 Art 67 della Costituzione Italiana.

– 2 D. Graeber, Dialoghi sull’anarchia, 2022.

– 3 Philippe Godard, Contro il lavoro, 2011.

– 4 J. J. Rouseau, Il contratto sociale, 1762.

– 5 Forse si dirà che questo consenso non è specifico ma generale e che è inteso che il cittadino abbia dato il suo assenso a ogni cosa che il suo rappresentante possa fare quando egli ha votato per lui. Ma supponiamo che egli non abbia votato per lui e, al contrario, abbia fatto tutto ciò che era in suo potere per eleggere qualcuno che sostiene idee opposte. Cosa diciamo allora? La risposta, probabilmente, sarebbe che, prendendo parte alle elezioni, egli ha tacitamente consentito ad attenersi alla decisione della maggioranza. E come la mettiamo con chi non ha votato affatto? Ebbene, in questo caso, non può giustamente lamentarsi, visto che non ha protestato contro la sua imposizione. In questo modo, abbastanza curiosamente, sembra che egli abbia dato il suo consenso in qualunque modo abbia agito: sia che abbia detto sì, sia che abbia detto no, sia che sia rimasto neutrale! Una dottrina piuttosto imbarazzante questa. Da Herbert Spencer, Il diritto di ignorare lo Stato, ivi.

– 6 Gian Piero de Bellis, Panarchia, D-Editore, 2017.

– 7 Estratto della definizione di Anarchismo di P. Kropotkin nell’edizione del 1910 dell’Encyclopedia Britannica.

 

 

 

 

3.4.3-STATO: DEMOCRAZIA DIRETTA CONSENSUALE

«Ho sottolineato che lo Stato è illegittimo in quanto espropria la sovranità individuale. Ho spiegato perché la democrazia rappresentativa e la regola della maggioranza sono panzane. Aggiungo che l’anarchia non è acrazia poiché una società spogliata da ogni forma gerarchica si sviluppa mediante la partecipazione condivisa al bene comune. Riprenderò l’argomento quando parlerò della comunità. Detto ciò, l’unico sistema che garantisca il faccia a faccia, l’orizzontalità e la condivisione è la democrazia diretta consensuale. Riunirsi insieme, partecipare, discutere, decidere ricorrendo a organismi decentralizzati come le assemblee, i consigli, i comuni, chiamateli come volete, in cui le determinazioni siano prese all’unanimità.»

«Ma se tutti decidete, chi decide?»

«Tutti, ovviamente!»

«Suvvia, non scherzi!»

«Nella democrazia diretta unanime tutti partecipano alla deliberazione, tutti votano e non c’è decisione finché l’accordo non è unanime.»

«Figuriamoci!»

«Solo così si può escludere che la maggioranza prevalga sulla minoranza o che si formino pericolose posizioni di dominio all’interno delle assemblee.»

«Cosa di fatto impossibile!»

«Invece è possibilissimo in un contesto in cui chiunque è consapevole che l’interesse personale si realizza quando si compie quello comune. Faccio un esempio: supponiamo che gli abitanti di un quartiere vogliano creare un bel giardino fiorito. Convocano l’assemblea a cui partecipano tutti gli interessati. In fase di discussione parlano gli esperti e i cittadini comuni. Ognuno dice la sua. Quando si vota tutti tranne uno sono d’accordo nel realizzare l’opera. Che fare? Tenga presente che se non viene raggiunta l’unanimità la decisione non passa. Tre le soluzioni: la prima è convincere l’oppositore che si tratti di una scelta estetica, salutare, spirituale che può solo migliorare la sua esistenza. In subordine la comunità può aiutarlo a trovare una dimora alternativa a quella in cui vive…»

«Lo sfrattate?» chiese Manganello sospettoso.

«Nessuno sfratta nessuno!»

«Allora gli espropriate la casa come fanno i comunisti?» intervenne Manganello.

«Non si espropria se non c’è niente da espropriare!»

Mi fissarono come Monna Lisa e non riuscii a fare a meno di sorridere: «Avete ragione!» esitai. «Mi sono dimenticato di informarvi che nella comunità anarchica non c’è proprietà!». E aggiunsi quasi imbarazzato: «E questo vale anche per la casa!»

Pottutto ebbe un mancamento.

Manganello rimase a bocca aperta.

Ebbi come la sensazione che anche la signorina Servile avesse vibrato.

La Sfinge, Sfinge era, Sfinge rimase.

«Poi c’è una terza soluzione» proseguii. «Poiché la comunità è flessibile, chi non è d’accordo può astenersi. La comunità ne prende atto e la risoluzione non sarà vincolante nei suoi confronti. Il suo dissenso non avrà ripercussioni morali o sociali e la sua complicità nell’attività comunitaria non subirà alterazioni» chiosai. «Questa è partecipazione!»

«Anche le elezioni sono una forma di partecipazione!»

«Secondo voi i governanti le avrebbero consentite se avessero potuto pregiudicare i loro interessi? La verità è che la delega non solo mantiene saldamente il potere nelle loro mani, ma disabitua l’individuo ad agire in prima persona, quindi ad autodeterminarsi. La partecipazione diretta, invece, è un confronto continuo, un faccia a faccia entusiasmante in cui ciascuno esprime il proprio interesse nel solco del bene comune2

«Si rende conto che sta vaneggiando?»

«Perché pensa che senza non sarebbero garantiti i servizi sanitari o l’istruzione o che nessuno riparerebbe le strade?»

«Per la verità pensavo a me. Che ne sarà dei dipendenti pubblici?»

«E delle forze dell’ordine?». Anche Manganello sembrò preoccupato.

«Non so come sarà la società anarchica e che fine faranno i numerosi vampiri attaccati alle istituzioni. Di sicuro non esisterà una soluzione unica e le scelte dipenderanno da un insieme di variabili spazio-temporali, sociali, ambientali che dovranno essere analizzate al momento opportuno. Posso dire però che se domattina ci svegliassimo con lo Stato che si è dissolto, la varietà di anarchismi offrirebbe una pluralità di opportunità. Per cui, state sicuri, una sistemazione verrebbe trovata anche a voi!»

«Meno male!». Pottutto e Manganello si alzarono per sancire l’accordo con una stretta di mano.

«Sarà divertente scoprire quale!» aggiunsi sarcastico mentre la sfilavo. «Detto questo» ripresi, «per conseguire un reale cambiamento è imprescindibile l’abbattimento dello Stato. Perché esso è il principale strumento, benché non l’unico, con cui il Potere esercita il suo dominio sull’individuo3

«Dottore, a questo punto Sevizia è imprescindibile!» Manganello bofonchiò a Pottutto.

«Non dica sciocchezze!», gli rispose. «Se non ha fatto un nome fino ad adesso, si figuri quando non sarà in grado di parlare!».

NOTE

 

– 1 Il popolo si illude ancora, malgrado secoli di esperienza, che tutto andrebbe meglio se al governo ci fossero altre persone o altri partiti. Invece no, andrebbe peggio, in quanto il popolo si disabitua ulteriormente a intervenire in prima persona e non sa neppure che forma dovrebbero assumere le istituzioni dell’autodeterminazione. Così Gustav Landauer, La comunità anarchica, ivi.

– 3 È il trionfo della bellezza, di una società di individui liberi di godere della bellezza dell’altro liberamente espressa in una società il cui obbiettivo è il mantenimento di quella condizione essenziale, diceva Piger in Gaston Piger, Signorina anarchia, ivi.

– 3 Bakunin diceva che Nessuno Stato, per quanto democratiche siano le sue forme, sarà mai in grado di dare al popolo quello che vuole… perché ogni Stato, sia pure il più repubblicano e il più democratico, anche lo Stato pseudo popolare creato dal signor Marx, non rappresenta in sostanza nient’altro che il governo della massa dall’alto in basso da parte di una minoranza intellettuale… per le classi proprietarie e di governo è quindi assolutamente impossibile soddisfare le rivendicazioni del popolo, per cui resta solo un mezzo, la violenza di Stato, in una parola, lo Stato perché lo Stato significa precisamente violenza. La dominazione mediante la violenza, quanto possibile mascherata, se assolutamente indispensabile sfrontata e pura. In Michael Bakunin, Stato e anarchia, Feltrinelli, 1873.

 

 

 

 

3.5 – L’AUTORITÀ DELLO STATO

Pottutto versò la Coca nella tazza pieghevole. Sorseggiò lentamente. Chiese se ne volevo e disse che l’avrei potuta bere se insieme avessi ingoiato una Mentos. Replicai che un po’ d’acqua sarebbe stata più che sufficiente.

Piegai il bicchiere e feci canestro nel cestino. Il PM lanciò il suo e colpì la signorina Servile sulla cofana cotonata.

Ricominciai a parlare: «Come ho detto, lo Stato è uno strumento di controllo sociale. Non più il solo vista l’imperante massificazione conformista, ma rimane il più pervasivo. Uniforma le condotte con il potere legislativo, diffonde il verbo con quello esecutivo, punisce i non allineati con quello giudiziario. Ma per fare tutto questo occorre che abbia autorità, cioè che al suo imperio corrisponda l’adesione della massa. In altri termini, che essa obbedisca spontaneamente.»

«Non vorrà parlarmi ancora delle elezioni?»

«Mi riferisco a come lo Stato viene percepito dalla collettività» dissi. «La teoria del contratto sociale legalizza il suo imperio, ma le favolette suggestionano se narrano storie semplici, non se usano il linguaggio asfittico del Diritto. I contigiani asserviti hanno così sfruttato un’immagine in cui tutti potessero identificarsi e che sollecitasse i sentimenti, le fragilità, l’emotività più ingenue e infantili. Ecco che lo Stato diventa il genitore premuroso, laborioso, diligente, onesto a cui i figli, cioè i cittadini, devono rispetto, devozione, obbedienza, soggezione1

«La famosa diligenza del buon padre di famiglia?» proruppe Manganello esaltato.

«Che c’entra? Quella è un’altra cosa!» Pottutto sprezzante.

«Lo Stato è il genitore giusto, onnisciente, indefettibile, onnipresente, divino, che educa, disciplina e ricompensa. Al quale dobbiamo gratitudine per la vita perché è l’unico che può toglierla, per il nutrimento perché potrebbe lasciarne ancora meno, per l’educazione perché sempre meglio indottrinati che analfabeti e per tutte le altre cose che implicano quella riverenza assoluta per cui niente fuori dallo Stato, al di sopra dello Stato, contro lo Stato. Tutto allo Stato, per lo Stato, entro lo Stato come diceva, guardate un po’, Mussolini.»

Pottutto si asciugò gli occhi: «Mi ha fatto pensare alla buon’anima di mio padre… A lei?» chiese a Manganello.

Il maresciallo sospirò con un’espressione da Maddalena del Tiziano2: «Il mio se n’è andato quando ero piccolo!»

«Mi dispiace» dissi sincero.

«Che ha capito?». Gli si arrossarono le guanciotte. «Non è morto. È fuggito con un trans brasiliano!».

Si arrossarono anche le mie e proseguii: «Ma anche al genitore più virtuoso può capitare un figlio disadattato. E così, nonostante l’impegno delle istituzioni, della cultura, della propaganda nel plasmare bravi cittadini per cui lo Stato è giusto e necessario e la libertà è libertà di obbedire, qualche ribelle qua e là rimane. È un fastidio che l’Autorità non può permettersi, e di fronte al quale mette in campo tutto il monopolio della forza.»

«Finché c’è forza c’è speranza, dice il detto!» ancora il maresciallo.

Sorrisi come si fa ai dementi e continuai: «Se i ribelli sono pochi, lo Stato li tollera per contrapporre il male che essi rappresentano al bene di cui si proclama artefice. Quando però crescono di numero e minano la sua stabilità comincia la repressione. Senza vergogna usa tutti i mezzi possibili per dissuaderli prima, irreggimentarli poi, eliminarli se necessario. Lo Stato non è altro che un rapporto gerarchico basato su una violenza resa legittima3, diceva Max Weber. Esso impera e via la mattanza! Una violenza manifestata con leggi arbitrarie e liberticide, enfatizzata dalla brutale ferocia dei suoi mastini, conclusa, nel migliore dei casi, con la segregazione in carcere. Violenza arrogante, sadica, legalizzata e perpetrata d’intesa con la massa di vigilanti che disprezza chiunque osi affrancarsi dall’uniformità in cui si nullifica».

«Arrivi al dunque, Dopraho!»

«Non c’è un dunque, perché la prepotenza dello Stato è senza fine». Esitai. «Almeno finché le persone non reagiranno».

Sospirai.

Sospirarono anche Pottutto e Manganello e non sembrava per solidarietà.

«Il che probabilmente non avverrà mai. L’uomo possiede infatti la non invidiabile predisposizione a tollerare, se non sopportare ogni forma di ingiustizia pur di andare a dormire tranquillo. Eppure basterebbe un po’ di sano raziocinio per capire che quel padre è malvagio, violento, sfruttatore, perverso, e di amor proprio per fuggire dalle sue grinfie e ricominciare daccapo».

Pottutto accese la sigaretta. Ne offrì una al maresciallo e insieme soffiarono verso di me.

Mi fecero tenerezza. Erano proprio due bambinoni!

NOTE

– 1 Vi è naturalmente nel sentimento verso lo Stato un vasto elemento di puro misticismo filiale. Il senso di insicurezza, il desiderio di protezione, rimandano al proprio desiderio del padre e della madre con cui sono associati i primissimi sentimenti di protezione. Non è per nulla che il proprio Stato è sempre pensato come un padre o come la Madre Patria, che la propria relazione verso di esso è concepita in termini di affetto familiare. Trattasi di un atteggiamento infantile e primitivo che rende il popolo un gruppo di bambini obbedienti, rispettosi, affidabili, pieni di quella fede ingenua nell’onniscienza e nell’onnipotenza dell’adulto che si prende cura di loro, che impone il suo dolce ma necessario comando su di loro e con il quale essi perdono la loro responsabilità e le loro angosce. Così Randolph Bourne, in La guerra è la salute dello Stato, citato in La società senza Stato a cura di Nicola Ianniello.

– 2 Tiziano Vecellio, Maddalena penitente, 1533.

– 3 Citato in Hermann Amborn, Il diritto anarchico dei popoli senza stato, ivi.

 

 

 

 

3.6-STATO: LA LEGGE

«Qual è lo strumento attraverso cui lo Stato impone la sua volontà?»

«Lo chiede a noi?» domandò Manganello.

«Ma la legge, naturalmente!» dissi. «E cos’è la legge?»

«La norma!» rispose deciso Pottutto.

«Sono sinonimi!»

«La legge è legge!» gorgogliò Manganello.

«In due parole: la legge è un atto deliberato da un’autorità, elettiva o meno, che disciplina il comportamento degli uomini». Pausa. «Già così è più che sufficiente perché nessuno si debba sentire obbligato a rispettarla!».

Pottutto si contrasse come se gli fosse entrato un tafano nell’occhio.

«Esistono diversi tipi di legge: c’è la legge divina, rispettando la quale si va in Paradiso, la legge morale la cui osservanza consente la conservazione e accettazione sociale, la legge della natura preesistente al diritto positivo e che disciplina le cose del mondo, la legge quale prerogativa di re e potenti, come diceva George Sorel1, di cui stiamo parlando e… e poi c’è Dredd, la legge sono io!2» chiosai per sdrammatizzare. «Un tempo le leggi erano stabilite dal monarca, dal potestà, dal signore, figure autoritarie che imponevano insindacabilmente la loro volontà. Nella società mercantile fondata sull’ipocrisia, il dominio non può essere sbattuto in faccia ai sudditi, per cui ci pensa il governo legittimato dalla farsa delle elezioni.»

«Vorrà dire il Parlamento!» mi corresse Pottutto.

«Perché il Parlamento fa ancora le leggi?»

«Così dice la Costituzione!»

«Dice. Non poteva certo immaginare che si verificasse un’emergenza la settimana!» ironizzai. «Imponendo un determinato comportamento pena la sanzione, la legge spoglia l’individuo della sua identità. Gli impedisce di decidere che tipo di persona essere e a quale mondo appartenere. Realizza quindi un’usurpazione di sovranità».

Poiché mi fissavano vuoti, cambiai tono: «Ma supponiamo che una persona si rassegni a obbedire a una volontà eteronoma per il quieto vivere e per non perdere la miseria che possiede. Se ha un minimo di dignità, quantomeno pretenderà che l’ordine derivi da un’autorità fornita di doti morali, umane, professionali, eccetera. Non dico che i politici dovrebbero essere come i guardiani descritti da Platone ne La Repubblica, ma nemmeno che primeggino per la loro avidità, ignoranza, arroganza, ambiguità, volgarità, turpitudine, immoralità… potrei proseguire all’infinito con altri gioiosi attributi! E invece, anche gli uomini migliori e più intelligenti, privi di egoismo, generosi e puri, una volta seduti in quei dannati scanni, sempre e inevitabilmente saranno corrotti dall’esercizio del potere

«Citazione?» domandò Pottutto.

«Bakunin. Ogni tanto ci vuole per colorare il concetto!» mi burlai. E aggiunsi: «Di fatto i politici sono materiale di rifiuto emesso dagli esseri viventi…»

«In che senso?»

«Sono merda!»

«Dopraho!». Pottutto schizzò ancora sulla sedia.

«Preferisce l’espressione: deiezione del genere umano?». Corressi il tiro. «Il loro obiettivo esclusivo è conquistare e mantenere il potere. E per impadronirsene e godere dei suoi privilegi sono capaci delle più infime aberrazioni. Quindi io dovrei obbedire a questi malfattori? Certo che no. Non si può obbedire a chi si disprezza! La penso come Thoreau quando asseriva che mi costa meno, in ogni senso, incorrere nella pena prevista per la disobbedienza allo Stato di quanto mi costerebbe l’obbedienza3. Il rispetto viene dal merito, e loro non meritano il mio rispetto!»

«Ma la legge è la volontà dello Stato: è a lui che obbedisce!»

«Certo, certo… Oggi è lo Stato, ieri il monarca, l’altro ieri Dio e domani magari ci imporranno di venerare una ciabatta!» replicai caustico. «Detto che le sue regole possono valere, al massimo, per gli incurabili dementi, come Octave Mirbeau chiamava gli elettori, che collaborano al perpetuarsi della tirannia, in attesa della sua dissoluzione, di fronte alla legge due sono le condotte: o osservare le norme utili ai propri scopi e negare le altre…»

«Così è troppo comodo!» mi interruppe il magistrato.

«Non ho capito: lui può sfruttare me e io non posso sfruttare lui?» rilevai. «Oppure rispettarle solo quando sono giuste per non diventare complici dell’ingiustizia.»

«E stabilisce lei se sono giuste o meno?». Il PM replicò con sarcasmo.

«Ottima osservazione!» dissi. «Infatti le nego tutte. Indistintamente. Vivo come se non esistessero! Perché è giusto o non è giusto ciò che è o non è naturale. E non c’è niente di naturale quando si è obbligati a osservare un ordine che non si è contribuito a creare!».

«L’uomo onesto rispetta sempre la legge!».

Manganello applaudì: «Bravo, non avrei potuto dirlo meglio!»

«Quindi se sono leale con gli altri, corretto, sincero, solidale, riconosco i loro diritti naturali non perché obbedisco a essa ma perché mi comporto da uomo, sono un disonesto?»

«Ahia!». Pottutto si morse un labbro.

«E poi chi stabilisce che io sia onesto se rispetto la legge?»

«Ma la legge, naturalmente!»

«La legge?»

«Anzi no, lo Stato!»

«Lo Stato?» lo incalzai. «Si rende conto di quello che sta dicendo? Si deve obbedire alla legge perché si deve. Ci avete presi per dei ritardati?»

«Si calmi Dopraho, così le viene un infarto!»

«E come posso calmarmi?»

«Ci penso io!». Pottutto ravanò nella tasca della giacca e tirò fuori una boccettina di valeriana.

«No grazie. Preferirei una canna!» lo traumatizzai. Però ripresi a parlare con tono più pacato: «Stato e legge non sono una necessità. Quando gli individui si associano per realizzare scopi condivisi in cui il bene personale si fonde con quello collettivo perché svincolato dal profitto, raggiungono spontaneamente l’armonia attraverso la sintesi delle singole volontà, non serve altro! Senza dominio gli uomini si uniscono, si organizzano, si associano, si rimboccano le maniche per affrontare e risolvere le incognite e le difficoltà quotidiane attraverso una sinergia faccia a faccia, non competitiva, egualitaria, autonoma e responsabile. Come sempre accade quando lo Stato è assente. Pensate ai giorni che seguono una calamità naturale o una tragedia, oppure a quanto avvenne dopo l’Armistizio dell’8 settembre del 1943?»

«Nel 1943 mica ero nato!»

«Ha detto pensate!». Pottutto redarguì il maresciallo.

«Non c’era governo e non c’erano istituzioni eppure le persone tiravano avanti, i servizi funzionavano, le relazioni si solidificavano e tutti si aiutavano per garantirsi il cibo, i vestiti, le necessità primarie. Laddove non c’è accumulazione, l’obiettivo è sempre godere della vita in una società di liberi fra uguali!»

«E questa non è utopia?»

«Questo è essere padroni di se stessi. Ma mi ascolta o sta qui solo perché le hanno detto di starci?»

 

NOTE

 

– 1  citato in Hermann Amborn, Il diritto anarchico dei popoli senza stato, ivi.

– 2  Dredd, La legge sono io, film del 1995.

– 3  H. D. Thoreau, Disobbedienza Civile, 1849.

 

 

 

 

3.7–LO STATO: LA POLIZIA

«Se il governo impone la volontà del Potere attraverso la legge, le forze dell’ordine e i magistrati ne garantiscono l’attuazione. Sui magistrati non ho molto da dire». Guardai Pottutto. «Sono burocrati e ho grande fiducia nella burocrazia, forse l’ultima speranza perché lo Stato imploda!». Poi guardai Manganello: «Il compito della polizia, invece, è di proteggere il sistema mantenendo l’ordine e la disciplina grazie alla capacità persuasiva dei lustrini e dei manganelli. Potrei dire che sono bravi tutti a farlo con la violenza, ma… Sto parlando di voi!» richiamai l’attenzione del maresciallo.

«Mi dia pure del lei!» replicò uno sguardo sfatto.

Con un’occhiata il pubblico ministero mi invitò a ignorarlo.

«A proposito delle forze dell’ordine… conoscete la Canzone di Maggio?»

«Chi è questo Maggio?». Manganello con tono inquisitorio.

«La canzone è di Fabrizio De André e s’intitola Canzone di Maggio.»

«Mica la canterà?»

«La leggiamo insieme». Indicai al PM la pila di fogli. Può trovarla nell’articolo…». Indicai col dito.

Gli diede una scorsa annoiata: «Sembra una poesia!»

«Come tutte le sue opere!»

Lessi:

 

Anche se il nostro maggio

Ha fatto a meno del vostro coraggio

Se la paura di guardare

Vi ha fatto chinare il mento

Se il fuoco ha risparmiato

Le vostre Millecento

Anche se voi vi credete assolti

Siete lo stesso coinvolti

 

E se vi siete detti

Non sta succedendo niente

Le fabbriche riapriranno

Arresteranno qualche studente

Convinti che fosse un gioco

A cui avremmo giocato poco

Provate pure a credervi assolti

Siete lo stesso coinvolti

 

Anche se avete chiuso

Le vostre porte sul nostro muso

La notte che le pantere

Ci mordevano il sedere

Lasciandoci in buonafede

Massacrare sui marciapiedi

Anche se ora ve ne fregate

Voi quella notte, voi c’eravate

 

E se nei vostri quartieri

Tutto è rimasto come ieri

Senza le barricate

Senza feriti, senza granate

Se avete preso per buone

Le verità della televisione

Anche se allora vi siete assolti

Siete lo stesso coinvolti

 

E se credete ora

Che tutto sia come prima

Perché avete votato ancora

La sicurezza, la disciplina

Convinti di allontanare

La paura di cambiare

Verremo ancora alle vostre porte

E grideremo ancora più forte

Per quanto voi vi crediate assolti

Siete per sempre coinvolti

Per quanto voi vi crediate assolti

Siete per sempre coinvolti. 1»

 

Appoggiai il foglio alla pila. «Beh, che ve ne pare?» chiesi.

«Un po’ lunghetta!» gorgogliò Manganello.

«Bella la rima maggio-coraggio all’inizio!» disse contrito Pottutto.

«Vi è piaciuta o no?»

«Anche Le Mille Bolle Blu di Mina, però, se non è cantata sembra una str…!2» il PM non concluse.

«La Canzone di Maggio esprime un sentimento di rabbia mista a malinconia verso tutti coloro che chinano il mento consentendo al Potere di consolidarsi. Al tempo stesso Faber non rinuncia alla speranza: voi non potete fermare il vento, dice. La sua poetica è una continua dialettica fra consapevolezza amara e slanci fiduciosi…»

«Sì, ma che c’azzecca con quello che stavamo dicendo?»

«Le canzoni di De André rappresentano la colonna sonora delle speranze represse dalla violenza dell’Autorità. Violenza con cui aggredisce i manifestanti, violenza con cui tace i ribelli, violenza con cui protegge i più forti.» E ancora rivolto a Manganello: «Non ve ne faccio una colpa. Ce l’avete nel sangue di temere la libertà degli altri. La reprimete perché ogni pensiero che essa conquista, ogni spazio in cui si diffonde, ogni cambiamento che essa agogna, è una sottrazione della vostra autorevolezza» dissi. «Ricordo d’aver letto da qualche parte, mi sembra nel libro Educazione Siberiana di Lilin3, un concetto che condivido. E cioè che vi distinguete dal resto delle persone perché siete gli unici a vivere orgogliosamente come servitori. Simultaneamente, però, questo vi impedisce di capire cosa sia la libertà e odiate chi la professa. Ciò vi crea ansia, frustrazione, stordimento, gelosia…»

«Ora vado a chiamare l’agente Sevizia, gliela faccio venire io l’ansia!» Manganello si alzò di scatto. «Non mi faccio prendere in giro da un anarchico!»

«Mi perdoni maresciallo, ma queste cose le ho dette da cittadino!» precisai.

«E noi pubblici ministeri, invece, come siamo?» Pottutto protese il collo.

«Voi pubblici ministeri?»

«Noi pubblici ministeri, sì!»

«Uguali» dissi. «Senza divisa, però!»

«Vada a chiamare il suo collega!» ordinò il PM a Manganello.

 

NOTE

 

– 1 Fabrizio De André, Canzone del maggio, 1973.

– 2 Mina, Le mille bolle blu, 1961.

– 3 Nicolai Lilin, Educazione siberiana, Einaudi, 2013.

 

 

 

3.8- STATO: LA PENA

«Ricapitolando: lo Stato esercita il suo potere con la legge, la polizia mantiene l’ordine. Dopo l’arresto però si pone il problema di cosa fare…»

«C’è la pena!»

«Appunto. Questo è il problema!». Spiegai: «La pena, e con essa non intendo solo la sanzione ma anche la misura cautelare che spesso ingiustamente e arbitrariamente la anticipa, e più in generale tutto il sistema giudiziario, non è altro che uno strumento di controllo e riequilibrio sociale attraverso il quale il Potere toglie di mezzo chiunque possa minarne la conservazione». Aggiunsi: «La pena è schiavitù legalizzata, fondata sulla inaccettabile laicizzazione del rapporto peccatore-sanzione. Processi ed esecuzione rappresentano il momento in cui si realizza nella maniera più sfacciata e arrogante la supremazia sull’uomo, defraudandolo del corpo e della mente. L’anarchia afferma invece che nessuno debba essere investito del potere di vita o di morte, poiché chiunque abbia un’autorità nelle proprie mani tiranneggia gli altri1. E, peraltro, siccome quell’investitura viene imposta, processi, pene, e sentenze sono sempre ingiusti».

«Ma le sentenze vanno sempre rispettate!» irruppe il PM.

«Sempre!» lo sostenne Manganello.

«E le verdure d’una volta avevano tutto un altro sapore!» replicai con un’altra frase fatta. «Come nessuno ha delegato i politici a decidere per noi, nessuno ha autorizzato i magistrati a giudicare. Entrambi sono strumenti di quella finzione chiamata Stato. Immorale non è violare la legge e fuggire la pena, ma accettare passivamente che lo Stato denigri, mortifichi, annienti l’individuo. Collaborare col male è peggio del male stesso!»

«Ma sì, facciamoci giustizia da soli!» si burlò il pubblico ministero.

«Non ho detto questo!»

«Ma l’ha pensato!»

«Neanche un po’!» dissi con una smorfia di disapprovazione. «La pena non è che una forma di vendetta e lo Stato è il vendicatore legittimato dall’ordinamento. Il sistema punitivo, infatti, fa acqua da tutte le parti. Lasciando perdere le ovvie considerazioni sulle infami condizioni di vita a cui sono sottoposti i detenuti, che solo chi è in malafede o particolarmente crudele può ignorare, la pena non realizza nessuna delle funzioni per le quali viene applicata. A partire dalla funzione retributiva, chirale al principio della vendetta. Affermando che il libero arbitrio consente di scegliere fra il bene e il male, chi sceglie il male deve essere punito. Niente di nuovo: le religioni parlano così da sempre…»

«Chi sbaglia paga!» disse tronfio Pottutto.

«Paga chi? Se le rubo il portafoglio, la questione è fra me e lei. Se uccido una persona, la questione è fra me e i suoi parenti. Ogni vicenda umana ha implicazioni circoscritte agli interessi coinvolti.»

«Non sia grottesco. Sa che lo Stato è garanzia di imparzialità!»

«Tutt’altro. L’interesse della collettività è sempre e soltanto l’armonia sociale, che si ottiene unicamente attraverso la riconciliazione. Lo Stato, invece, essendo una suggestione che ha bisogno di consenso per alimentarsi segue l’umore sociale plagiato dal sistema e le proprie necessità conservative. C’è molta più civiltà nelle assemblee pubbliche inter-clan adottate dalle società policefale che nei nostri tribunali!2».

«Altra funzione della pena è la così detta prevenzione. Si dice che l’obiettivo sia evitare che il reo compia nuovi reati, prevenzione speciale, ma anche che agli altri non venga lo sghiribizzo di imitarlo, prevenzione generale. In altri termini, si minaccia una sanzione quale conseguenza di una determinata condotta affinché nessuno la compia. Interessante questa analogia fra l’animale e l’individuo, non vi pare? E comunque se il principio fosse corretto, dato che viviamo in un epoca di iperproduzione normativa che disciplina ogni aspetto della vita umana, non ci dovrebbero essere reati. Invece la criminalità delle società civili aumenta esponenzialmente in quanto la deterrenza inibisce il vigliacco, non l’affamato, né tantomeno il disturbato. La funzione preventiva è quindi fumo sparato negli occhi. I delitti, compresi quelli per bisogno e patologici, si prevengono eliminando il dominio, la proprietà, il profitto, l’accumulazione, garantendo il minimo necessario concordato e soprattutto consentendo a ognuno di decidere responsabilmente. In una società i cui membri hanno scelto di essere liberi ed eguali non c’è interesse a delinquere!»

«Nel mondo dei sogni potrei anche essere Brad Pitt!» disse Manganello.

Pottutto e io lo guardammo e contemporaneamente ci scappò una risata.

«La terza funzione è quella rieducativa, cioè la pena e le misure alternative devono educare il delinquente a reinserirsi nella società una volta scontata la sanzione.»

«Almeno su questo spero non abbia niente da ridire!»

«Assolutamente!» convenni. «Il principio è sacrosanto… Pure molto realistico!» ironizzai. «Le carceri sono posti noti per la loro accoglienza, la sensibilità dei loro operatori, le possibilità che offrono». Cambiai tono: «Le prigioni sono niente più e niente meno che lager in cui le persone vengono mandate a morire. E poiché ai carcerati non è concesso il rispetto dovuto a un essere umano, dice Kropotkin, in quei luoghi subiscono umiliazioni, violenze, torture, abusi, degradazione, giorno dopo giorno un processo di disumanizzazione al cui confronto la vendetta dei selvaggi è un gioco aggiunge Emma Goldman. Le prigioni sono monumenti alla ipocrisia e alla viltà degli uomini, per questo devono essere abolite! Lo Stato ci chiama cittadini ma ci tratta da sudditi. E lo fa avvalendosi delle Costituzioni e dei codici con cui si autolegittima. Ẻ una finzione. Un manipolo di ricchi tira una linea su una cartina geografica, si dà un governo e impone a tutti le sue decisioni».

«La sola cosa che canta è questa!» Pottutto sventolò il capo di imputazione.

«Dice?»

«Dico. Dico!»

«Ma se le leggi son, dando quindi per assunto che siano inevitabili, il problema non sono loro bensì chi pon mano ad esse, afferma il poeta4. La legge è giusta se emanata da un’autorità legittima. Nel caso in cui non lo sia, cioè se proviene da un’autorità usurpatrice, è doveroso trasgredirla. In una tirannia il capo, il re, il dux, chiunque sia, si auto-conferisce tale potere. L’illegittimità è così palese che molti dittatori la nascondono dietro l’intercessione divina, la giustizia assoluta, il bene universale o altre follie. La democrazia invece è un raggiro a cui ci hanno educati a non avere alternative. Come ogni regime che sottrae agli individui il potere di autoderminarsi, nessuno l’ha scelta o confermata. Si è appropriata dell’autorità di governare, di giudicare, di obbligare come avrebbe fatto un qualsiasi usurpatore. La sua autorità è pertanto illegittima. E se è illegittima, anche le sue disposizioni lo sono e quindi…»

«A quanto pare però alla gente va bene così!»

«Alla gente va bene qualsiasi cosa pur di non pensare!» replicai risoluto. «Ma la gente non è tutti. Può essere maggioranza, ma rimane sempre la minoranza che non si fa irretire dall’inganno, né si sgomenta per le conseguenze della trasgressione».

«La metta come vuole. Chi non rispetta la legge è un delinquente!»

Non caddi nella provocazione: «Nel momento in cui si rinuncia al profitto, le relazioni sono spontaneamente armoniche e di quello non c’è bisogno!» Indicai il codice. «In una società senza dominio, senza proprietà, senza teorie della disperazione5, dove l’interesse personale si realizza attraverso la condivisione e la reciprocità, punizione, prevenzione, rieducazione non hanno senso». Con un’occhiata lo sollecitai ad aprirlo. «Lasciamo perdere il primo libro dei reati in generale. Concetti come la consumazione, le circostanze, l’imputabilità e altri sono principi di valenza universale che adesso non abbiamo tempo di esaminare».

Il PM scorse le pagine.

«Per cominciare eliminiamo le sanzioni civili e le misure di sicurezza. La definizione di pericolosità sociale è affare da manipolatori mentali e noi non conformiamo l’individuo all’interesse dominante… E così vanno via già una sessantina di articoli!»

Attesi che il PM passasse al “Libro II” del codice penale.

«In una società anarchica sarebbe altresì un controsenso parlare di delitti contro la personalità dello Stato, contro la pubblica amministrazione, contro l’amministrazione della giustizia… Figuriamoci il contro il sentimento religioso e l’ordine pubblico. Le pare?… Via altri duecentrenta articoli!»

«Sui delitti contro la fede pubblica non vorrà…?»

«Se ne potrebbe lasciare un paio sul falso materiale e sul falso ideologico. Si tratta di eventi alquanto improbabili in un contesto che rifiuta il profitto, ma non voglio sembrare radicale!»

«Mi sembra giusto!»

«Quindi via altri quarantacinque articoli!» precisai. «Sui delitti contro l’economia pubblica l’industria e il commercio… mi faccia un po’ vedere?»

Il PM girò il codice in maniera che potessi leggere.

«Distruzione di materie prime, diffusione di una malattia delle piante, rialzo e ribasso dei prezzi, manovre speculative su merci, serrata e sciopero per fini contrattuali e non…», continuai a sfogliare: «E ancora serrata, boicottaggio… Via tutti perché non abbiamo economia! E sono altri trenta articoli circa».

«Sui delitti contro la moralità pubblica e il buon costume…?» mi interruppe il maresciallo.

«In un mondo di puttane, figurati se non posso andare a puttane!» esclamai divertito. «Quanto ai delitti contro la sanità di stirpe… beh, almeno hanno avuto il buon gusto di abolirli da soli!»

«Dei delitti contro la famiglia?»

«Via!»

«Delitti contro la persona?»

«Lasciamoli, dai. Non posso abrogare il codice intero!» Ci ripensai: «Quanti articoli sono?»

«Una quarantina!»

«Magari li sintetizziamo per garantire il diritto alla vita, all’incolumità e alla dignità personale!»

«Rimangono i delitti contro il patrimonio e le contravvenzioni».

«Proteggere la proprietà in una società senza proprietà non mi pare una cosa sensata. Quanto ai secondi, credo che anche il buon Rocco non ci credesse granché visto che li ha relegati in fondo al codice come banali contravvenzioni. Via!»

«Ma così non ci rimane nulla!»

«E non abbiamo sotto mano il codice di procedura penale!»

«Perché anche quello…?»

Mi lasciai andare a un’espressione meditabonda.

«Che c’è?»

«Stavo pensando…»

«Dica!»

«Pensavo… Visto che ormai il codice penale non esiste più, non è che… Sì, insomma, mi chiedevo se non sarebbe più opportuno che io… Posso andare?»

Era giusto almeno provarci.

++++

«Gli anarchici più volte si sono interrogati su come sarebbe la pena nell’ipotetica società senza Stato e hanno offerto una molteplicità di soluzioni che, a mio giudizio, lasciano il tempo che trovano. D’altronde se a uno scienziato chiedete come sarà il mondo fra cinquanta o cento anni gira i tacchi e se ne va dandovi dei babbei perché troppe sono le incognite che impediscono di fornire proposte certe sulla società futura. L’avvenire è la sola trascendenza degli uomini senza Dio, diceva acutamente Camus e infatti…»

«Kamut come la farina?» chiese Manganello.

Lasciai perdere: «Ribadito che in una società senza profitto nessuno ha interesse a delinquere, si può fare a meno della sanzione creando una mentalità comune che induca il trasgressore a riconoscere volontariamente la sua trasgressione e infliggersi la punizione…6».

Qualche secondo di silenzio perché assimilassero quella che sembrava più una provocazione.

«Ammetto che estrapolata dal contesto appaia una soluzione surreale. Però è più concreta di quanto si creda. Trova, infatti, riscontro in numerose comunità orizzontali il cui obiettivo non è sanzionare il reo ma reinserirlo nella comunità. Riconciliarlo con essa e con le parti danneggiate attraverso il riconoscimento della propria colpa e la richiesta di perdono. Un perdono condiviso che ne favorisce la riabilitazione.»

«Una roba tipo i pentiti?» domandò Pottutto.

«Ma qui il pentimento è sincero!» specificai. «A parte questo originale punto di vista, nel mondo anarchico prevale il concetto di sanzione diffusa7… Maresciallo, non c’è bisogno che scriva. Lo trova citato nei miei appunti!»

«Sto disegnando!». Mostrò uno spaventapasseri stilizzato.

«Anche Malatesta invocava il sentimento comune come espediente per risolvere il problema della criminalità lasciando ai cittadini la facoltà di decidere come comportarsi con il reo…»

«Sta dicendo che siete favorevoli ai processi e alle esecuzioni di piazza?»

«Certo che no!». E risentito: «Sono io che non mi spiego o è lei che non capisce le mie parole?»

«Sono un pubblico ministero, non un esegeta. Se volevo fare l’esegeta mi laureavo in… dove ci si laurea per fare l’esegeta?» chiese a Manganello.

Il maresciallo arricciò la ciccia del collo, poi sicuro: «Credo in medicina… Mio fratello è andato al pronto soccorso per l’esofagite!».

Proseguii: «Personalmente rifiuto ogni forma di ingerenza nella sfera individuale. Ha ragione Orwell quando afferma che l’opinione pubblica è meno tollerante di qualsiasi sistema di leggi e l’individuo è sotto una continua pressione omologante. Al tempo stesso però sono convinto che la soluzione al problema della pena si trovi nella società. E qui mi riaggancio a Malatesta che esalta le pratiche che partono dal basso e si sviluppano pluralisticamente, in maniera non gerarchica e non conformista. Se le persone si uniscono in associazioni con comunanza di aspirazioni che ciascuno ha contribuito a costituire e formare, è improbabile che qualcuno possa violare le regole condivise. E anche si verificasse tale ipotesi la soluzione dovrebbe essere scritta in quelle stesse regole che ha partecipato a formare, nelle quali sono definiti i principi e le procedure.»

«Continuo a non capire!». Pottutto tolse e rimise gli occhiali nervosamente. «È stato finora a lamentarsi delle regole, perché adesso…?»

«Gli anarchici sono contrari alle regole imposte, non a quelle che ciascuno concorre a creare». Sospirai. «Che poi, se ci pensate bene, è come affermare che la soluzione della pena sta nel riconoscimento volontario della trasgressione e nell’inflizione volontaria della punizione. Non vi pare?»

++++

«Nella logica del dominio chi detiene il potere considera il valore del suo interlocutore in maniera decrescente rispetto al grado di potere posseduto. Di conseguenza lo Stato, che si assurge a dominatore supremo, tratta l’individuo come un fastidio. Nella malaugurata ipotesi in cui poi quest’ultimo violi la sua volontà lo sopprime lentamente perché, oltre tutto, è pure sadico!»

«Non mi piace questo tono!» disse Pottutto.

«Vuole che abbassi la voce?» lo sferzai. «Di fronte a una condotta antisociale, lo Stato non ha dubbi: l’autore deve essere cancellato sia fisicamente confinandolo in prigione, sia mentalmente attraverso la violenza, la sopraffazione, il ricatto, l’umiliazione, la spoliazione della dignità. Lacerazioni che inevitabilmente, una volta fuori, riverserà sulla società legittimando gli abusi subiti in un circolo vizioso da cui guadagnano tutti tranne il reo. La verità è che gli individui sono una sua proprietà e come tale li tratta. È proprietario della vita, di cui ne dispone a piacimento; è proprietario della mente, indottrinandoli all’obbedienza attraverso la scuola, la morale, la manipolazione propagandistica delle molteplici istituzioni; è proprietario degli spazi e dei movimenti, definendo i confini dei primi e favorendo il controllo dei secondi grazie a sistemi sempre più sofisticati; è proprietario dei nostri beni per l’uso dei quali chiede il tributo8… Insomma, si impone come padrone assoluto. Per questo assurge al ruolo di punitore consacrato che ordina supplizi come un dio vendicatore.»

«Dimenticavo che voi punite la vittima e premiate il delinquente!» intervenne Pottutto sarcastico.

«Carina!». Gli detti soddisfazione. «Assenza di proprietà, autogestione, reciprocità, redistribuzione, solidarietà, circolarità, pluralità, questo è ciò che siamo. L’anarchia non punisce, pacifica; non disciplina, armonizza. Così il diritto civile è lasciato ai liberi accordi fra le parti e quello penale corrisponde alla protezione dei diritti naturali che tutti identificano, conoscono e osservano spontaneamente. Ogni individuo è giurista e non potrebbe essere altrimenti dal momento in cui partecipa alla definizione delle regole. Le discute, le approva, le applica. Una volta definite, la pratica quotidiana ne garantisce l’osservanza. Spontaneamente!».

«Ho capito!» squittì Manganello. «Ha detto che sono tutti amici e si controllano a vicenda. Però non ho capito perché controllarsi a vicenda se poi ognuno fa come gli pare…?». Sollevò lo sguardo sul soffitto per riflettere: «Ci sono!» esclamò. «Solo con noi fate come vi pare!»

«E perché, secondo lei?» chiesi.

«Perché avete passato un’infanzia difficile?».

++++

«Concludo facendo un esempio ipotetico e banale…»

«Perché banale?» mi interruppe Pottutto.

«Perché lo possiate capire!» dissi. «Esempio di come l’anarchia si rapporta nei confronti di chi, diciamo così, compie una condotta antisociale» dissi. «Prendiamo un ladro di polli qualsiasi. Nella società del dominio viene catturato e punito con sanzioni che variano in base al tempo e al luogo. Anche nella società anarchica non mancano i ladri di polli. Intanto però, poiché esistono anche comunità che riconoscono la proprietà dei beni necessari, bisogna capire se i polli sono nella disponibilità privata o della collettività. Nel primo caso si tratta, appunto, di un fatto privato e viene risolto come qualunque altro conflitto fra individui: le parti si accordano fra loro, oppure ricorrono a un arbitrato composto da membri da loro designati. Fossero invece della collettività, o quando la proprietà non è riconosciuta, procede direttamente l’assemblea. Per prima cosa si approfondisce il fatto affinché siano chiare le motivazioni, le dinamiche, eccetera. Poi l’interessato parla. Parla anche chi vuole intervenire e alla fine si decide.»

«Ho una domanda!»

«Lo lasci concludere!». Il magistrato stoppò il maresciallo. «Voglio vedere come va a finire la storiella!»

«Accertata la responsabilità, si presentano diverse opzioni: la più semplice è che siano restituiti i polli. In questo caso può essere sufficiente un semplice richiamo e la comunità definirà come aiutare il responsabile affinché non ripeta la condotta. Se, invece, li avesse già arrostiti…»

«Ospita tutti a cena?». Manganello fece la battuta.

«Concorda la compensazione per dimostrare il pentimento. Con l’accettazione della parte offesa e della collettività si ha la riconciliazione e il ripristino dell’armonia. Posto che la rifusione non è mai pecuniaria o inflittiva, si va dalla richiesta di scuse, apprezzate molto più di quello che si può immaginare quando sono sincere, alle prestazioni manuali o intellettuali, come tagliare la legna o aiutare i figli a studiare e così via.»

«Che razza di pena è?»

«Ha mai fatto studiare un bambino?» chiesi provocatoriamente.

Manganello esitò.

«E se uno è recidivo?» domandò Pottutto.

«Ovviamente si valuta il tipo di violazione, la motivazione e altri fattori. Sicuramente, però, non è un’aggravante.»

«Se è pluri-recidivo?» si ostinò il maresciallo.

«Perché non un serial killer?» mi stizzii. «Non si fonda una società sulle anomalie. E peraltro, non mi pare che lo Stato riesca a impedirle! L’efferatezza e la malvagità umana non si prevengono. Di sicuro però una società in cui l’individuo sia padrone di se stesso, viva in maniera simbiotica con la natura e si relazioni ai propri simili in modo non artificiale, non conflittuale, non competitivo e senza tornaconto, una società in cui il dominio sia sostituito dalla tolleranza, dall’altruismo, dall’equità, dalla cooperazione, dalla solidarietà, dalla condivisione, sarà sempre meno corruttrice della società del dominio…»

«Sì, in un mondo sottosopra!». Pottutto non mi lasciò finire.

«Si chiama underground anche per questo!».

 

NOTE

1 – Gerrard Winstanley, La nuova legge di giustizia, 1649.

2 – Per un approfondimento Hermann Amborn, Il diritto anarchico dei popoli, ivi.

3 – Cosa possiamo fare per perfezionare il sistema penale? Niente. È impossibile perfezionare una prigione. Con l’eccezione di pochi trascurabili cambiamenti, non vi è altro da fare che distruggerla... Chi metterà sul piatto della bilancia da una parte i benefici attribuiti alla legge e alla punizione e dall’altra l’effetto degradante che quest’ultima ha sull’umanità; chi valuterà il torrente di depravazione riversato nella società umana dal delatore, favorito addirittura dal giudice e pagato in moneta sonante dai governi, con il pretesto che aiuta a smascherare il crimine; chi varcherà i muri di una prigione e lì vedrà come diventano gli esseri umani quando sono privati della libertà, quando sono sottoposti alla custodia di guardiani brutali, a un linguaggio volgare e crudele, a migliaia di umiliazioni concenti e strazianti, sarà d’accordo con noi sul fatto che l’intero apparato carcerario e punitivo è un’egemonia che dovrebbe essere abolita. In Kropotkin, Le prigioni e la loro influenza morale sui prigionieri, ivi.

4 — “Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?”- Dante, Purgatorio, XVI, 97.

5 — Thoureau, Walden, ivi.

6 – Emile Armand, Iniziazione individualista anarchica, ivi.

7 – Ogni individuo si troverebbe in continuazione sottoposto al giudizio di tutti; e la disapprovazione dei suoi vicini, questa specie di forza coercitiva non derivata dai capricci degli uomini, ma dalla stessa forma dell’universo, lo spingerebbe inevitabilmente a correggersi, oppure a fare le valigie. Così William Godwin, Political Justice, ivi.

8 – Pierre Clastres, Antropologia politica, Ombre Corte Edizioni, 2023.

 

 

 

 

3.9-LA PROPRIETÀ: PRESUPPOSTO DEL DOMINIO

«Adesso voglio un nome!» ululò Pottutto, manipolando vigorosamente la pallina di pongo.

«Funziona?» sviai.

«Cosa?»

«La pallina. Funziona davvero o lo fa soltanto per…?»

«Certo che… vuole provarla?»

«Era solo così, per curiosità!»

«Tanto non gliela davo!». Appoggiò l’orologio sul tavolo: «Ha cinque minuti. Dopo di che, se non mi dà un nome, qui si chiude!»

«E Sevizia?» borbottò Manganello deluso.

Ne approfittai: «Nella società del dominio, il più forte comanda, il più debole obbedisce. Anche in natura sono presenti organizzazioni asimmetriche e rapporti di supremazia, mai però l’autorità si manifesta attraverso condotte sfruttatrici, annientatrici, funzionali a un meschino scopo privato. Quando il capobranco sottomette il più debole agisce nell’interesse del gruppo, non per un fine egoistico.»

«E allora cos’è che favorisce l’instaurarsi della gerarchia?»

«Finalmente una bella domanda!»

«Grazie!»

«Dopo tre ore che sto qui…!» sottolineai. «La risposta è una: il tornaconto personale. Il profitto, cioè l’utile economico, è causa di ogni male umano. È un morbo che infetta le menti inducendole a giustificare gli atti più vili, repellenti, scellerati, devastanti perpetrati nei confronti di chiunque e di qualunque cosa ne ostacoli il perseguimento. Profitto che consiste nell’accumulare beni non necessari, che producono altri beni non necessari, l’insieme dei quali forgia l’autorità. E tanto maggiore è l’autorità, tanto il potere si trasforma in arbitrio. Arbitrio che esiste da quando l’uomo ha smesso di vivere in simbiosi con l’ambiente, non accontentandosi più di soddisfare i bisogni primari ed è legittimato dalla legge, positiva o divina che sia, nell’interesse dei Grandi Affari1 e indottrinato come principio supremo con l’etica del lavoro, della competizione, dell’affarismo, del consumo compulsivo e di tutta la propaganda che riduce l’esistenza a una triste finzione.»

«Splendido!». Pottutto spazientito.

«E se il profitto è causa del dominio, qual è il presupposto del profitto?» chiesi.

«Il dominio!» tuonò il maresciallo.

«Ha detto che quella è la causa!», lo corresse il magistrato.

«La proprietà è il presupposto del profitto» proferii. «Senza proprietà, cioè senza la disponibilità di beni che lo generano, esso non esisterebbe. Ma come è nata la proprietà?»

«E basta con le domande. Mica siamo a Lascia o Raddoppia.2»

«È semplice: un giorno taluno ha recintato la terra e ha detto: “questa è mia!” Il giorno dopo, poiché la potestà si conquista con la forza ma si perde anche con la forza,  ha creato un potere supremo chela proteggesse: lo Stato3. Le rivoluzioni industriali ne hanno accresciuto l’autorevolezza, le guerre mondiali l’hanno cristallizzata. Dalla seconda metà del Novecento lo sviluppo tecnologico l’ha moltiplicata nelle infinite espressioni del dominio tecno-scientifico, lasciando al Leviatano l’esclusività di essere il braccio armato a protezione del sistema4

«Arrivi al dunque!»

«Attraverso la proprietà l’uomo compensa l’inquietudine provocata dalla propria natura mortale: in essa si identifica e grazie a essa si sente eterno. L’effetto di questo delirio è il più nocivo assetto sociale emerso nel corso della storia

«A me piace il capitalismo!». Manganello gongolò.

«Non avevo dubbi!» replicai.

«Penso che stia enfatizzando!» miagolò invece Pottutto. «Il ricco è sempre esistito e ha sempre fatto quello che gli è parso!»

«Ẻ quello che ho detto. Perché sacralizzando la proprietà, egli possiede l’autorità e i mezzi per esercitare la sua supremazia. Dal padre padrone al capo ufficio che sfrutta i collaboratori, al latifondista che sfrutta la manovalanza, all’imprenditore che sfrutta l’operaio, al governo che sfrutta il popolo, il potere origina sempre da un’autorità innanzi tutto economica. Chi è saggio la pratica con distacco, chi è sfrontato e arrogante si chiama tiranno. E se una volta annientava i dissidenti, oggi ottiene il consenso mediante gli infiniti mezzi di manipolazione emotiva come l’illusione del benessere, l’induzione all’obbedienza consumistica, la devozione allo scibile e quant’altro conformi alla sua necessità elidendo la capacità critica personale. Il paradosso infatti è che con il capitalismo l’oppresso si illude di non soffrire più il giogo perché ne è partecipe. Orgogliosamente mantiene e sviluppa ricchezza di cui non godrà mai, estorto dalle banche, ingannato dalle multinazionali, alimentando la tecnoburocrazia5, vivendo nella nevrotica normalità di professioni detestate, di relazioni opprimenti, di competizione e di avidità, di conformismo mentale e comportamentale…»

«E che è, l’Armageddon?» mi dileggiò Pottutto. «A me questo sembra solo libero mercato!»

«Il problema non è il mercato ma la servitù volontaria. L’apatia è connivenza. Le persone si scandalizzano quando i fiumi esondano, si commuovono quando vedono in tv un bambino che raccogliere coltan, si disperano quando ettari di boschi bruciano, eppure nessuno rinuncia ai propri capricci. Vivono in un sogno surreale e non vogliono svegliarsi per scoprire cosa hanno contribuito a provocare!»

«Parla dei disastri naturali? Ma se oggi l’industria fornisce una miriade di soluzioni ecosostenibili?»

«Tipo?»

«Le auto elettriche.»

«Certo, certo!» replicai caustico. «Di cosa sono fatte le batterie?»

«Non saprei. Sono un PM, non un batterista!»

«E come si smaltiscono?»

«Nemmeno uno smaltitore!»

«La verità è che l’economia ecosostenibile è un altro imbroglio con cui fregare i sempliciotti!»

«Non mi sono mai comprato un telefonino in vita mia!» mugugnò Manganello.

«Ci credo, usa quelli confiscati!» sghignazzò Pottutto. «Ho capito il concetto!», rivolto a me. «Ma siamo a quattro minuti e non vedo la fine.»

«Quindi ne manca ancora uno!» replicai. «Il dominio, sotto forma di capitalismo è morte. Dobbiamo reagire! La radice è l’uomo, qui e non altrove, adesso e non più tardi7. Questo deve essere il punto da cui ricominciare. Che sia la guerriglia e insurrezione di Hakim Bey8, o la costruzione di comunità alternative, non è più possibile rimanere inerti.»

«Le mancano pochi secondi!»

«Se vogliamo un mondo nuovo e diverso, il primo passo è eliminare la proprietà, causa suprema di ogni devianza umana.»

«Mi ha fatto venire l’ansia!» sbottò il PM.

«Allora cambio argomento!» dissi.

«Ottimo! E di cosa ci parla?»

«Ma della proprietà, naturalmente!»

La penna che Pottutto teneva in bocca cadde sul tavolo.

 

NOTE

 

– 1 Espressione di Carlos Minghella, Piccolo Manuale di Guerriglia Urbana, Amazon, 1969.

– 2 Lascia o Raddoppia?, quiz televisivo condotto da Mike Bongiorno andato in onda dal 1955 al 1959.

– 3 Jean Jacques Rousseau, Discorso sull’origine e i fondamenti della ineguaglianza fra gli uomini, 1755.

– 4 Abbiamo cominciato col dominare la terra attraverso l’agricoltura, in cui abbiamo reso la natura un qualcosa da sfruttare, abbiamo proseguito dominando gli animali con l’allevamento, abbiamo strutturato una società patriarcale fino al dominio di tutti contro tutti attraverso la schiavitù, il lavoro salariato, la massificazione. Ormai siamo gli anonimi ingranaggi di una Megamacchina mangiatutto, di cui il capitalismo è solo l’ultima fase della civilizzazione., In John Zerdan, Enrico Manicardi, Nostra nemica civiltà, ivi.

– 5 Espressione coniata da Amedeo Bertolo.

– 6 Si parla di tecnologia verde, tecnologia ecologica, di tecnologia a basso impatto ambientale. Ma la tecnologia non può mai essere verde, né ecologica, né a basso impatto ambientale: per avere oggetti tecnologici, infatti, bisogna produrli, e per produrli si debbono sventrare montagne, depredare fiumi, disboscare foreste, inquinare l’ambiente. Inoltre, ci vogliono fabbriche e miniere per realizzarli, perché gli oggetti tecnologici sono composti da silicio, terre rare, coltan, alluminio… conseguentemente, ci vogliono persone che vi lavorino. E siccome nessuna persona al mondo troverebbe piacevole lavorare 16-18 ore al giorno, tutti i giorni, nelle profondità buie e insalubri di una miniera, per poter consentire agli altri di avere un bel telefonino o un sistema cruise control nell’automobile, ne consegue che per avere oggetti tecnologici occorre costringere migliaia di persone a fare quello che nessuno vorrebbe fare. In Enrico Manicardi, Nostra nemica civiltà, ivi.

– 7 Dwight Macdonald, The Root is man, 1953.

– 8 Hakim Bey, Millennium, 1997.

 

 

 

 

3.9.2-LA PROPRIETÀ: CAMBIARE IL RAPPORTO CON LE COSE. COMPROPRIETÀ

«La proprietà è la facoltà di disporre e godere di un bene pienamente ed esclusivamente: la zappa è mia e la uso come voglio. I giuristi hanno poi aggiunto: nel rispetto della legge e senza pregiudicare i diritti altrui. Quindi la zappa è sempre mia, ma non posso dissodare la terra che non mi appartiene e non posso tirarla in testa a chi mi pare. Questa la definizione.»

«Dopraho, ho fatto giurisprudenza. So cos’è la proprietà!»

«Ottimo! Differenza fra proprietà e possesso?»

Scena muta.

«Allora cambiamo domanda: quand’è che sono proprietario di una cosa?»

Pottutto si perse nel paesaggio agreste che Manganello stava disegnando.

«Quando la realizzo, tipo mi costruisco la zappa, oppure quando me ne impossesso, tipo la compro. Nel momento in cui entra nella mia disponibilità diventa un mezzo che utilizzo per conseguire un fine, cioè uno strumento funzionale a una mia utilità. Senza la zappa non potrei tagliare i rami e se non taglio i rami non posso scaldarmi, ad esempio. Attraverso la proprietà, pertanto, soddisfo un bisogno pratico ma anche, oggi direi soprattutto vista la narcotizzazione consumistica, mentale.»

«Sul prossimo argomento mi faccia una cortesia…» intervenne Pottutto.

«Dica!»

«Evitiamo il cappello che…»

«Ma è la parte più divertente!»

«Lei si diverte?» chiese a Manganello.

«Eccome no. Sono tre ore che rido!»

«Detto che la proprietà è un mezzo per un fine e che i fini si reiterano all’infinito, occorre che qualcuno provveda al suo mantenimento, al suo sviluppo, alla sua difesa, eccetera. E poiché del proprietario si può dire tutto ma non che non sia generoso, lascia siano altri a lavorare. Si crea così un dominio degli uomini sugli uomini che, aggiunto a quello sulla natura, provoca la catastrofe umana e ambientale che stiamo vivendo. Non esistono soluzioni intermedie: l’abolizione della proprietà è l’unico modo per fermare questo delirio di onnipotenza!»

«In che senso?»

«La proprietà non deve esistere. Abolita. Cancellata. Tanti saluti e arrivederci!»

«Ma se la abolite, i bisogni…?»

«Occorre distinguere fra bisogni primari e non. Mangiare, vestirsi, svagarsi, stare con gli altri, eccetera sono bisogni essenziali che l’anarchia non nega a nessuno, anzi favorisce in quanto funzionali al perfezionamento della personalità. E vengono offerti dalla natura in abbondanza. Perché l’uomo non sia schiavo delle cose occorre quindi cambiare il rapporto con esse, il valore che le attribuiamo: utile è ciò che consente di vivere in armonia col mondo, superfluo è ciò che crea schiavitù fisica e mentale.»

«E chi stabilisce se una cosa sia superflua o no?»

«Gliel’ho appena spiegato!» replicai irritato. «L’uomo si perfeziona e si compie quando vive spontaneamente in armonia con se stesso, con gli altri, con l’ambiente. Il resto è dannosa banalità. Per questo l’anarchia che voglio propone un’esistenza semplice in cui si privilegi la relazione personale e la connessione con la natura. Un progetto spirituale prima ancora che materiale, in cui l’estasi si ottiene per sottrazione, non aggiungendo. Bisogna essere nudi per essere se stessi!»

«Su questo avrei qualche dubbio!»

«Conosce qualche ricco che è felice?»

«La sua è tutta invidia!»

«Mai provato questo sentimento!»

«Neanche un pochino?»

Arrossii: «In effetti, una volta. Quando dal traghetto ho visto i delfini piroettare fra le onde… Non mi ci faccia pensare che mi commuovo ancora!»

Il pubblico ministero si grattò nervosamente la barba liberando una mosca rattrappitasi nei riccioli.

«Ma se abolite la proprietà, a chi appartengono le cose?» chiese.

«Sono di tutti e di nessuno.»

«L’avevo detto che sono comunisti!» esultò Manganello.

«Nella società anarchica, a parte i prodotti di esclusivo uso personale, i beni appartengono a tutti e tutti li producono, li gestiscono e ne dispongono in base agli accordi. Si chiama comproprietà. Quelli in eccedenza vengono distribuiti equamente o scambiati attraverso il dono o la permuta. Quelli accessori vengono semplicemente eliminati. Non c’è un’entità superiore che decreta dall’alto. La scelta è volontaria. Esclusivamente personale. Per questo non siamo comunisti!»

«Non riuscirete mai a eliminare la proprietà!» rugliò il pubblico ministero.

«Intanto cominciamo dalla nostra, senza la quale anche la vostra perde di valore!»

«E vorreste cambiare le cose così, di punto in bianco?». Si protese verso di me: «Mi perdoni. Glielo chiedo perché… sa ho appena comprato casa!» sussurrò in maniera che Manganello non udisse.

«Assolutamente no!» Lo rassicurai.  «A noi piace creare comunità clandestine che erodano lentamente il sistema!» sussurrai.

«Ma senza proprietà…?»

«Mi dica un solo motivo per cui è utile?» lo incalzai.

Seguirono secondi di silenzio assoluto, sguardi fuggevoli, contrazioni muscolari.

«Se io sono proprietario di un bene posso trarne un’utilità immediata, senza mediazione di cose o persone…» biascicò Pottutto.

«E posso fare di essa quello che voglio!» seguii. «Ma a parte ricordare le definizioni di diritto assoluto e il diritto soggettivo studiate sul Trabucchi…?»

«Edizioni Simone!».

«Non importa!» lo tolsi dall’imbarazzo. «Il punto focale è che la proprietà favorisce il più forte e impedisce la realizzazione delle potenzialità individuali sfruttando e corrompendo con l’illusione della materialità. Conviviamo con essa dal momento in cui veniamo al mondo. Esattamente come la schiavitù. Per questo deve essere abolita. Ma non attraverso l’espropriazione o la presa di possesso che genererebbero nuove autorità verticistiche, bensì attraverso la comproprietà in cui tutti siano attori e non fruitori, parimenti partecipi e responsabili.»

«Adesso voglio un nome. Me l’aveva promesso!»

«Uno a caso?»

«Mi accontenterò del primo che le viene in mente!»

«Adele!»

«Adele?». Pottutto scattò sugli attenti. «Chi è questa Adele?»

«E che ne so. È il primo nome che mi è venuto in mente!».

 

NOTE

– 1 Come diceva Proudhon: è sufficiente possedere quel tanto che basta per essere liberi perché una volta soddisfatti i bisogni elementari si ha il tempo di coltivare la propria mente e la propria sensibilità1 In P. J. Proudhon, La guerra e la pace, 1861.

 

 

 

3.9.3-LA PROPRIETÀ: IL RAPPORTO CON LE COSE CAMBIA SE CAMBIA QUELLO CON LA NATURA

«Ho detto che la comproprietà è l’unica soluzione possibile. Nessuno è proprietario di niente. Tutti posseggono tutto. La comunità e i singoli direttamente la gestiscono, la conservano, la usano e la distribuiscono in base a modalità stabilite dai suoi membri al momento della costituzione, dell’ingresso, o in sede di eventuale modifica degli accordi. In questo modo non possono sorgere abusi, violazioni, usurpazioni, né gelosie e avidità perché ciascuno decide secondo coscienza nell’interesse comune.»

«Per me non funziona!»

«E invece funziona alla grande se ci si affranca dalla logica del dominio per cui la libertà è libertà di possedere!» affermai. «La rinuncia alla proprietà richiede la consapevolezza che il superfluo non è solo inutile, è di ostacolo al perfezionamento del sé. Negando il profitto, l’uomo infatti non è più pervertito dalla materialità e aspira a creare relazione nuove. Non domestica. Non domina. Non distrugge. Genera connessioni spontanee con gli esseri con cui interagisce. La natura diventa l’ambiente in cui conosce se stesso e sperimentando incessantemente, consente alla volontà di sublimarsi nel divenire del mondo. Solo il padrone di sé che crea interazioni identitarie e può godere l’estasi della fusione con l’universale!1».

«Detesto questi filosofismi!»

«La capisco. Pensare è faticoso!»

«Come si permette?». Pottutto avvampò.

«Dicevo in generale!»

Si ricompose: «Mi è venuto un dubbio sulla comunità…»

«Prego, dica pure!»

«Non le ho chiesto il permesso!» replicò piccato. «Cosa accadrebbe se un membro si appropriasse di un bene che appartiene a un altro gruppo?»

«Certo che il crimine ce l’ha proprio qui!». Puntai il dito alla tempia. «Non può accadere! Come nessuno ha bisogno di rubare un bene della comunità perché è suo, allo stesso modo non ha bisogno di appropriarsi di quello di un’altra perché ha scelto di non disporne. I bisogni sono assolti dal gruppo di appartenenza e l’assenza di competizione elide quei volgari quanto degradanti sentimenti di invidia e avidità che deturpano lo spirito e deteriora le relazioni2».

Pottutto accese la sigaretta. «Ne vuole una?» chiese.

Sollevai le spalle assertivamente.

Indicò con lo sguardo il portacenere come a dire che avrei potuto scegliere il mozzicone che mi piaceva di più.

«Magari dopo!»

«E se invece le comunità riconoscessero la proprietà?». Il magistrato sollevò il sopracciglio.

«Già, se la riconoscessero?». Il maresciallo gli andò dietro. E come se avesse perso qualche passaggio: «Perché si sono incontrate?».

«Come ho detto, non è escluso. Anche se una comunità che accetta la proprietà, accetta di vivere secondo le regole del dominio, dando luogo a una società che non è anarchica. Potrebbe farlo perché il volontarismo e il pluralismo sono principi sacrosanti. Ma temo che, tolleranza a parte…».

«Mi parla di abolizione dello Stato, però ci sono gli accordi. Mi dice che vuole eliminare la proprietà, però va bene la comproprietà. Ho la sensazione che, come dire… che cambi tutto per non cambiare niente!» rilevò.

«Eh no. Cambia tutto per cambiare tutto!» sobbalzai. «Le dico solo tre cose random: la prima è che niente è più uguale quando le regole vengono stabilite dal basso e non c’è autorità che le imponga o ne controlli l’osservanza. Si chiama libertà. Libertà vera. Reale. Ancora più evidente mi sembra la portata rivoluzionaria della comproprietà. Condividere i beni in maniera orizzontale elimina ogni forma di sfruttamento e garantisce la compartecipazione, fondamentali per garantire l’autonomia. Questa è invece eguaglianza. Infine, il continuo confronto, la possibilità di trasformarsi consensualmente o di sciogliersi, di cambiare in ogni momento scopi e metodi, di rinnovarsi grazie alla negoziazione permanente, rendono la comunità il luogo in cui esprimere le proprie potenzialità». Pausa. «In quale sistema sociopolitico è consentita questa evoluzione armonica?»

«In quale?» chiese il maresciallo.

«Manganello, gli risponda l’anarchia così andiamo avanti!» il pubblico ministero lo sollecitò. E a me: «Abbiamo finito con la proprietà?»

Sovvenni: «Quasi dimenticavo il pluralismo. L’eguaglianza nella diversità è libertà senza catene. Quelle catene che vi rendono così tristi, solitari, abbandonati, depressi…!»

«Ora le facciamo anche pena?»

«Perché, è così evidente?».

 

NOTE

 

– 1 Gran parte dei lussi e molte delle cosiddette comodità della vita, sono non soltanto tutt’altro che indispensabili, ma autentici ostacoli per l’elevazione del genere umano… «Mi resi conto che in qualunque oggetto naturale si può trovare la compagnia più dolce e tenera, più innocente e incoraggiante, anche per il povero misantropo e per il più malinconico degli uomini. Non può esistere la mera malinconia per colui che vive nel mezzo della NaturaL’indescrivibile innocenza e beneficenza della Natura concedono sempre una tale salute e una tale allegria e mentre godo l’amicizia delle stagioni, confido che nulla possa rendermi la vita un pesoDona un’amicizia infinita e indescrivibile. Così Henry David Thoreau, Walden, ivi.

– 2 Una volta abolita la proprietà privata, spariscono di conseguenza anche le leggi e i reati. Il comandamento non rubare è stato trasformato in lavora per vivere felice. In William Morris, Notizie da nessun luogo, 1890.

 

 

25- LA RIBELLIONE: LA RIBELLIONE È ETICA

«Io e Manganello facciamo un salto alla macchinetta» disse Pottutto.

«Oh, grazie!» esclamò il maresciallo.

«La invito solo perché ha la chiavetta!» replicò il pubblico ministero. Poi sorridendo: «Scherzavo!». Gli batté una pacca sulla spalla e: «Andiamo!».

Dopo pochi minuti, rientrarono confabulando vivacemente sul culo di una praticante avvocato incontrata nei corridoi.

«Signorina Servile scriva pure che alle 18 e 10 ricomincia l’interrogatorio… Vogliamo ripartire col botto facendo un altro nome?». Pottutto a me.

«Non sia ingordo!» dissi. «E va bene, glielo farò: Prometeo.»

«Scriva Manganello, scriva!» si rivolse al suo fido scudiero. «E chi sarebbe questo Prometeo un bombarolo, un haker…? Dica dica!»

«È un mito!»

«Sentito Manganello, è un pezzo grosso!»

«Intendo il mito di Prometeo. Conoscete? Neanche avete visto il film di Ridley Scott?1 Peccato, i titoli di coda non sono male!» dissi. «Prometeo era un titano talmente amico degli uomini, che a volte per loro faceva delle sciocchezze appunto… titaniche!». Risi. «Come quando rubò ad Atena lo scrigno in cui erano riposte l’intelligenza e la memoria per donarle agli umani. Oppure quella volta in cui durante un banchetto fra uomini e dei, servì i pezzi di carne più succulenti ai suoi amici umani lasciando gli ossi a Zeus. Questi si offese così tanto che per ripicca tolse il fuoco dalla terra. Prometeo allora entrò di notte nell’Olimpo e rubò una torcia. Ancora una volta il padre degli dei si infuriò, ma stavolta fu meno tollerante. Lo fece incatenare in vetta a un monte con un’aquila che gli mangiava il fegato in continuazione. La storia prosegue con Pandora che apre il famoso vaso da cui fuoriescono tutti i tormenti dell’uomo, Prometeo che viene liberato, uccide l’aquila e vissero tutti felici e contenti… Almeno fino alla prossima volta, perché coi miti greci non si sta mai tranquilli!»

«Mi sa che non ho mai visto questo film!» ribadì Pottutto. «Lei, maresciallo?»

«Gliel’ho detto, guardo solo Fox Crime!»

«Ma perché vi ho raccontato questa storia?» chiesi.

«Già perché?»

«Perché Prometeo, rubando il fuoco agli dei per donarlo al genere umano, si comporta da ribelle. Quindi io adesso parlerò…?»

«Parlerà?»

«Parlerò?»

«Parlerà?»

«Parlerò di ribellione, dottore!»

«Non fa una piega!» Pottutto si contrasse.

«Quando l’individuo prende coscienza di sé ha ormai rifiutato l’autorità religiosa, politica, morale, sociale, economica, eccetera. È libero. È puro e percepisce pienamente le proprie potenzialità. Vorrebbe gridare di gioia, condividerla col mondo. Ma intorno c’è schiavitù, pregiudizio, ignoranza, assuefazione… Malatesta deve aver pensato a questo momento quando ha scritto di aprire degli spacci per vendere la cocaina!2»

«Drogati!». Manganello si eccitò.

«Era una battuta! E comunque Malatesta non era drogato. Semplicemente cent’anni fa aveva già capito che la repressione è sempre business!» dissi. «Dopo lo spaesamento, l’iniziato si interroga sui propri sentimenti, sul proprio coraggio, su come poter esercitare pienamente la propria autonomia. La consapevolezza cresce. Il calore travolge. Si irradia nella schiena, pizzica la nuca, colora le guance…»

«Senta Dopraho, del trip dell’anarchico non è che…!». Pottutto intervenne spazientito. «Perché invece non mi racconta delle sue molteplici attività?»

«Mi faccia almeno parlare di quando l’iniziato incontra altri refrattari come lui!»

«Preferisco le attività!»

«Vuol sapere cosa faccio nel tempo libero?»

«Anarchiche… Solo un paio!»

«Sminuirei le altre. E poi non è la singola azione che conta, ma la scelta etica che le guida!»

«Perché avete un’etica voi bombaroli?» crocchiò Manganello.

«Ne ho già parlato all’inizio. Ricordate? L’etica anarchica poggia su due colonne. La prima è l’antiautoritarismo. La seconda è che vogliamo una società in cui libertà ed eguaglianza siano sempre in armonia.»

«Manganello prenda appunti!». Il PM lo redarguì vendendolo distratto.

«Scrivo sul tavolo?». Il maresciallo sventolò irruentemente i fogli riempiti con buffi disegni agresti.

Attendemmo tornasse dal bagno con un rotolo di carta igienica.

«Per l’anarchico che cosa sia giusto e morale è nell’aria che respira3. Quando si imbatte in un’ingiustizia, istintivamente si identifica con chi la subisce e da en dehors, da fuori dal mondo4 alla ricerca del profondo, nativo rapporto con la libertà5, si impegna per eliminarla.»

«Può essere più chiaro?»

«L’anarchico si identifica nella reazione al sopruso: quando esercita un rifiuto a un’intrusione giudicata intollerabile, sente di essere nel giusto, di avere in qualche modo, e da qualche parte, ragione. Per questo vive la propria essenza nella ribellione: l’uomo che dice no dice anche sì fin dal suo primo muoversi, afferma Camus6».

«Apprezzo il suo entusiasmo». Pottutto mi disinnescò. «Ma riusciamo ad arrivare al dunque prima che sia l’ora di cena?»

«Perché, ha fretta?»

«Dovrei passare al supermercato prima di rincasare!». E per giustificarsi mostrò il messaggio intimidatorio inoltrato dalla moglie.

«La lotta è il compimento etico dell’iniziazione anarchica. Pensiero e azione! Una lotta intellettuale attraverso la critica serrata e praticata mediante l’azione. Col pensiero si erode il sistema, con l’azione si dissolve l’ingiustizia e si crea una realtà in cui essa non possa germinare.»

«Poche chiacchiere, siete solo dei criminali!» rilevò Manganello caustico.

«Su questo non ci sono dubbi!» dissi. «L’anarchia è sempre presente quando il potere costituito crea iniquità. Si chiami potestà, religione, monarchia, statalismo, burocrazia, tecnocrazia, scientocrazia, per reagire al dominio occorre violare le sue regole, quindi diventare criminali. Come diceva Kropotkin: tutto è buono quello che non è legalità perché il Potere si fa le leggi per fare quello che vuole. E chi non vuole cosa dovrebbe fare?»

«Non ha motivo di esaltarsi tanto!»

«E invece sì. Perché nel momento in cui il ribelle prende coscienza che la norma legittima l’ingiustizia, che senza di essa non ci sarebbe arbitrarietà e iniquità ma volontaria armonia, negarla è praticare la giustezza. E negare la norma, quindi essere quanto un criminale comune, come Hanna Arendt7 chiamava il disobbediente, lo esalta e lo realizza al contempo a prescindere dal disprezzo, dalla derisione, dall’emarginazione, dall’inevitabile persecuzione e repressione a cui lo sottoporrà il Potere. Ecco perché deve passare nel bosco8 per attuare la sua etica. La sua lotta è occulta, fuggevole, impercettibile, tuttavia non meno efficace. Appare, colpisce, sparisce come un guerrigliero.»

«Non ho capito» borbottò Manganello. «Sta dicendo che gli anarchici sono boscaioli?»

Sghignazzarono scambiandosi pacche, ammicchi, spintarelle.

Non sapendo che fare, infransi la loro stolta ilarità con un rutto.

 

NOTE

 

– 1 Prometheus, film di Ridley Scott, 2012.

– 2 Errico Malatesta, in Umanità Nova, pubbl. 10.8.22).

– 3 Ernst Jüngher, Trattato del ribelle, ivi.

– 4 Emile Armand, L’iniziazione individualista anarchica, ivi.

– 5 Ernst: Jüngher, Trattato del ribelle, ivi.

– 6 Albert Camus, L’uomo in rivolta, ivi.

– 7 Hannah Arendt, Disobbedienza civile, ivi.

– 8 Ernst Jünger, Trattato del ribelle, ivi.

 

 

 

 

4.2-RIBELLIONE: AZIONE DIRETTA

 

«A proposito di criminali…». Il pubblico ministero riprese a parlare. «Ho qui un fascicolo…». Lo estrasse dalla borsetta. «Pieno di attentati, furti, rapine, reati cybernetici e chi più ne ha più ne metta». Esibì la foto di un traliccio abbattuto. «Guardi questa?». Quella di una camionata di letame su un auto blu. «E questa?». Due mastini in divisa legati nella posizione del sessantanove. «Che gliene pare?». La mostrò a Manganello, che la respinse disgustato.

«Mi state accusando?»

«Non faccia il furbo con noi. C’è la sua firma!». Indicò la A di anarchia disegnata sul sedere di quello che stava sopra.

«Già, c’è la sua firma!» echeggiò il maresciallo.

«Ma io mica mi chiamo A!» rilevai placido.

La arterite del pubblico ministero esplose: «È stato lei o non è stato lei?»

«Per caso fa riferimento a quella volta in cui due di loro…», indicai la divisa del maresciallo, «hanno inseguito dei ragazzini e sono entrati nella casa abbandonata a Seano dove hanno trovato un laboratorio e poi è successo che… Non ne so niente!». La avvicinai: «Comunque sono venuti bene!»

«Chi?»

«Gli agenti. Guardi che facce buffe!». E a Manganello: «Non le piacciono?»

«È stato o non è stato lei?»

«No!»

«Sta mentendo!»

«Sì!»

«Allora è stato lei!»

«No!»

«Ma ha appena detto di sì!»

«Era interrogativo: sì?» ripetei.

«Questo è terrorismo!». Pottutto avvampò. «Ci dica chi è stato o…!»

«Si chiama azione diretta» lo corressi. «Per il terrorismo dovete chiedere ai servizi segreti e ai fascisti. Sono i numeri uno!»

«Perché, dar fuoco a una scuola è da…?»

«Era vuota.»

«Stavano entrando gli agenti!»

«Appunto!»

«E frantumare le vetrine dei negozi?». Il PM mostrò le foto del centro commerciale.

«Belle. Sembrano le esplorazioni artistiche a colpi di martello di Simon Berger!1»

«Rapinare le banche?»

«Non sarà un peccato rubare in casa del ladro!». Mi protesi verso di loro e sussurrai: «Non è mia, ma ha sempre il suo perché!» Gongolai. «Gli anarchici rifiutano l’ipocrisia legalista e profanano i suoi idoli con l’azione diretta, cioè quel complesso di attività realizzate in antagonismo e senza bisogno dell’autorità. Sono i così detti semi sotto la neve che possono crescere e germogliare, come Ward definiva i tentativi antiautoritarii.»

«A me sembra solo violenza!»

«Mentre lo Stato che pretende il monopolio del potere e lo ingiunge con la forza, invece…?» ironizzai. «L’anarchia è stata violenta nel periodo che va dalla fine della Prima Internazionale all’inizio della Prima Guerra Mondiale, quando numerosi furono gli attentati contro sovrani o importanti personalità politiche come il re di Spagna Alfonso II, il primo ministro francese, l’imperatore tedesco Guglielmo I, lo zar Alessandro II, il re d’Italia Umberto I e così via. Ma era un’epoca in cui si credeva che il fatto insurrezionale potesse favorire la rivoluzione2. Era l’Ottocento e il romanticismo esplodeva esaltando ogni passione sfrenata.»

«Uccidere un re le sembra una cosa passionale?»

«Le garantisco che ci mettevano tanto amore!». Gli restituii la battuta che mi aveva fatto prima. «Sono dovuti passare anni di persecuzioni per capire che il popolo è una categoria sopravvalutata. Lo stesso Malatesta, infatti, ripiegò dalla rivoluzione in modo permanente al più imparziale gradualismo rivoluzionario da attuare pezzetto dopo pezzetto.»

«A proposito di pezzetto, Manganello non è che ha un altro snack?». Il pubblico ministero mi interruppe. «No?». Guardò me. Guardò lui. Guardò me e ancora lui. «Giuri!».

Ripresi: «Oggi è tutto diverso. Ci sono state le guerre mondiali, il capitalismo si è tecnicizzato, l’ipocrisia omologante si è impadronita del buon senso annichilendo la ragione. L’obbedienza volontaria è ormai virtù. Ẻ ingenuo sperare di risvegliare la massa dalla narrazione che identifica l’anarchico con il terrorista…»

«Mi sa che ora spara la stronzata!» sussurrò Pottutto a Maganello.

«Dottore!» esclamai.

«Mi perdoni!» si scusò. «Quando mi cala la glicemia…!». E al maresciallo: «Non ha neanche una caramella?»

«L’anarchico non se la prende più con i re, i primi ministri, i politici. Sa che sono uno strumento. Preferisce costruire realtà autonome e clandestine. E se proprio gli scappa di tornare alle origini, mira le infrastrutture piuttosto che i governanti3. Il Potere ormai opera attraverso meccanismi che non sono più centralizzati, ma frammentati in ogni livello e pratica sociale. Per questo è più difficile da individuare, da scalzare, da sfidare. Bisogna mirare i suoi centri nevralgici. Ma non distruggendoli, cosa impossibile perché sono infiniti, bensì erodendone lentamente la funzionalità. Non si tratta quindi di tracciare un limite in continuazione come sosteneva Goodman, ma di sottrarre controllo mediante azioni mirate, incisive e disgreganti che si organizzino dal basso in alto per mezzo di associazioni indipendenti e assolutamente libere4, di comunità impalpabili, clandestine, intangibili e inconoscibili, che operino nell’oscurità, nell’underground appunto, dove esso non potrà mai accedere.»

«Finito?»

«Direi di no!»

«Allora aspetti che sta glicemia…». Pottutto tirò fuori dalla tasca della giacca una coscia di pollo arrosto e la azzannò. Poi mi sollecitò a riprendere.

«La rivolta può essere individuale o collettiva. Tuttavia non credo nel popolo e tantomeno nella lotta di classe. Il primo è un concetto astratto, la seconda è una fregatura. La rivoluzione presuppone infatti un mutamento, un passaggio repentino, per lo più violento, da qui a là. Oggi siamo una repubblica, domani siamo anarchia. E poi cosa accade se le persone non hanno consapevolezza? La libertà non è una festa, non è un gioco, non è una manifestazione di piazza, come ammoniva Bertolo. Se dietro l’impazienza generosa c’è solo il vuoto culturale e organizzativo, se la fiammata sovversiva si alimenta del solo malcontento, presto il fuoco si spegne con la stessa rapidità e facilità con cui si è acceso5. Quando le masse provano a sovvertire l’ordine costituito, prevale sempre la controrivoluzione. Pensate ai sogni infranti della primavera araba del 2011, oppure Occupy Wall Street sempre nel 2011, o alla rivoluzione greca del 2012, Istanbul l’anno dopo, la Catalogna del 2019, i Gilet gialli nello stesso anno.»

«I tifosi che hanno costretto il governo a riaprire gli stadi durante il covid però…?» eccepì il magistrato.

«Quelle sono le vittorie che contano!» replicai. «E poi quale classe dovrebbe guidare la rivoluzione se gli operai scimmiottano il padrone?»

«Gli intellettuali non hanno niente da fare. Potrebbero…?»

«Sono occupati a celebrare il Potere. Non mi fraintenda: non ho detto che esso li corrompe. Non è che va dal tale scrittore o editore o attore e così via e gli dice: “Ti do i soldi se racconti ciò che voglio!”. Si venisse a sapere, che figura ci farebbe? Semplicemente consente di pubblicare il libro, di distribuire il giornale, di recitare e così via!»

«Sulla scienza scommetto però che…?»

«Già, la scienza!». Glissai con espressione amareggiata. «Sa che una volta essa era sinonimo di progresso? Una volta. Prima che diventasse la Zecca dei Grandi affari

«Suvvia, non sia così pessimista!»

«Non lo sono. Infatti confido negli individui. Individui liberi che si uniscono ad altri individui liberi e tutti insieme creano comunità autogestite che operano in clandestinità lacerando il dominio dal suo interno. Non servono eroi, ma la fratellanza. Soltanto la convergenza delle volontà libere può eludere il sistema replicando modelli di comportamento che lo disgreghino. Siamo pirati. Siamo carbonari…».

Manganello sobbalzò sulla sedia: «Anch’io la voglio!»

«Cosa?»

«La carbonara!». Avvinazzò. «Non parlavate di quella?»

NOTE

 

– 1 Simon Berger, artista svizzero nato nel 1976 che crea opere d’arte sul vetro a colpi di martello.

– 2 Penetrare nei più profondi strati sociali e attrarre le forze vive dell’umanità nella lotta che l’Internazionale sostiene, affermavano il giovane Errico Malatesta e Carlo Cafiero al Congresso di Berna dell’Internazionale Autorititaria del 1876.

– 3 Come dice il Comitato Invisibile: il Potere non è più rappresentativo. Nessuno lo vede perché tutti ce l’hanno in ogni momento sotto gli occhi: sotto forma di traliccio della tensione, di un’autostrada, di una rotatoria, di un supermercato o di un programma informativo, in quanto è l’organizzazione stessa di questo mondo, questo mondo modellato che ha l’apparenza neutra di una struttura abitativa o della pagina bianca di Google3. Comitato invisibile, ivi.

– 4 Paul Goodman, Individuo e comunità, 1995.

– 5 Amedeo Bertolo, Anarchici e orgogliosi di esserlo, ivi.

 

4.3– RIBELLIONE: IL CAMBIAMENTO NON È RIVOLUZIONE

«Secondo voi» mi rivolsi ai miei interlocutori. «Meglio un’azione violenta o pacifica?»

«Violenta!» rispose Manganello. «Almeno ci divertiamo anche noi!»

«Invece è meglio pacifica.»

«Ma come?» esclamò deluso.

«Il cambiamento non si ottiene con qualche traliccio abbattuto o una vetrina imbrattata, né con le manifestazioni di piazza in cui lo scontro con la polizia, pur alimentando la suggestione del faccia a faccia col Potere, rafforza lo stato-centrismo con i continui richiami alla Costituzione, ai diritti e alla cittadinanza. Perché la rivolta sia efficace deve creare un non-governo.»

«Ma deve essere anche violenta. Sennò che ci stiamo a fare?» insistette il maresciallo.

«Appunto. La violenza genera violenza e il Potere possiede risorse economiche, militari, tecnologiche, propagandistiche sia interne che esterne che nessuna rivoluzione può contrastare. E poi, ve l’ho detto, una volta conseguito con la violenza… Immaginate che noi tre domani occupiamo il Parlamento» improvvisai.

«Mi spiace, domani ho il dentista!» glissò Pottutto.

«Cosa accadrebbe? Pensate che la società si solleverebbe in massa per sostenerci? Credo proprio di no. Perché i media ci dipingerebbero come carnefici. L’uomo medio temerebbe di perdere quel poco che si illude di avere. I poveri si azzufferebbero con altri poveri per il primato della povertà. Alla fine la gente penserebbe che si stava meglio quando si stava peggio e… Se invece la rivoluzione riuscisse nel suo intento, il popolo sarebbe pronto a costituire una nuova società fondata sui principi libertari?»

«Lo chiede a noi?»

«No, a lui!» indicai la Sfinge davanti alla porta. «La risposta è no. L’estasi sovversiva lascerebbe il posto allo spaesamento, alla frustrazione, all’incapacità di realizzare obiettivi concreti. Perché rotte le catene i rivoluzionari abituati alla servitù non saprebbero cosa fare e nuove forme di dominio approfitterebbero della loro irresolutezza1. Ẻ inutile realizzare il gran giorno se poi subentrano nuove autorità!».

«Vigileremo perché non accada!» proferì entusiasta Manganello.

«Maresciallo, non si identifichi», Pottutto lo riprese. «Non sta parlando di un colpo di stato militare!»

«Le rivoluzioni violente sono inevitabilmente destinate al fallimento. Prese le contromisure, il Potere compatta la fragile massa con il bisogno d’ordine e sfrutta l’emergenza come pretesto per nuove disposizioni liberticide. Inoltre il cambiamento ottenuto con la violenza possiede i semi dell’autoritarismo che poi diventano radici per nuove forme di dominio. Quante rivoluzioni si sono trasformate in macchine repressive e sanguinarie?»

«Vorrebbe convincerci che l’anarchia è pacifica?»

«L’anarchia è non violenta per definizione. La violenza è sempre prevalenza fisica o psicologica e noi anarchici neghiamo categoricamente che qualcuno prevalga sull’altro.»

«Non mi cada nel melenso!»

«L’uso della violenza ha senso solo in due casi: il primo come reazione a un atto ingiusto: per conservare la dignità e non essere ridotti alla schiavitù bisogna resistere con tutti i mezzi adeguati. Il secondo quando l’obiettivo è un bene, mai una persona, che rappresenta il dominio. Ad esempio, hackerare dei sistemi di protezione, abbattere le infrastrutture, occupare o distruggere laboratori in cui si producono sieri non sperimentati. Tutte azioni di sicuro impatto, ma eliminano il mezzo, non la causa. Se non cambia il contesto, l’effetto finisce lì.»

«Mi perdoni, ma senza la rivoluzione che anarchici siete?»

«L’ordine costituito non si cancella utilizzando i suoi metodi e modificando i suoi propositi. In questo modo si passerebbe da un dominio all’altro. L’Anarchia sviluppa realtà che non hanno niente a che vedere col sistema da cui fugge. Ẻ antagonista e alternativa, non collaborativa. La storia è piena di movimenti che volevano sovvertire l’autorità sfruttando le sue strutture. A stringere troppe mani, però, prima o poi s’insozzano: il potere corrompe sempre! Prendete qualunque movimento anticonformista che ha strizzato l’occhio al parlamentarismo. Non solo ha legittimato lo Stato adattandosi alle sue regole, ma si è fuso con esso accettando le sue dinamiche depravate e violente col risultato di perdere velocemente i propri ideali. Oppure pensate alla controcultura e ai movimenti sessantottini, che inizialmente si forgiavano di illuminanti tematiche di ispirazione anarchica. Quando poi vennero raccolte dal sindacalismo e trasformate nei consigli di fabbrica e nello Statuto dei Lavoratori, la ribellione si trasformò in un palese tentativo di imbalsamare ciò che le lotte avevano conquistato3. L’anarchia non dialoga col sistema. Non deve!».

Mi fermai perché Manganello faceva delle strane smorfie con la bocca. Gli chiesi cosa avesse, mi invitò ad attendere con un eloquente gesto della mano.

Starnutì facendo volare i fogli sul tavolo.

«Ora li raccoglie!» ruggì Pottutto infastidito.

Il maresciallo ci provò, ma il pancione gli impediva di piegarsi. Lo feci io e non mi ringraziò neanche.

NOTE

 

– 1 Come dice Goodman: l’energia ricca di passione delle persone oppresse ha tuttavia, come risultato, il fatto che, se rompono le loro catene, poi non sanno più cosa fare. Non essendo state autonome, non sanno cosa sia esserlo, e prima che lo imparino, hanno nuovi amministratori che non hanno alcuna fretta di mettersi da parte1. In Paul Goodman, Anarchia come autonomia, ivi.

– 2 Se la violenza può trovare giustificazione quando è l’unico mezzo per resistere o reagire alla ben maggiore violenza del potere e dello sfruttamento, essa però contiene i germi di un nuovo dominio ed è dunque essenziale ricorrervi solo se strettamente necessario3, diceva Tolstoj  in Tolstoj, Il rifiuto di obbedire, ivi.

– 6 Umanità Nova, Statuto dei lavoratori, 24.1.76.

 

 

4.4-RIBELLIONE: LA DISOBBEDIENZA CIVILE

 

«E comunque non ha senso fare la rivoluzione. La democrazia ha dato a tutti una casa, un lavoro, strutture sanitarie dove curarsi, soldi da spendere come pare e piace…» rilevò il pubblico ministero.

«In effetti le persone preferiscono stordirsi con ciò che offre piuttosto che guardare in faccia la realtà. Ma ogni tanto qualcuno si sveglia e la sua irruenza è entusiasmante. In questi casi, più che di rivoluzione dobbiamo parlare di ribellione» dissi. «La rivoluzione origina da una necessità collettiva, come può essere reagire alla miseria. L’assalto alla Bastiglia avvenne perché il popolo aveva fame, non per abbattere la monarchia o per eliminare l’aristocrazia. Ma ogni rivoluzionario sarà sempre un reazionario perché impone nuovi idoli. La ribellione, invece, è uno stato d’animo che consiste nella resistenza a un’ingiustizia. Dalla violazione dell’armonia naturale segue una reazione spontanea, almeno inizialmente non premeditata e organizzata, difensiva o reattiva. Per questo il ribelle è sempre pronto ad agire: viola leggi che ritiene inique, scappa dalla famiglia oppressiva, incrocia le braccia davanti al sistema che lo sfrutta e così via fino al suicidio, il più potente e radicale atto di libertà individuale.»

«Aspetti!» Pottutto mi fermò. «Questa non l’ho capita!»

«Non c’è niente da capire».

«Non sarà favorevole al suicidio?»

«Non credo sia il momento di…»

«Le hanno mai detto che la vita è sacra?»

«Mi perdoni, ma sbaglia aggettivo. La vita non è sacra, è mia. È l’unica cosa di cui sono proprietario per natura. E di come ne dispongo non devo dare conto a nessuno!»

«Dimentica che siamo un esempio per i giovani… per gli altri!».

Sospirai. «Bell’esempio che siete, allora!». Sorrisi. «Nessuno deve imitare nessuno: la personalità si forgia con l’esperienza. L’emulazione non è ispirazione, ma conformismo. E il conformismo è tirannia». Aggiunsi: «L’esaltazione della vita in sé per sé è l’ennesima idea fissa da cui liberarsi per essere padroni di se stessi. Il corpo è uno strumento, mentre la volontà nasce, cresce, si dissolve nell’eterno divenire. Il puro non teme la morte perché non teme la propria natura.»

«E se le dico che la vita è un dono?»

«Un dono di chi? Di Dio? Dei genitori? Dello Stato? Donare significa dare senza niente in cambio. Qui invece tutti pretendono!»

«Eretico!» ragliò Manganello.

«È della Sacra Inquisizione?»

«Sevizia è molto più raffinato!».

Evitai di proseguire su quel crinale e tornai alla ribellione: «Quale reazione etica a un atto o a una condotta ingiusta, essa è il momento in cui il pensiero diventa azione. L’iniziato-refrattario si trova improvvisamente solo, fragile, ma è vivo e reattivo. Decidete di non servire più e sarete liberi sanciva Etienne De La Boétie per sottendere come la scelta fosse individuale. E consiste nel decidere di distruggere l’autorità in un antagonismo incessante fra potere e libertà. L’autonomia si conquista con una reazione che assume i connotati della resistenza, la più rara e coraggiosa delle virtù , diceva Bernard Shaw, che può essere attiva, cioè di contrasto, o passiva, come opposizione e non collaborazione. Sempre è disobbedienza: rifiuto e reagisco non accettando, non collaborando, non obbedendo al dominio. Disobbedienza che Bernard.»

«Molto didascalico!»

«Grazie!»

«Prego!»

«Non c’è di che!» Proseguii: «La forma classica è la disobbedienza civile. Consiste in una protesta, di solito non violenta, in reazione a un atto, fatto, decreto ingiusto. Lo Stato mi dice di pagare le tasse? Io non le pago perché non voglio contribuire al suo malaffare. Lo Stato mi ordina di fare la guerra? Io divento disertore perché uccidere è contro natura. Lo Stato mi impone il consumismo per favorire banche e capitale? Io sviluppo un’economia sostanziale con persone che la pensano come me.»

«Ma lo Stato non sta certo a guardare!»

«La disubbidienza non si realizza con lo scontro frontale col Potere, ma vivendone alla larga. Agendo come se non esistesse. Ignorandolo.»

«Mi pare che trascuri un’evidenza e cioè che lo Stato deve fare lo Stato e i cittadini devono fare i cittadini!»

«Ma i cittadini sono individui. Possono decidere per se stessi senza dover obbedire a leggi che li danneggiano, fatte da uomini che disprezzano, per un’autorità che non riconoscono!»

«Chiacchiere!». Il PM sbottò. «Sa meglio di me che le persone sono bastarde. Qualcuno dovrà pur impedire la loro bastarditudine!»

«Bastarditudine?» ripetei. «La bastarditudine, come la chiama lei, si fonda sull’ideologia del dominio in cui il più forte domina il più debole per conseguire un interesse. Per questo l’anarchia nega la proprietà e la conseguente accumulazione. Essi sono l’antefatto di ogni male e soltanto un uomo libero dalla materialità può essere se stesso senza bisogno di sopraffare il prossimo e il mondo. Ribadisco: il cambiamento è culturale, mentale se preferite, prima ancora che pratico! La disubbidienza deve essere etica, mai utilitaristica. Chi non rompe le catene si rende complice dell’ingiustizia1. Non basta ribellarsi all’iniquità, bisogna negare la causa. Se mi oppongo al capitalismo senza rifiutare l’ideologia del profitto i miei sforzi verranno dissolti dall’omologazione collettiva e inevitabilmente tornerò a essere un suo ingranaggio. Allo stesso modo, se violo la norma ma non rifiuto lo Stato, cioè non creo un sistema alternativo a esso, dopo aver trasgredito una volta dovrò farlo ancora e ancora e così all’infinito. È inutile tagliare le teste dell’Idra quando so che si rigenerano! Finché si continua a vivere nella società del dominio, la rivolta sarà sempre un inganno consolatorio.»

«Dopraho, se arrivasse al punto magari…!»

«Ci sono!» dissi. «L’obiettivo è sviluppare organizzazioni che sostituiscano la coercizione e gradualmente esautorino il Potere. E la comunità anarchica, garanzia di orizzontalità, comunione e solidarietà, è l’unico strumento che offre un’alternativa concreta che eroda risorse, strutture, potenzialità alla sua tirannia. A quel punto esso sarà un castello di carta e basterà un soffio perché si…»

«Ha finito?». Pottutto mi interruppe.

«No!» gli risposi.

 

NOTE

 

– 1 Thoreau sosteneva che essa nasce da una domanda: come deve comportarsi un uomo oggi nei confronti di questo governo? Si riferiva a quello degli Stati Uniti che imponeva i tributi per sostenere le guerre o la schiavitù, ma l’interrogativo vale sempre. E rispondeva asserendo che il cittadino non può obbedire quando ciò gli reca disonore: tutti gli uomini riconoscono il diritto alla rivoluzione, cioè il diritto a rifiutare l’obbedienza, e di opporre resistenza a un governo, nel caso in cui la sua tirannia o la sua inefficienza siano gravi e intollerabiliSe nego l’autorità dello Stato, entro breve esso si prenderà e distruggerà tutti i miei beni tormentando in tal modo me e i miei figli all’infinito, tuttavia mi costa meno, in ogni senso, incorrere nella pena precisa per la disobbedienza allo Stato, di quanto mi costerebbe obbedire. In questo caso mi sentirei come se valessi di meno. Ecco perché: desidero semplicemente rifiutare obbedienza allo Stato, ritirarmi e starne completamente alla larga. In H. D. Thoureau, Disubbidienza civile, ivi.

– 2 Lev Tolstoj, Il rifiuto di obbedire, ivi.

 

 

 

 

4.5–RIBELLIONE: OLTRE LA DISOBBEDIENZA. IL NON AGIRE DIVENTA COMUNITARIO

 

«Prima di parlare della comunità, mi soffermo velocemente su alcune delle molteplici forme di disobbedienza civile».

«Velocemente quanto?»

«Il necessario.»

«Troppo!»

«Disobbedire è fondamentale sia a livello personale in quanto consente di maturare la consapevolezza di essere padroni di se stessi, sia a livello sociale, poiché agisce alla radice. Ma non è la soluzione definitiva. Non lo è perché se esercitata individualmente porta a emarginazione, se collettiva, invece, dopo l’imponente impatto iniziale, si scompone e si disperde per mancanza di omogeneità ideologica e pratica. Non lo è anche perché essendo diretta a modificare o eliminare specifici aspetti o singole norme, non si pone come possibilità antagonista, ma vuole trasformare o riformare. Un’accettazione implicita dell’autorità che determina l’inevitabile instaurazione di nuove forme di dominio. Per questo, ribadisco, il sistema non si cambia, si ignora creandone un altro fondato su principi diversi.»

«Mediare no, eh?»

«Mediare è un’ottima soluzione quando si ha da perdere. Ma qui è in gioco la dignità. La bestia non reagisce alle botte del padrone perché ha paura che picchi ancora più forte. Pensa a sopravvivere. Noi vogliamo vivere. E possiamo farlo soltanto essendo noi stessi. Ecco perché la disobbedienza spesso viene esercitata contestualmente a pratiche insurrezionali. Ma andiamo per gradi: il primo passo è il non agire di Godard.»

«Scriva, Manganello: Codard!»

«In quale altro modo poteva chiamarsi!». Il maresciallo lo compiacque. E a me: «Nome?»

«Philippe.»

«Morto anche lui?»

«Per ora è vivo e vegeto!». Colsi una luce sinistra nei loro sguardi: «È francese!» precisai.

«Ah, francese?». Il PM corrugò la fronte. «Ha mica il suo numero di telefono?»

«No» dissi. «A cosa le serve, se posso…?»

«Ovvio: per chiamarlo e chiedergli di venire in Italia. Così lo arrestiamo!».

Mi complimentai per la strategia.

«Se ricorda, ho accennato alle sue teorie quando ho definito la democrazia come la forma più compiuta di dittatura scientifica. Contro il dispotismo dei sapienti, egli propone di non agire, cioè smettere di lavorare per il progresso. In questo modo si interromperebbe l’afflusso di profitti che alimenta la distruzione del pianeta e lo sfruttamento delle comunità umane. La sua proposta consiste nel cessare di agire contro la natura e rifiutare il progresso per inventare un’esistenza diversa1. Laddove Goodman suggerisce di tracciare un limite in continuazione, Godard consiglia di tirare una linea e ricominciare con nuovi valori.»

«Scommetto questa barretta di cioccolato» Intervenne il magistrato prima di papparsela con un solo boccone, «che c’è un però!».

«Il principio è sacrosanto. Ma è efficace solo se la scelta diventa fusione di volontà. Senza fratellanza la non azione o resistenza passiva, come invece la definisce Emile Armand, manca di forza. I suoi sostenitori affermano che, se svolta su grande scala, cioè con un movimento studiato, premeditato, deciso individualmente, possa inibire l’azione dello Stato2. La realtà insegna invece che verrebbe disintegrata all’istante dalla sua violenza. Perché sia efficace occorre che il livello si elevi dal personalismo e diventi unione di volontà. Che sia viva e praticata. Che gli individui si uniscano per creare strutture omogenee, autonome e indipendenti dal Potere.»

«Me ne vuole indicare qualcuna?» chiese Pottutto.

«Le interessa davvero?»

«Al pranzo della domenica mi piace citare gli aneddoti dei miei inquisiti!»

«L’alternativa esiste e si concretizza nella pratica quotidiana con uno slancio che costruisce spazi di libertà in cui esprimersi attraverso comunità federative, condivise, solidali, che…»

«Che fanno quello che vogliono!»

«Bravo Manganello, autonome. Ma anche volontaristiche, autogestite, indipendenti e mutualistiche. È una svolta straordinaria. Il punto da cui partire per un cambiamento concreto. In questo modo si può dar vita a quell’alternativa che non solo cancelli l’ingerenza autoritaria, non solo abbia scopi e metodi autonomi, non solo favorisca le potenzialità individuali, ma si sviluppi come società altra attraverso la creazione di molteplici entità antigerarchiche coordinate fra loro. Un raggruppamento di individualità che operino sinergicamente sottraendo funzionalità al Potere. La naturale evoluzione della resistenza passiva è la rivoluzione silenziosa di Colin Ward…3»

«Colin come colino?» chiese Manganello per i suoi appunti.

«Ma non basta!»

«Non basta?»

«Non basta!»

«Certo che lei non è mai contento!» chiosò il pubblico ministero.

 

NOTE

 

– 1 Philippe Godard, Contro il lavoro, invi.

– 2 Armand afferma che la resistenza passiva è un atto di ribellione o un insieme di azioni insurrezionali che si estrinsecano non per mezzo di manifestazioni di piazza, né con la sommossa, né con la lotta armata. Ripudiando al contempo ogni metodo violento fondato sull’eccitazione superficiale e passeggera delle moltitudini, propone quindi di innalzare barricate, astenersi da ogni attività, da ogni lavoro, da ogni funzione che implichi il mantenimento o il consolidamento di un dato regime imposto, rifiutarsi di pagare delle imposte o delle tasse destinate al funzionamento delle istituzioni. Prosegue con altri esempi: si può rifiutarsi di utilizzare come professori o come medici coloro che sono tali soltanto grazie a un diploma ufficiale. Oppure si può rifiutarsi di rispondere ai commissari, ai giudici, ai magistrati delle assise, e così via. Tutte condotte che, se svolte su grande scala, cioè con un movimento studiato, premeditato, deciso individualmente, inibirebbero la reazione dello Stato: che potrebbe fare contro questo sciopero silenzioso, ma deciso, contro questa astensione? si chiede. Da Emile Armand, Iniziazione individualistica anarchica, ivi.

– 5 Colin Ward, Anarchia come organizzazione, ivi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

4.6-RIBELLIONE: INSURREZIONE E ALTRE FORME DI AZIONE DIRETTA

 

Pottutto chiese a Manganello di portargli un cappuccino.

Il maresciallo uscì senza fiatare. Pochi secondi e rientrò per avvisarlo che il latte era finito.

«Allora caffè!»

«La macchinetta dà solo tè all’ibisco…»

«Lasci perdere, ho la pressione bassa di mio!». Il PM replicò stizzito. Dalla solita tasca della giacca estrasse una moka e un fornellino elettrico. Accese e la fissammo in silenzio finché non cominciò a fischiare.

«Senti che profumo!». Riempì la tazzina sua, quella del maresciallo. «Lei ne vuole?» chiese a me.

Lo gustammo come tre vecchi amici al bar. Dopo di che mi domandò se volessi fare qualche nome. Gli risposi «Più tardi!». Replicò un laconico: «Tanto lo sapevo!».

Ricominciai a parlare: «C’è un momento in cui il ribelle capisce che non basta disertare, che il sopruso può cessare solo quando si annienta la fonte che lo determina. A quel punto si presentano due soluzioni non necessariamente antitetiche: creare una realtà alternativa ed elusiva, l’underground, oppure ricorrere all’insurrezione. Approfondirò la prima fra un po’. Due parole sulla seconda. L’insurrezione è quell’azione che si compie attraverso una protesta violenta e decisa con lo scopo di minare il sistema e imporre il cambiamento mediante scontri asimmetrici, tipo la guerriglia, e psicologici, tipo il terrorismo.»

«Insurrezionalisti!» gorgogliò Manganello.

«Non solo!» replicai. «Perché sicuramente queste azioni producono un bell’effetto scenico, ma hanno scarsa sostanza… Anche se riconosco che sono un bel palo in culo al Potere!»

«Ora basta parolacce, Dopraho!». Manganello sobbalzò indignato.

«Perché potete dirle solo voi?» lo punzecchiai.

«Noi usiamo queste». Indicò le mani. «Non la bocca!». Poi fissò Pottutto in attesa di una sua reazione.

«Prosegua!»

«Il ribelle è sempre un insubordinato perché l’insubordinazione consiste nel non sottomettersi all’ordine a cui si dovrebbe obbedire. Si può assimilare alla disobbedienza, benché più reattiva. In cuor suo, ogni anarchico è un insubordinato!»

«Qui la volevo!» Il magistrato bramì soddisfatto. «Manganello, aggiunga l’insubordinazione!» esclamò roboante. «Beh, che c’è?» rivolto a me. «Dovrebbe dirmi grazie. Guardi che bel curriculum le ho preparato?». Sventolando ancora il capo d’imputazione.

Lo assecondai e ripresi: «Non è però un no che cambia le cose. Al rifiuto devono seguire azioni che destabilizzino il Potere. La prima che mi viene in mente è il boicottaggio. Sapete come è nato il nome? Nell’Irlanda del XIX secolo viveva un proprietario terriero di nome Boycott. Era un tipo moderno che amava sfruttare i propri lavoratori. Così essi decisero di inscenare un’azione non violenta nei suoi confronti. I vicini di casa non gli parlavano, se entrava in un negozio fingevano di non vederlo, in chiesa evitavano di sedergli accanto, cose di questo tipo. Insomma, venne così preso di mira che alla fine fu costretto ad abbandonare il paese.»

«Più che boicottaggio, mi sembra bullismo!» esclamò Pottutto.

«Ma a fin di bene!» replicai. «Oggi con il termine boicottaggio s’intende quell’azione di disturbo dai connotati prevalentemente economici realizzata nei confronti di un’azienda. Consiste nel non comprare o nell’ostacolare l’acquisto dei prodotti, colpendola nell’unica cosa che le preme: il profitto. Detta così può sembrare una goliardata. Vi garantisco invece che è molto efficace. Ed è pure etica perché trafigge al cuore sia i principi su cui si fonda il capitalismo, sia la democrazia che lo tutela.»

«Riecco il comunista!» grugnì Manganello.

«Gli anarchici rifiutano la legge del più forte, non negano lo scambio. Il commercio è un fenomeno naturale anche in un sistema di relazioni fra comunità autogestite, dove però prevalgono i principi della solidarietà, del minimo necessario, del dono, della reciprocità. E il benessere è naturale, mai artefatto1. Per questo l’anarchia è autarchica, orizzontale, solidale, e non le interessa appropriarsi del capitale. Vuole distruggerlo quale causa di divisione per produrre solo ciò che è necessario. Questo le sembra comunismo?» chiosai la digressione economica. «Tornando al boicottaggio, ne riconosco l’efficacia a breve termine. Nel medio tuttavia non impedisce allo Stato di intervenire a favore dell’impresa danneggiata e ripristinare lo status quo. Occorre pertanto che tale azione sia rafforzata da condotte più incisive…»

«Tipo?»

«Tipo il sabotaggio. Quell’azione solitamente diretta ad arrecare un danno sia per riequilibrare le posizioni durante una negoziazione, sia come strumento di lotta per rivendicare diritti. Presente il luddismo?2»

«Conosce questo luddismo, Manganello?»

Il maresciallo sollevò gli occhi e quando li riabbassò: «L’ho visto una volta, ma solo di sfuggita!»

«Il luddismo fu un movimento di protesta operaia del XIX secolo sorto quando l’introduzione del telaio meccanico provocò un abbassamento del salario e l’incremento della disoccupazione. Si va dal più moderato ostruzionismo, allo sciopero, al rallentamento di attività economiche e civili, alle più cruente espressioni di rappresaglia come le manomissioni, i danneggiamenti, le distruzioni di strutture pubbliche o private o infrastrutture…»

«Uh, quante belle cose!», mi interruppe il maresciallo. «Prima di proseguire, però, mi consente di…». E al PM: «Posso chiamare Sevizia? Vista l’ora non vorrei finisse il turno senza…?».

Parlò con il corpo di guardia, l’infermeria, il deposito e la palestra. Tutti posti in cui era stato avvistato. Poi trillò il telefono.

«Pronto?» rispose Pottutto. «Buona sera Spaccafegato. Ha chiamato il suo collega Manganello per sapere dov’è l’agente Sevizia… No, non le ho chiesto del maggiore Sparo… neppure del sottotenente Legnata!». Qualche secondo di attesa e: «Perfetto, la ringrazio. Gli comunichi di passare da noi quando ha finito. Arrivederci!». Attaccò. «Finalmente uno sano!» Riferendosi all’interlocutore. E a noi: «È impegnato con un cinese. Pare che sia una cosa lunga perché quello non spiccica una parola di italiano!». Poi a me: «Cosa diceva del sabotaggio?»

«Del sabotaggio?»

«Di quello parlava!»

«Giusto!». Schioccai le dita. «Stavo dicendo che, se unito al boicottaggio e soprattutto alle tecniche di guerriglia, logora l’avversario. Quest’ultime invece consistono in attacchi continui e rapidi, l’arte di fiaccare il nemico con mille piccole punture a spillo, come li chiamava Mao Tze-Tung. Si tratta di un complesso di azioni adattabili alla flessibilità delle organizzazioni anarchiche consentendo a ogni cellula di decidere autonomamente e, sul campo, di sfuggire alla rappresaglia. Inoltre, non implicando un movimento di massa, non generano effetti collaterali e stimolano la partecipazione. La controindicazione è sempre la solita e cioè che non cancellano né eludono l’ordine costituito che può riorganizzarsi e diventare più repressivo di prima. Più efficace, invece, è l’occupazione di fabbricati, scuole, terreni, imprese e eccetera» ripresi.

«Ah ah!» starnazzò Manganello. «Fa tanto il superiore, ma alla fine anche voi quando c’è da prendere…!»

«Occupiamo siti solitamente in stato di abbandono, dismessi, a volte anche fatiscenti e li restituiamo a nuova vita per svolgere attività sociali, ludiche, incontri, riunioni, ma anche economiche, di intrattenimento e via discorrendo.»

«Tanto poi vi facciamo sgomberare!»

«Vero. Ma può capitare che la nostra resistenza prevalga. E così vi rivediamo in borghese al mercatino dell’artigianato la domenica. La divisa vi rende un corpo di scherani che considerano i cittadini carne da manette e da prigione e fanno della caccia all’uomo la principale fonte di occupazione3. Sotto sotto però siete dei bravi ragazzi!»

«Ahimè, siamo umani anche noi!» sospirò Manganello.

«Può capitare di occupare anche aree, diciamo così, più istituzionali come fabbriche o sedi di imprese. Ma sono per lo più azioni dimostrative. L’esempio forse più famoso è la Zad, o più propriamente zona da difendere. Si tratta di stanziarsi in un territorio per impedire l’edificazione di grandi opere. Com’è avvenuto per Notre Dame Des Landes vicino Nantes nel 2008, dove gli occupanti si opposero alla costruzione di un aeroporto e svilupparono al suo posto una comunità anticapitalista, ambientalista e autogestita. Qualcosa di simile è stato realizzato anche in Val Susa per contrastare la realizzazione della linea ad alta velocità. Ma dalle nostre parti chi parla di diritti e libertà vola dalla finestra o va in prigione per terrorismo.3»

«Dovrei ridere?»

«Una volta occupato il sito, la comunità si autogestisce. Autogestirsi significa autogovernarsi, cioè governarsi autonomamente. Determinarsi senza l’intermediazione dell’autorità in maniera solidale e federalista5. È partecipazione faccia a faccia, mediante un confronto continuo finalizzato a realizzare l’interesse comune. Non c’è un’autorità che decide chi, come e perché. Ciascuno contribuisce agli obiettivi condivisi secondo le sue capacità e le sue forze e…»

«Mi perdoni, ma sul terrorismo non dice nulla?». Pottutto mi incalzò famelico.

«L’anarchia ha abbandonato certe pratiche. Non ha bisogno di creare terrore nella collettività per destabilizzare l’ordine.»

«Nessun attentato, rapimento, strage?»

«No!»

«Suvvia, non faccia il modesto!»

«Che le devo dire?» sbuffai. «Se con terrorismo intende un atteggiamento che vuole realizzare un’idea in maniera radicale, dico che siamo terroristi in quanto realizziamo la nostra idea di mondo. Se invece significa violenza che crea terrore colpendo innocenti indiscriminatamente, sottolineo che è una pratica vile che ripudiamo categoricamente sia perché l’individuo è intangibile, sia perché una società libera non può essere l’imposizione di un ordine nuovo al posto di quello vecchio6

«Vuol farmi credere che non ha mai fatto esplodere una bomba?»

«Ma che discorsi, certo che l’ho fatto!»

«Ora confessa!». Pottutto tirò una gomitata ingalluzzita al maresciallo.

«Come potrei rinunciare alla bomba di Maradona per i botti di capodanno?».

 

 

NOTE

 

– 1 Le merci che produciamo sono fatte perché ne abbiamo bisogno: lavoriamo per il benessere dei nostri simili, nonché per il nostro e non già per un astratto mercato, di cui non sappiamo nulla e che non possiamo in alcun modo controllare, diceva Morris nel suo meraviglioso Notizie da nessun luogo. Così in William Morris, Notizie da nessun luogo, 1890.

– 2 Luddismo, la prima fase del movimento operaio britannico (primi decenni del sec. XIX), caratterizzato da reazioni violente contro l’introduzione delle macchine e la conseguente disoccupazione.

– 3 Errico Malatesta, Al caffè, 2010.

– 4 Nel primo caso faccio riferimento all’anarchico Giuseppe Pinelli, precipitato da una finestra della Questura di Milano nella notte fra il 15 e il 16 dicembre del 1969. Nel secondo a Maria Soledad Rosas e Edoardo Massari, arrestati insieme a Silvano Pellissero il 5 marzo 1998 con l’accusa di essere membri del gruppo terroristico dei Lupi Grigi, poi suicidatisi in carcere. Pellissero, invece, venne assolto.

– 5 Come dice Antonio Senta, per superare lo Stato è necessario creare esperienze di autogestione, allargare la sfera della cooperazione umana non statale, basata sulla reciprocità e non sul profitto, sul dono e non sul valore. Dare cioè vita a innumerevoli forme di democrazia diretta, assemblate, decentrate, collegate fra loro in senso federalistaUn metodo organizzativo del vivere sociale innanzi tutto etico, in quanto rifiuta il comando e si esplica in senso non gerarchico, attraverso una pratica collaborativa, solidale e paritaria. In Antonio Senta, Premesse del curatore in P. Kropotkin, L’anarchia, 2013.

– 6 Paul Goodman, Individuo e comunità, ivi.

 

5- LA COMUNITÀ

 

«Mi perdoni» intervenne Pottutto. «Non è che quello che lei chiama dominio da un giorno all’altro fa le valige, saluta tutti e se ne va. Una rivoluzione dovrete pur farla?»

«Sarò più chiaro: la rivoluzione non serve a niente. Il Potere vince sempre perché ha l’interesse, il denaro, e i mezzi per potersi rigenerare. Soprattutto in epoca di sonnambulismo tecno-consumistico, dove l’indifferenza edonistica consente il moltiplicarsi delle pratiche arbitrarie» dissi. «Bisogna lavorare ai fianchi perché le gambe dell’avversario cedano. Fuor di metafora, occorre sovvertire la superstizione per cui l’autorità è condizione necessaria allo svolgimento delle ordinarie funzioni sociali: l’individuo deve essere autocrate di se stesso perché una vita da subalterni è una vita sprecata!».

Manganello sollevò lo sguardo per soffiare un epigrafico: «Boh!».

Pottutto se ne accorse e: «Può rispiegare, che il maresciallo non ha capito?»

«Certo che ho capito!»

«Allora che ho detto?» lo stuzzicai.

«Per cortesia, non ci si metta anche lei!». Il PM mi stoppò.

«Nelle persone alligna una sorta di ipnosi collettiva1, come diceva Tolstoj, per cui sembra che senza qualcuno che decide per loro sia impossibile organizzare una vita comune…»

«E voi volete risvegliarle con la rivoluzione!»

«Rivoluzionari!» squittì Manganello.

«No. La rivoluzione guarda le masse, noi le libere coscienze. Nietzsche diceva che la massa è il trionfo della mediocrità dove l’individuo spersonalizzandosi perde la capacità di agire autonomamente e ha bisogno di un leader carismatico che dica cosa fare. Essa si crogiola nell’uniformità, anche se è sovversiva. Quando Bakunin, Malatesta, Kropotkin e così via auspicavano la rivolta, non intendevano il gregge belante, bensì l’unione degli individui. Perché solo il singolo può avere coscienza di sé e agire autonomamente per il proprio benessere. Un’unione che si raggiunge sviluppando attitudini, sensibilità, consapevolezza attraverso il dialogo. Un confronto di uomini puri, cioè liberati dagli ingranaggi mentali, che realizzano scopi condivisi attraverso la partecipazione personale.»

«Voglio proprio vedere come fate se le persone non si mettono d’accordo neanche…?»

«È vero. Le persone sono egoiste. Ma sono egoiste perché nella società del dominio l’egoismo è una virtù. E lo saranno finché continueranno a identificarsi nel profitto. Quando dico che l’anarchia è innanzi tutto una scelta etica mi riferisco non solo al rifiuto di ogni forma di autorità, ma anche alla possibilità di concepire la propria persona e le relazioni sociali e con l’ambiente in un’ottica completamente diversa da quella a cui siamo stati abituati. L’uomo deve smettere di pensare e agire in termini di guadagno, debolezza che lo porta a lottare con l’esistenza, per immergersi nell’esperienza dove godere della partecipazione al tutto. Capito che il profitto nega il sé e che il dominio è una gabbia, la vita semplice è la via maestra per l’antiautoritarismo. Un’esistenza disintossicata dal perseguimento degli interessi materiali ogni qual volta essi ostacolano il godimento della naturale sostanza delle cose. E quando si è puri, donarsi diviene un atto spontaneo.»

«Che sintetizzando significa…?»

«Significa che quando l’individuo capisce di essere determinato dalle idee fisse e schiavizzato dal profitto, può riscattarsi in due modi: suicidarsi se non ha sufficiente volontà ribelle», sorrisi beffardamente, «o realizzare la propria personalità unendosi ad affini consapevoli che essa si manifesta in armonia col tutto. Questa unione di affratellati da una società cosciente e voluta è la comunità anarchica.»

«Le ricordo che i figli dei fiori si sono estinti cinquant’anni fa!»

«Il paragone non mi sembra appropriato!»

«Dice?»

«Direi proprio di sì!»

«E allora perché tiene la camicia aperta?».

Feci finta di nulla: «Dopo due secoli di insurrezioni fallite, di supplizi fisici e morali, di emarginazione sociale, gli anarchici hanno capito che l’anarchia non si realizza risvegliando le masse, ma attraverso un cambiamento cosciente che porti alla costituzione di infinite comunità quanti sono gli obiettivi, con regole condivise, orizzontali e solidali.»

«La solita vecchia strategia dell’unione fa la forza!»

«Ci si associa per proteggersi dalla tirannia o per vivere l’alternativa al conformismo. Ci si associa per realizzare interessi comuni, discussi e deliberati consensualmente. E non c’è associazione senza accordo fra uomini liberi. In luogo delle leggi porremo i contratti, preconizzava Proudhon2. Gli affini si trovano e decidono insieme. Stipulano un vero e proprio contratto.

«Maresciallo che fa, mangia durante l’interrogatorio?». Pottutto stordì Manganello con una spintarella. «Dia a me!». Gli sequestrò lo snack. «È quello col caramello filante dentro?»

«Ci sono anche le noccioline.»

«È buono?»

«Buono assai!»

«Non ci credo!»

«Glielo assicuro, dottore!».

Per accertarsi che dicesse la verità, pappò anche quello.

«Siete tipo separatisti?» mugolò pulendosi i denti con l’unghia del mignolo.

«Lo sapevo che erano separatisti. Come quelli spagnoli…». Manganello cercò il suo l’ausilio: «Com’è che si chiamano?». Poi gorgogliò esaltato: «Siete dei separatisti bergamaschi!»

«Sì, i famosi separatisti bergamaschi!» lo dileggiò Pottutto. «Baschi, maresciallo. Sono i separatisti baschi!»

«Non siamo separatisti!» affermai laconico. «I separatisti vogliono sottrarsi alla sovranità politica e territoriale dello Stato per crearne uno proprio. Gli anarchici, invece, non riconoscono la sua autorità tout court. Non vogliono costituirne una identica, vogliono vivere senza che qualcuno o qualcosa decida per loro.»

«Indipendentisti?»

«No!»

«Un po’ rompicoglionisti, però…!»

«Il cambiamento è una metamorfosi, non una trasfigurazione. Costituita una comunità ne sorgeranno dieci, da dieci mille, da mille infinite. Comunità permanenti e libere che non interagiscono con i sistemi economici, sociali o politici. In cui ogni uomo ha la libertà di fare tutto quello che vuole, a patto che non violi l’eguale libertà di ogni altro uomo. A quel punto, sentendosi accerchiato, il Potere reagirà, ruggirà, scalcerà come l’animale ferito che sa di dover morire. Oppure, per evitare la propria dissoluzione, cesserà la repressione e accorderà il diritto di separazione. Sarà l’inizio di una nuova epoca…». Sospirai. «Nel frattempo, non rimane che sovvertire il visibile con l’invisibile. Anche nell’ombra la gemma diventerà fiore, il fiore un albero, l’albero una foresta che restituirà respiro a un mondo ormai arido…»

«Leopardi?» chiese il pubblico ministero.

«Leopardi?».

Seguì qualche secondo di silenzio cosmico.

 

NOTE

 

– 1 Le Tolstoj, Il rifiuto di obbedire, ivi.

– 2 Perché l’idea di contratto esclude quella di governo, in quanto, fra parti contraenti v’è, necessariamente, un autentico interesse personale per ciascuna, mentre, fra governante e governato, invece, qualunque sia il sistema di rappresentazione, o delega della funzione governativa, v’è necessariamente un’alienazione di parte della libertà e dei mezzi del cittadino. Così in .P.J. Proudhon, L’idea generale della rivoluzione, 1865.

 

 

 

 

5.2 COMUNITÀ: CLANDESTINA

 

«Adesso però mi faccia qualche nome… Per favore!»

«No!»

«Neanche se spuntassi alcuni reati dal capo di imputazione?»

«No!»

«Le posso togliere l’invasione di terreni e edifici pubblici, il vilipendio alla bandiera, il furto di cadaveri…»

«Il furto di cadaveri?»

«Preferisce l’evasione fiscale!»

«Evasione fiscale?»

«Anche quella è nel capo d’imputazione.»

«Ma dottore, come pretende che paghi le tasse a uno Stato che non riconosco?»

«Non mi sembra una grande tesi difensiva!»

«Allora niente nomi!»

«Le concedo le attenuanti generiche. Okay?» rilanciò.

«Non sono a caccia di clemenza!» dissi. «Facciamo così: finisco, poi decido.»

«Che aspetta?»

«Ho detto che il Potere si fonda sulla proprietà e usa la legge e le istituzioni per mantenere e accrescere i propri privilegi. La comunità anarchica, sostituita la prima con la comproprietà e rifiutato il profitto, crea proprie regole e propri organismi di autogestione per impedire ogni ingerenza esterna e il ripristinarsi di forme di autorità. Ma perché possa autogovernarsi nella società del dominio senza rischiare la repressione o l’isolamento deve operare in clandestinità attraverso un reticolo di entità che si sviluppino e crescano sfruttando il sistema come le piante rampicanti fanno col sostegno. Dopo tutto, se esso ci usa, usarlo si chiama reciprocità!». E cambiando tono: «Avete mai sentito parlare del Madagascar?»

«Mio figlio Dilanio lo guarda in continuazione!1». Manganello si infiammò.

«Non il cartone animato!»

«Maresciallo, perché non fa un altro disegnetto?» anche Pottutto lo richiamò.

«Ne parla il filosofo Graeber in un libro in cui racconta l’esperienza vissuta in quel paese. Dice che dopo le rivoluzioni di metà anni Settanta, lo Stato non era più presente nelle campagne. Le comunità rurali si autogovernavano, nessuno pagava le tasse e la polizia era assente. E quando i contadini andava in città per sbrigare qualche pratica burocratica, i funzionari stavano al gioco per evitare la loro resistenza passiva2».

Restituii il foglio.

«La comunità è quindi clandestina quando si organizza in maniera autosufficiente dissimulandosi fra le maglie del dominio» dissi.

«Ma qui siamo in Italia. È impossibile che…?» bofonchiò il PM.

Non lo feci neanche finire: «Mi dia retta!». Appoggiai confidenzialmente la mia mano sulla sua per fargli intendere che non si trattava di possibilità.

«Non ci credo!»

«Si fidi!»

«E dove?» domandò Manganello appoggiando la sua sulla mia.

Ruppi il castello di mani perché era sudaticcia.

«La resistenza si realizza ovunbque le volontà individuali si sostituiscano alla dipendenza economica e all’assoggettamento politico. Soluzioni e metodi sono già stati rivelati dai pensatori che ci hanno preceduto. È sufficiente far tesoro e applicare i loro consigli!»

«Che sarebbero?»

«Che sarebbero?» ripetei. «Ad esempio non mettere il parmigiano sugli spaghetti allo scoglio!». Improvvisai la prima assurdità che mi venne in mente. «Studiate. È un ottimo esercizio spirituale. E meditando meditando, magari troverete la risposta!».

Il pubblico ministero mi fissò interlocutorio senza controbattere.

«Siamo al punto di non ritorno e non è più consentito sbagliare» dissi. «Dobbiamo ascoltare l’istinto e agire con ragione…»

«Ascoltare l’istinto… Tipo una vocina che le parla?». Pottutto mi interrogò grattandosi la barba.

Esagerai: «Che parla a tutti gli uomini di buona volontà!»

«E le dice di fare il sovversivo?». Batté furente le mani sul tavolo. «Non mi aspettavo da lei questi mezzucci!» gridò. «Vuole fingersi pazzo per non andare in prigione?».

Lo calmai con un sorriso benevolo: «Non è una vocina, ma un’attitudine morale che guida gli spiriti liberi ad organizzarsi in strutture affrancate dal dominio. Realtà sommerse che con esso non hanno niente a che vedere e di cui esso ne ignora l’esistenza. Una dimensione reale ma, al tempo stesso, occulta e inavvertibile, inafferrabile, impercettibile.»

«Clandestina!»

«Che ignora ed è ignorata dalle regole, i dogmatisti, le fascinazioni della società all’interno della quale si sviluppa… Bravo maresciallo!»

«Grazie!»

«Non c’è di che!» dissi. «Non si tratta semplicemente di lottare contro l’ordine costituito abbandonando l’ambiente, vivendo sotto falso nome o false sembianze. Non abbiamo, infatti, alcuna intenzione di imboscarci o di circolare per strada con parrucche e barbe finte. Vivere in clandestinità significa organizzare un’esistenza underground che ora c’è, domani chissà. Che è qui e lì, che è libera, concreta, efficiente, in cui il fai quel che vorrai dei telemiti di Rebelais si sposa col noi siamo il Parlamento dei londinesi di Morris3 in maniera assolutamente spontanea e senza che i molteplici oppressori se ne accorgano.»

«Come i massoni? Santa paletta, poteva dirlo subito!». Pottutto gorgogliò e con veemenza strappò il capo di imputazione.

«Come glielo devo dire che non siamo massoni?»

Ci rimase male: «Lo ristampi subito!» ordinò a Manganello.

«Diversamente dalle società segrete come la Carboneria, i Cavalieri della Libertà, la Giovine Italia, la P2 e tante altre, la comunità anarchica non ordisce una cospirazione contro il governo… Ci accontentiamo di autogovernarci!» dissi ironicamente. «Ma affinché la comunità sia efficace e intangibile deve essere autonoma, antigerarchica e autogestita, quindi volontaria, funzionale, temporanea e di piccole dimensioni4». Mi presi un secondo. «Aggiungo autogestita, assembleare e federalista. Senza dimenticare…». Puntai il dito verso Manganello.

«Clandestina!» terminò la frase.

«Grande maresciallo!» giubilai. «Visto che se s’impegna, anche lei…!». Strinsi teatralmente i pugni in segno di vittoria.

 

NOTE

 

– 1 Madagascar, Film di animazione della Dreamworks del 2005.

– 2 David Graeber, Dialoghi sull’anarchia, ivi.

– 3 I telemiti sono gli abitanti dell’Abbazia di Thélème, da Francois Rebelais, I giardini di Thélème, 1534. I londinesi dei XXI secolo, invece, sono i protagonisti di W. Morris, Notizie da nessun luogo, 1890.

– 4 Colin Ward, L’anarchia un approccio essenziale, ivi.

 

 

 

 

5.3–COMUNITÀ: TEMPORANEITÀ E DIMENSIONI

 

«Volontarietà significa che ciascuno è libero di costituire, entrare o uscire dalla comunità. La funzionalità è l’obiettivo che persegue. Una volta conseguito, o quando non è più conveniente, niente deve però impedire che l’accordo possa essere sciolto collegialmente o unilateralmente.»

«Tipo se scelgo una comunità che mangia la bistecca e poi divento improvvisamente vegetariano posso…?» guaiolò Manganello.

«Esattamente!» esclamai.

«Non accadrebbe mai. Odio le verdure!» replicò risoluto. «Ricordo che mia nonna era fissata con i broccoli e io…»

«Maresciallo, non ci interessano i broccoli di sua nonna!». Il pubblico ministero lo interruppe. E a me: «Prosegua!»

«Questa si chiama temporaneità. Da un lato favorisce la necessaria dinamicità del gruppo, evita infatti derive autarchiche o pericolose chiusure in sé, dall’altro impedisce quella concentrazione e cristallizzazione di potere che immancabilmente si sviluppa in un rapporto stabile.»

«Ma se la comunità è costituita da un numero limitato di persone, non è chiusa per definizione?». Pottutto rifletté a voce alta.

«Non quanto la società globalizzata in cui chi devia dal pensiero unico viene marginalizzato» rilevai. «È vero che riunisce persone che pensano e agiscono allo stesso modo, ma le continue relazioni fra comunità anche molto diverse fra loro e il federalismo garantiscono pluralismo e progresso. Inoltre le dinamiche di ogni aggruppamento sono inevitabilmente soggette a trasformazioni dovute all’uscita e all’ingresso dei membri che consente di rinnovare gli scopi e cambiare i mezzi, quindi di evolvere i legami di forza creatisi all’interno. Per non considerare questi ultimi che…»

«Non la seguo!»

«Non mi sono mai mosso di qui!» ironizzai. «Immaginiamo che alcuni falegnami che lavorano insieme ricevano la commessa di realizzare l’arredamento di una scuola. Pur operando in un confronto paritario, è probabile che l’esperienza di chi ha sempre creato banchi o armadietti influenzi le strategie comuni. Si verifica così una situazione simile a quella descritta da Jo Freeman con la teoria dell’assenza di struttura, per cui se un gruppo non possiede strutture gerarchiche formali, esse vengono sostituite da quelle informali, creando così un’egemonia di fatto1. Se dopo, però, gli stessi falegnami venissero incaricati di arredare le abitazioni di un quartiere residenziale, cambierebbero i fini, i mezzi e, di conseguenza, anche le competenze. Probabile, infatti, che l’opinione di chi è esperto di arredamenti domestici prevarrebbe su quella di chi ha sempre costruito banchi. Oltre gli agenti esterni e la mobilità interna, anche la dinamicità degli obiettivi impedisce pertanto l’instaurarsi di gerarchie o le armonizza.»

«Dimentica che c’è sempre chi vuole prevalere sugli altri!». Pottutto non si diede per vinto.

«Ci può essere chi ha più carisma, chi ha un’idea migliore e così via, ma quando non si è condizionati dall’antagonistico interesse e l’obiettivo è comune, le decisioni sono naturalmente armoniche. In caso contrario, il falegname può sempre uscire dal gruppo e costituirne uno proprio.»

«E così perde la commessa!»

«Ne avrà altre e sarà contento lo stesso!» dissi. E con una certa esasperazione: «La sua obbiezione parte da un presupposto sbagliato e cioè dal concepire il lavoro come strumento di profitto, anziché di realizzazione del sé. In quest’ottica il falegname sarebbe interessato alle scelte collettive quando gli procurano un guadagno, che perderebbe uscendo dal gruppo. Ma se una società libertaria ragionasse in questo modo, se cioè pensiero e azione fossero determinati dall’utile, nel breve replicherebbe quella del dominio, fallendo i suoi propositi. L’anarchico rifiuta il profitto perché sa che l’accumulazione lo aliena dalla vita. Soddisfatto il minimo necessario, e quando lo realizza il singolo lo realizza l’insieme, il lavoro diventa un’attività conviviale, non necessaria né lucrativa.»

«Si divertirebbe di più se andasse a giocare a bocce!»

«Nessuno glielo impedirebbe. Se però sceglie di lavorare, lo fa perché stimolato dal piacere di realizzare l’interesse comune, non quello personale.»

«E se tutti andassero a giocare a bocce?»

«Probabilmente quella comunità avrebbe ottime possibilità di vincere le olimpiadi di bocce. Ma questo non accade perché la condivisione è un’attitudine innata nell’essere umano che, in assenza di tornaconto, si manifesta spontaneamente tanto nelle attività ludiche quanto in quelle più onerose.»

«Non mi convince… E comunque il più forte prevarrebbe sempre!» perseverò il PM.

«Perché dovrebbe farlo se ha volontariamente scelto di unirsi ad altre persone e con esse ha stabilito cosa fare e come farlo?»

«Perché è nella natura umana!»

«Il dominio è un fenomeno naturale solo per chi possiede i mezzi per dominare. Gli altri ne subiscono la soggezione o lo accettano per indottrinamento. L’anarchico è disinteressato e sa che il bene personale coincide con quello degli affini. Non può essere felice se anche gli altri non lo sono! Per questo i refrattari si uniscono. E, una volta uniti, che senso avrebbe disattendere accordi definiti volontariamente?»

«Perché magari non soddisfano più il suo interesse!»

«Allora non capisce!» sbottai. «Lei ha capito?» guardai il maresciallo.

«Chi, io?» replicò nascondendo gli occhi sotto la ciccia delle guance.

«Ci sono!». Pottutto s’illuminò. «Mi sta dicendo che, rinunciando al profitto, gli anarchici non hanno interesse a inculare gli altri?»

«Magari con un linguaggio meno scurrile, ma sono ore che lo affermo!»

«E siccome del guadagno non gliene frega niente e credono che la società impedisca la libertà, si mettono d’accordo sulla gestione della quotidianità?»

«Precisamente!»

«E lo fanno con un contratto.»

«Discusso, approvato e sottoscritto.»

«E ogni volta che cambiano c’è un altro accordo e quindi un altro contratto?»

«Proprio così!»

«Ora è tutto chiaro!». Il suo sguardo raggiante divenne improvvisamente pensieroso: «Mi perdoni, ma quanto spendono di notaio?»

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«La comunità deve essere anche di piccole dimensioni. Pochi membri che agiscono più o meno territorialmente» dissi.

«Come una tribù?»

«Come una tribù!» confermai. «La territorialità semplifica le cose, non è però esclusa la partecipazione esterna.»

«In che senso?»

«Nel senso che per essere membri di una comunità non occorre vivere nel solito posto.  Posso risiedere a Napoli e appartenere a una comunità che opera a Prato. L’importante è che partecipi alle sue attività.»

«Accidenti Dopraho, tutti i giorni avanti e indietro, non vorrei essere la sua auto!» improvvisò Manganello.

«Suvvia maresciallo, se prima ha detto che non ce l’ha, significa che va a piedi!» lo corresse Pottutto.

Sospirai rassegnato.

«mi vengono in mente quattro i motivi per cui una comunità deve essere di piccole dimensioni. In primo luogo perché è più semplice organizzarsi. Dalla partecipazione diretta, ovvero la discussione e la deliberazione delle decisioni comuni, all’autogestione, cioè la disciplina delle attività condivise, alla difesa dalle aggressioni esterne e così via. In secondo luogo perché si evitano pericolose concentrazioni di potere. La massa si divide sempre in fazioni che hanno un interesse divergente rispetto a quello generale. Ciò provoca contrasti o prevaricazioni, non sempre sanabili con il dialogo. Terzo motivo consiste nel fatto che più piccola è la comunità, più facile è che possa agire nell’ombra.»

«La clandestinità?» precisò Manganello come se volesse riscattarsi.

«Esattamente quella… Però adesso basta ripeterlo ogni volta!» dissi. «Sorgendo in un sistema repressivo, la sua conservazione è sempre a rischio. Deve operare eludendo continuamente i controlli e le inibizioni e, se del caso, deve essere pronta alla fuga trasferendosi altrove o ricostituendosi sotto altre vesti. Il quarto motivo, che forse è più un corollario dei primi due, consiste nel fatto che in una comunità di piccole dimensioni il singolo ha maggiore possibilità di realizzarsi. Sviluppa rapporti individuali anziché disperdersi nella sopravvivenza. La partecipazione diretta e senza profitto cancella le differenze personali. Le personalità si valorizzano nel bene comune. Il faccia a faccia diventa dialettica necessaria finalizzata a creare quella micropolitica che imbriglia lo Stato come i Lillipuziani hanno fatto con Gulliver2» chiosai.

Al che Manganello: «E quanto dovrebbe essere grande questa comunità?» chiese. «Così?», posizionando le mani simmetricamente davanti al corpo come se tenesse un pallone da calcio. «O così?», allargandole come se sollevasse un armadio.

Guardai il pubblico ministero sperando nella sua comprensione.

«Non esiste una regola generale quando si parla di anarchia. Dipende dall’ambiente, dagli scopi, dai soggetti, da tutto ciò che può condizionarne la scelta» dissi. «Si procede esperimento dopo esperimento, prova dopo prova, fallimento dopo fallimento. Ogni caso è un caso a sé».

Cominciai a leggere il passo in cui Hakim Bay parla dei guerriglieri nomadi e, prima ancora che finissi, «Ma come scrive questo? Sembra di sentire Ciuccia!» ragliò Manganello.

«Sarebbe?» chiesi.

«Un ubriacone che abbiamo disintossicato qualche giorno fa».

«E ora sta bene?»

«Alla grande. Ha raggiunto la pace eterna».

 

 

NOTE

– 1 Jo Freeman, La tirannia dell’assenza di struttura, 1970.

– 2 Il paragone si trova in: M. Onfray, Il post-anarchismo spiegato a mia nonna, ivi.

– 3 Hakim Bay diceva infatti che gli anarchici sono guerriglieri nomadi che praticano la razzia, sono corsari, sono virus, hanno sia il bisogno che il desiderio delle taz, degli accampamenti di tende nere sotto le stelle del deserto, delle interzone, delle nascoste oasi fortificate lungo segrete piste carovaniere, dei tratti liberati di giungla e della badland, delle aree proibite, dei mercati neri e del bazar sotterranei… In Hakim Bey, Taz zona autonoma temporanea, ivi.

 

 

 

 

5.4– COMUNITÀ: AUTOGESTIONE

 

«Splendido!» tuonò Pottutto dopo aver guardato l’orologio. «Sono le otto e venti e non sono andato al supermercato. Se torno a casa senza spesa, la senti mia moglie!»

«Il pachistano all’angolo è aperto h24!»

«Lasci stare il pachistano!»

«Può sempre regalarle una calamita!» farfugliò il maresciallo.

Dopo una sceneggiata di mani in testa, sbuffi e lamenti, il pubblico ministero alzò il telefono: «Pronto?… Agente Lameno, buonasera. Non è che avete arrestato qualcuno nel pomeriggio?». Tappando la cornetta si rivolse a noi: «Giusto per interrogarlo quelle tre quattro ore e rincasare quando dorme!». Di nuovo all’interlocutore: «Va bene un qualsiasi spacciatore, ladruncolo, chiunque… No? Ma è sicuro? Può verificare? Magari non ci ha fatto caso… Non si distrae mai?… E non s’incazzi, era solo un’ipotesi!… Non ho detto parolacce!… Anche lei si dia una calmata!». Riattaccò e fissò il maresciallo: «Ma li educate o li prendete direttamente così?». Poi guardò me: «Prego, diceva?»

«Stavo descrivendo gli elementi principali della comunità anarchica ed ero arrivato all’autogestione. Ne ho parlato prima, per cui non mi dilungherò. «L’autogestione è la capacità personale di pensare agire in autonomia. L’individuo non ha bisogno di chi gli dice cosa fare. Nel momento in cui rifiuta l’autorità e il profitto, compresa la meschinità di ogni egoismo, è finalmente affrancato dalla perversione della materialità e può identificarsi nel tutto, pensare e agire in funzione della sua armonia. Per il gruppo, invece, autonomia significa condividere, decidere, organizzarsi, pianificare, difendersi, senza l’ingerenza di una volontà esterna. In una parola: autogoverno. Autogovernandosi la comunità sottrae potere al Potere, cioè risorse economiche e umane di cui ha bisogno per la sua conservazione e il suo progresso… Il massimo!».

«Le ho già detto che mi sembra molto teorico?»

«E io ripeto che invece è pratico perché l’equilibrio si rispetta quando ogni cosa assolve il suo scopo naturale. Le faccio un esempio fuor di contesto: i fiumi sono corsi d’acqua la cui funzione è plasmare l’ambiente portandola dalla sorgente al mare. Se edifico un mulino per sfruttare la sua energia, non ne altero l’essenza: esso continua a scorrere e io macino i cereali. Se invece realizzo un impianto idroelettrico per accendere la luce di casa, trasformo le acque correnti in acque ferme rallentando il tempo di ricambio. E in questo modo creo devastanti ricadute sui processi biologici e fisici dell’ecosistema.»

«Vabbè, allora stiamo tutti al buio per salvare gli uccelli!» proferì il maresciallo sarcastico.

«Quando lo scopo è vivere in armonia col mondo, l’individuo non ha bisogno di regole che disciplinano le sue azioni, né di delegare a chicchessia i propri interessi. Lo Stato è un artificio della società del dominio in quanto il più forte ha bisogno di istituzioni per conservare i privilegi, consolidare la propria autorità e legittimare gli arbitri. È il mezzo che impone con la violenza e l’inganno il modello sociale più congeniale al suo utile. Solo quando l’individuo si determina spontaneamente, cioè si emancipa dalle pastoie dell’autoritarismo e condivide la propria autonomia attraverso rapporti personali improntati alla solidarietà, alla reciprocità e all’imprescindibile affinità col mondo circostante, può dirsi realmente libero. E solo nella comunità realizza pienamente se stesso. Per questo l’anarchia è partecipazione, cioè realizzazione della propria personalità contribuendo a un progetto comune in cui ciascuno è protagonista». Tacqui qualche secondo. «Quando una persona obbedisce è ciò che altri vogliono sia. Quando costruisce è se stesso. Scopo della vita è che la volontà esploda in tutta la sua potenza, ma ciò può avvenire soltanto se essa si fonde alle molteplicità in una simbiosi che persegue la naturale armonia».

«Qualche esempio?»

«La Comune di Parigi del 1871, i Soviet ucraini machnovisti, le assemblee di villaggio durante la rivoluzione spagnola del 1936…»

«Perché non le prime congregazioni cristiane!» aggiunse sarcastico. «Torni al presente, per cortesia!»

«Vuole che le parli dello zapatismo e del Rojava?»

«Cos’è, uno yogurt?» grugnì il PM sprezzante. «Mi riferivo alle vostre!»

«Alle nostre?». Ridacchiai. «Diceva delle nostre!» sghignazzai battendo la mano sul tavolo. «Capito maresciallo, diceva delle nostre!». Quasi piangevo dalle risate. Smisi di ridere perché sembravano non apprezzare la mia ilarità.

«Ma se vi auto-governate, significa che nessuno governa. E se nessuno governa, chi governa?». Il PM per primo ruppe il silenzio.

«Dottore, gliel’avrò detto almeno un milione di volte!»

«Lo ripeta per Manganello!»

«Nella comunità anarchica non ci sono leader, né capi. Le decisioni sono prese personalmente, senza delega. Ogni volta si applica quello che Ward definisce principio della lavorazione composta. Presente i minatori?»

«Spiace ma non ne conosco!»

«Prima di entrare in miniera si dividono in gruppi, ciascuno dei quali stabilisce come procedere all’estrazione. Non c’è un capo che organizza il lavoro e non c’è nessuno che comandi all’interno del gruppo. Definita l’attività, ognuno sa cosa deve fare e lo fa nel migliore dei modi. Alla fine si dividono i proventi pro quota e non per mansione. In questo modo ciascuno è responsabile della propria azione e ciascuno ha interesse che il compagno realizzi al meglio il suo servizio. Personalità e solidarietà: questa è anarchia.»

«Mi piace il paragone fra gli anarchici e i minatori!». Manganello gorgogliò.

«Suggestivo, vero?»

«È dove vi metterei tutti… in miniera intendo. E poi puff!» concluse disegnando con le mani un’esplosione.

 

 

 

 

 

5.5– COMUNITÀ: PARTECIPAZIONE DIRETTA

 

«Presupposto fondamentale dell’autogestione è la partecipazione diretta: condivisione delle decisioni ed equa contribuzione alle attività comuni.»

«Il bene comune!» assentì Pottutto.

«Il bene che i membri del gruppo approvano e vogliono conseguire» assentii a mia volta. «E visto che non è lucrativo, le relazioni non sono gerarchiche, come invece avviene nella società del dominio. Nessuno prevale sull’altro e tutti collaborano per attuare i reciproci interessi, aspirazioni, potenzialità.»

«Ma che potenzialità possono avere se non c’è un guadagno?» mi interrogò il PM.

«Perché una persona si realizza solo se lavora per spendere denaro?»

«Quello fanno gli uomini!»

«Perché quello è stato insegnato. Perché quello hanno imparato a fare. Perché l’educazione, la morale, la legge, l’opinione pubblica sono paraocchi che oscurano la personalità.»

«Ma se il cavallo si spaventa io cado a terra!» brontolò Manganello.

«Ma noi non siamo il cavaliere, siamo il cavallo!» replicai. «Non credo che la morte dia molte altre possibilità. Per questo abbiamo il dovere di rendere la nostra esistenza un’opera d’arte. Ciò è plausibile soltanto se riusciamo ad emergere dall’abisso annichilente della materialità e ci immergiamo nella bellezza estatica dell’unità indifferenziata di cui facciamo parte. E, come diceva Benedetto Croce, l’arte non ha niente a che vedere con l’utile!».

Pottutto osservava la pallina di pongo passare da una mano all’altra.

Manganello si scorticava un brufolo vicino alla narice.

Ripresi a parlare: «Affinché la logica del dominio non prevalga sulle buone intenzioni, occorre che le volontà disinteressate si accordino dal basso. Faccia a faccia. Dove ognuno si mostri nella sua veste senza trucchi e senza inganni. Solo così possono svilupparsi rapporti di reciprocità fondati sull’eguale libertà, la base della convivenza anarchica, che trova la sua massima espressione nella partecipazione diretta consensuale.»

«Quel tutti decidono tutto che diceva prima?»

«Quello!» ribadii. «La partecipazione diretta arricchisce l’individuo di capacità e creatività e lo predispone alla solidarietà e alla giustizia. Consiste infatti nella possibilità di decidere personalmente al momento della costituzione, dell’ingresso o successivamente in ordine agli obiettivi, i mezzi, le regole. Chiunque è attore di se stesso e protagonista della vita comune. Perché si è liberi quando si può scegliere il proprio destino, di cui si è responsabili per le scelte fatte. Una partecipazione che è etica civica1, in cui la propria personalità si realizza attraverso la responsabilità verso la comunità».

Al mio perentorio: «Ma non basta!», Pottutto sobbalzò: «Potrebbe evitare questo tono, che mi mette ansia?»

Mi scusai.

«Ma ciò non è sufficiente» dissi più moderatamente. «Perché la partecipazione sia completa occorre che la deliberazione non sia maggioritaria. Ne ho già parlato: la maggioranza è sempre supremazia di qualcuno su qualcun altro, che deve adattarsi pena la sanzione o l’isolamento. La socialità, invece, si esalta quando non è competizione, ma armonia. Non è una gara in cui vince il più forte, ma condivisione di un progetto. Ciò può richiedere più tempo, discussioni più approfondite, anche confronti serrati, ma la sintesi deve essere condivisa e tutti devono sentirsi vincitori.»

«Non c’è bisogno le ribadisca che è impossibile!»

«Anche l’anarchia sembra impossibile eppure, se la temete, significa che è già una possibilità. Sperimentare è nella nostra natura, sbagliare in quella umana. Una volta che si è consapevoli di questo, ogni fallimento è un successo.»

«Ma che sta dicendo?» miagolò il maresciallo al pubblico ministero.

«Fa il filosofo!», questi sussurrò.

«Non lo capisco!»

«Quello fanno i filosofi!»

«Se poi si avvera ciò che dicono, tutti a citarli però!», li sferzai. «E se non si raggiunge l’unanimità, la questione viene abbandonata o rivalutata in un secondo momento, senza fretta. Detto ciò, non è una regola assoluta. Ogni comunità è libera di gestirsi come vuole.»

«Ha già fatto marcia indietro!» sghignazzò Manganello.

«Se i filosofi fossero coraggiosi non parlerebbero!»

«Vi ho sentito!» dissi.

Mi alzai.

«Dove va?»

«Ad agire!». Mi avviai verso la porta: «Mi scusi agente, devo passare!» parlai alla Sfinge, che Sfinge era e Sfinge rimase.

«Si rimetta a sedere!»

«Ma è vivo questo?» domandai.

«Torni a sedere, le ho detto!» tuonò il PM.

Obbedii solo perché mi premeva concludere il concetto.

Un po’ anche perché Manganello stava chiamando Sevizia.

Ma non lo diedi a vedere.

«Può capitare che alcune comunità anarchiche decidano a maggioranza o con un sistema misto: magari ricorrendovi se non raggiungono l’unanimità dopo un certo numero di votazioni. Questo si chiama pluralismo. Presupposto indispensabile è però che sia espressamente accettato da tutti e che all’oppositore sia concesso di non rispettare la deliberazione purché non crei situazioni di privilegio o sfruttamento.»

«Tipo un anarchico dell’anarchia?»

«Ovvio che l’inosservanza deve limitarsi alla singola decisione, altrimenti sarebbe più sensato cambiasse comunità» specificai. «In ogni caso, far prevalere la volontà di qualcuno su qualcun altro in un consesso antiautoritario di sviluppo armonico del bene comune mi sembra una contraddizione. L’esperienza delle comuni, delle colonie, degli eco-villaggi, delle taz, di tutti i modelli di organizzazione non gerarchica ha infatti dimostrato che quando l’interesse personale coincide con quello del gruppo, la convergenza si realizza spontaneamente».

Dopo un ghigno riluttante: «Riflettevo su una cosa…» biascicò Pottutto grattandosi il mento.

«Già, riflettiamo!». Manganello si svegliò. E al PM: «Su cosa riflettiamo?»

«Mi parla di unanimità… Ma l’unanimità non è sinonimo di quell’omologazione che lei tanto disprezza?» concluse con un’espressione identica a quella ritratta nella Autosmorfia di Giacomo Balla2.

«Anche qui mi ripeto» dissi avvilito. «L’omologazione si ha quando la minoranza è obbligata a adattarsi alla volontà della maggioranza. Se invece gli individui discutono una questione e poi la approvano consensualmente, non si uniformano, scelgono» risposi. Subito aggiunsi: «La comunità non potrà mai essere reazionaria perché opera confrontandosi continuamente con le altre sia direttamente, sia attraverso la Confederazione, la cui funzione è proprio quella di fornire stimoli che tengano conto delle mutevoli esigenze sociali, condizioni economiche, pratiche quotidiane. Non è mai isolata, mai regressiva o conservatrice o oscurantista.»

«Sembra tutto così facile!» gorgogliò Manganello.

«Lo è!»

«Non credo!»

«Neanch’io. Per realizzare la propria personalità, bisogna possederne una!».

 

NOTE

– 1 Murray Bookchin, Per una società ecologica, Eleuthera, 1976.

– 2 Giacomo Balla, Autosmorfia, olio su tela, 1900.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

5.6– COMUNITÀ: FEDERALISMO

 

«A questo punto, se mi consente, spenderei due parole sul federalismo.»

«Perché?»

«Giusto per riempire i vuoti emotivi che ci separano!» ironizzai.

Pottutto sollevò un sopracciglio e con un sorriso bonario: «Magari un giorno rideremo di tutto questo!»

«Magari un giorno!» replicai.

«Già!» proferì fissando il vuoto come un depresso che ha finito il Prozac.

Manganello intuì e: «Dotto’, chiamo il bar per un aperitivo?». Rafforzò la proposta: «Magari con due stuzzichini, qualche schiacciatina, dei pezzettini di pizza…»

«Sempre a mangiare pensa lei?»

«Bisogna pur dare un senso alla vita!»

«Dicevo del federalismo… Intanto una precisazione: troppo spesso viene confuso col decentramento. Con quest’ultimo il potere trasferisce autorità a organi periferici che da lui dipendono. Il federalismo, invece, sviluppa un’organizzazione che parte dal basso esaltando il concetto di autonomia. L’anarchia è federalista perché non prevede la ripartizione di un potere centrale, ma si struttura in entità autonome e libere che si relazionano orizzontalmente. Come le persone sono sovrane e coesistono rispettando l’eguale libertà, le comunità sono entità dotate di propria funzionalità, regole, scopi, dinamiche, unicità. Al tempo stesso però, esattamente come i membri di un aggruppamento, agiscono in continua interconnessione favorendo lo sviluppo reciproco. Il meccanismo è il solito…»

«Lasciamo perdere la propaganda!»

«Non era mia intenzione!» dissi. «Sa com’è, però… Ricordo di aver letto una volta un bel libro su Pinelli in cui si diceva che quando incontrava qualcuno prima mostrava una targhetta con scritto io sono un anarchico, poi cominciava a discorrere di politica1… Abbiamo nel sangue l’educazione alla libertà!»

«Se lo tenga per Sevizia!» mugugnò Manganello.

«Cosa, l’insegnamento di Pinelli?» chiesi ingenuamente.

«Il sangue. Adora veder zampillare la vostra libertà!»

«Maresciallo non faccia l’arrogante!». Pottutto lo riprese. «Ma non mi aveva promesso di testare quel nuovo sistema a conduzione elettrica?» bisbigliò al suo orecchio.

Sviai con un sorrisetto accondiscendente: «Anche fra comunità si applica il principio del libero accordo. Vengono realizzati protocolli per ogni tipo di relazione: da quella commerciale a quella che, seppur impropriamente, potremmo definire giuridica, da quella culturale allo scambio di informazioni, dalla tutela alla difesa dal Mostro…»

«Di quali mostro parla?»

«Lo Stato, naturalmente!» dissi. «La rete di queste comunità dà vita alla Confederazione, che svolge principalmente funzione di garanzia e collegamento. Quando ad esempio una di esse viene scoperta, le altre intervengono in suo aiuto coordinate dall’Assemblea Confederale.»

«Quindi la confederazione comprende tutte le comunità?»

«In linea di massima sì, ma non necessariamente. L’adesione non è obbligatoria, anche se è fondamentale per la sopravvivenza, soprattutto finché occorre proteggersi dallo Stato.»

«E come le sceglie?»

«La Confederazione non sceglie. Sono le comunità che liberamente decidono di costituirla o di farne parte. Può essere organizzata, ad esempio, su base territoriale. Avete mai sentito parlare della Confederazione Valbisenzio che riunisce tutte le associazioni anarchiche della zona di Prato?»

«Spieghi un po’?»

«Non l’avete mai sentita perché non esiste!»

Non avrei dovuto, ma scoppiai a ridere.

«Non si prenda gioco di noi!»

«Vi prendo talmente sul serio che l’ho inventata!». Mi ricomposi: «Però è reale quello che ho detto e cioè che esistono confederazioni su base territoriale. Anche se non è escluso che aderiscano gruppi anche molto distanti fra loro.»

«E come fanno?» chiese il maresciallo.

«Come fanno cosa?»

«Se sono distanti, come si relazionano?»

«Ẻ un metodo infallibile. Non lascia tracce, non è intercettabile, non parla…»

«Me lo dice o non me lo dice?»

«Usiamo gli uccelli viaggiatori!» dissi.

«Uccelli viaggiatori?». Avvinazzò per lo stupore. «Corvi o piccioni?»

«La sta prendendo in giro!» intervenne Pottutto. E a me: «Suppongo quindi ci sia poi una sorta di Grande Confederazione che le riunisce tutte?»

«No. Non esiste una confederazione suprema. Sarebbe impossibile assicurarne la funzionalità e, forse, si rischierebbe di creare una sovrastruttura accentratrice che altererebbe l’equilibrio» lo liquidai per concludere. «Ogni Confederazione è dotata di un’Assemblea che si ritrova periodicamente. È composta da un membro nominato da ciascuna comunità…». Mi fermai sperando in una loro reazione. «Ho appena detto un membro nominato… Non vi si è accesa la lampadina?»

Sventolai le mani davanti ai loro occhi come se dovessi rianimarli.

«Questo è uno dei pochi casi in cui i libertari non agiscono personalmente ma delegano». Mi sentivo quasi offeso da tanta indifferenza. «Convocare tutte le comunità sarebbe impossibile. E non solo per motivi logistici. Per cui, ogni volta che l’assemblea si riunisce, ciascuna nomina un rappresentante.»

«Mi perdoni, non avevo colto!» confessò Pottutto.

«Ciò è possibile perché non ha potere decisionale. Altrimenti…»

«Altrimenti non sarebbe possibile?» chiese.

«Bravo dottore!», lo incoraggiai. «Oltre a occuparsi della garanzia e del coordinamento fra le collettività che la compongono, l’Assemblea della confederazione si relaziona con le omologhe in un confronto continuo. Ma soprattutto, assolve funzioni consultive fornendo pareri illustrativi, chiarificatori, orientativi.»

«Una specie di Corte Costituzionale!»

«Senza però che i loro membri guadagnino stipendi a sei cifre!» ironizzai. «E poi le loro deliberazioni non hanno forza vincolante.»

«E a cosa serve se non sono vincolanti?»

«Se l’avessero non sarebbero pareri. E se non fossero pareri si chiamerebbe Parlamento!»

«Ineccepibile!»

«La Confederazione non può interferire sulle scelte di una comunità. La sua competenza è meramente propulsiva, consultiva, di raccordo e coordinamento. Anche quando interviene, che so, per sanare una controversia fra associazioni, il suo responso è esimente visto che le decisioni devono essere deliberate espressamente dagli individui. In questo caso, infatti, se le parti litiganti non si conciliano, spetta alle altre comunità orientarle alla pace o suggerirne lo scioglimento… Perché quella faccia delusa?» chiesi. «Vi garantisco che senza la sua guida sarebbe impossibile svolgere l’azione di quotidiano logoramento necessario per la causa anarchica!»

«Di quale logoramento parla?»

«Sottrarre costantemente funzioni allo Stato, ovviamente!»

Pottutto non replicò subito: «E ce lo dice così?»

«Se vuole glielo dico in esperanto, che è la lingua che utilizziamo quando ci ritroviamo!» sdrammatizzai prima di concludere. «Se la comunità è l’essenza dell’autogestione anarchica, la Confederazione è il più importante propellente di cui disponiamo. E se vogliamo che sia priva di sovranità e i delegati svolgano funzioni non deliberative né decisorie, siano scelti a rotazione e incaricati con un mandato specifico non interpretabile né derogabile, nonché temporanei e non retribuiti, è per eludere i rischi di accentramento di potere, corruzione e parzialità, evitare cioè di replicare la perversione della vostra cleptocrazia democratica…»

«Non so cosa voglia dire cleptocrazia!» crocchiò Manganello.

«Perché democratica lo sa?».

 

NOTE

 

– 1 Licia Pinelli, Piero Scaramucci, Una storia quasi soltanto mia, Feltrinelli, 2009.

 

 

 

 

 

5.7– COMUNITÀ, GLI ACCORDI

 

«Sul federalismo non ho altro da aggiungere!» dissi.

«Sento i colleghi per sapere a che punto è l’agente Sevizia?» propose Manganello.

«Splendido!». Il PM si eccitò. E a me: «Sarà bello fare l’alba insieme!».

Il maresciallo recuperò il telefono di servizio: «Pronto collega? Buona sera a lei, agente Sventro. Può dirmi com’è messo Sevizia?… So anch’io che è alto, grosso e fa paura. Intendevo a che punto è col cinese?… Ottimo!». Si rivolse a noi col pollice sollevato. «Gli riferisca che lo attendiamo trepidanti!». Riattaccò. «Sta arrivando. Contento?», a me.

«Ho la ciccia di gallina!». Mostrai l’avambraccio. «Posso prima finire il discorso sulla comunità?»

«Ancora?»

«Se vuole parlo di scissione nucleare… Allora la scissione nucleare è quel processo di disintegrazione in cui nuclei di uranio o torio vengono bombardati con neuroni e…»

«Non faccia il simpatico e prosegua con l’anarchia!»

Lo assecondai: «Diceva Comte che una società può essere statica se mantiene l’ordine attraverso leggi di organizzazione, come nelle nostre democrazie dove col pretesto della sicurezza il Potere disciplina la massa, oppure dinamica, quando invece si fonda sul progresso1… Ma cos’è il progresso?»

«Lasci stare gli indovinelli!»

«È diventare animali seduti che contemplano lo schermo?2 Oppure lavorare da mattina a sera per comprare l’auto nuova? Magari la distruzione degli ecosistemi per una vita più confortevole? O, perché no, radere al suolo un continente dopo aver premuto un bottone…?»

«Ne ha ancora per molto?»

«Direi un paio… quella sofisticatissima invenzione medica praticabile solo a chi può permettersela? O forse la nuova scoperta eugenetica che migliorerà la razza?… Chissà!»

«A me piace quella del radere al suolo!» gorgheggiò Manganello.

«In senso generico con progresso si intende qualunque miglioramento della vita. Ma se per lei può essere tale un’invenzione tecnologica che garantisce confort più sofisticati o maggiori guadagni, io posso disapprovarla o declinarla perché mi turba, mi danneggia, la ritengo immorale o inutile».

«Non la seguo!»

«Le faccio un esempio. Supponiamo che domani le sue funzioni siano svolte dall’intelligenza artificiale. Io finirei in gattabuia senza un processo, lei dovrebbe trovarsi un altro lavoro». E con un risolino sarcastico: «Chi ci restituirebbe il piacere di questo momento?»

«E il divertimento deve ancora cominciare!» puntualizzò il maresciallo.

«È impossibile che accada!» tuonò il pubblico ministero.

«È impossibile finché qualcuno riterrà utile il fattore umano. Ma quando esso non sarà più una variabile accettabile, vuoi vedere che…?»

«Nessuno potrà mai sostituire la Benemerita!» controbatté Manganello.

Dopo un attimo di esitazione: «Ha ragione» convenni. «Le barzellette sui robot non fanno ridere!». Proseguii: «Se invece al termine progresso diamo un significato relativo, esso comprende tutto ciò che favorisce lo sviluppo del benessere personale. Non fosse che, ogni volta in cui l’uomo agisce in termini egoistici, diventa uno sterminatore». Sospirai. «Entrambe le definizioni, quindi, sono errate perché sbagliato è l’antefatto, ovvero lo scopo che il progresso dovrebbe perseguire. Finché esso corrisponde all’utile, inevitabilmente si identifica nel profitto e prende la forma di beni, la cui conquista legittima condotte predatrici e causa sfruttamento e sofferenza». Li fissai risoluto: «Progresso è solo ciò che consente all’individuo di realizzare se stesso, cioè la propria essenza naturale. E poiché l’essenza naturale è quella di entità che si sviluppa in un’immensa armonia, una pulsazione3, la natura, corrisponde ai pensieri, alle intuizioni, alle azioni e così via attraverso i quali è possibile unirsi a essa partecipando alle continue trasformazioni dei suoi elementi. Ne consegue che progresso è dire no. Dire no alle imposizioni, alle sofisticazioni, alle futilità, alle depravazioni, alle regole prescritte e non, al dominio rapace in generale, per realizzarsi come persona che fa parte del tutto».

«Che in concreto vorrebbe dire?»

«Vuol dire che il profitto ha due significati: uno mercantile in cui la manipolazione delle menti allontana le persone da ciò che sono. L’altro è coscienza di sé e compimento della propria personalità, che si realizza spogliandosi dall’egotismo e vivendo la completa immersione nella processualità naturale, la cui infinita bellezza è fonte dell’unica, vera felicità».

«Non mi sembra una spiegazione molto concreta!»

«Prenda il lavoro. Tutti dobbiamo lavorare per vivere. Ma una cosa è produrre per soddisfare necessità fisiche e morali essenziali, indispensabili al conseguimento e al mantenimento di un’esistenza connessa, quindi armonica, con la natura, quindi con la propria essenza. Altra è sgobbare per adattarsi alle istanze collettive. O, peggio ancora, sottomettersi alle regole, ai ritmi, agli obiettivi pretesi da chi sfrutta per un proprio interesse. In questo caso, soddisfa la trascendenza di chi non ha fede generando schiavitù. Solo un’attività autonoma, praticata in costante contatto con la natura e che garantisca il minimo necessario consente di conoscere se stessi e di realizzare la propria personalità…»

«Chi non lavora, però, non contribuisce alla sua cara comunità!». Pottutto mi interruppe.

«Dipende cosa intende per comunità!»

«Se non lo sa lei che sono cinque ore che ne parla!»

«Finora ho detto che la comunità, la piccola comunità, è l’unico modo per garantire autonomia, orizzontalità e solidarietà. Ma ciò è possibile quando il singolo contribuisce a definirla personalmente. Quando invece essa è quell’insieme di persone in cui l’individuo viene forzatamente assorbito costringendolo a obbedire a prescrizioni che non ha deliberato e che realizzano interessi che non gli appartengono, diventa una prigione da cui deve solo evadere».

«Se l’aggiusta sempre come gli pare!»

«La comunità è uno straordinario luogo di esaltazione della personalità se e solo se è volontariamente scelta, organizzata e partecipata. Cioè l’individuo contribuisce direttamente a ogni fase del suo sviluppo. E questo avviene attraverso accordi liberamente costituiti per uno scopo che resistano alla tirannia, che sostituiscani all’odio l’amore, alla concorrenza la solidarietà, all’egoismo la cooperazione, che realizzino il benessere di tutti attraverso l’eguale libertà».

Mi replicarono due sguardi atarassici.

«Bella arringa… Ma qualche nome?» il magistrato ruppe il silenzio.

«No!»

«Per favore!»

«No!»

«Porca puttana, Dopraho. Non voglio fare il pubblico ministero in questa cazzo di città per tutta la vita!»

«Ah no? E dove le piacerebbe andare?»

Ci pensò: «A Milano, magari!»

«C’è la nebbia!»

«Ma ci sono anche le televisioni!»

«Vuole un’ospitata da Fazio?»

«Da Fazio?». Rifletté. «Mi andrebbe bene anche da Del Debbio!»

+++++

«Niente è più elettrizzante di uomini liberi che si uniscono per preservare la loro libertà» ripresi a parlare. «Disciplinano i rapporti e li mutano in base alla sperimentazione quotidiana. Possono cambiare i bisogni, può trasformarsi il contesto e chiunque può chiedere di aggiornarli. Allo stesso modo, ora ci sono ora non ci sono più. In qualunque momento possono essere revocati, sostituiti e rescissi. L’uomo comune teme il caos e crea gabbie che legittimano poteri soverchianti. L’anarchico diviene continuamente perché non teme l’esperienza. Può dire non ho più voglia! e abbandonare senza conseguenze e, soprattutto, senza motivazione. Una stretta di mano e amici come prima. Così fanno le persone perbene!»

Ebbi la sensazione che Pottutto si trattenesse dal ridere: «Non mi pare di aver detto una cosa divertente!» dissi.

Gli si arrossarono le basette: «Pensavo alla faccia che farebbe Persecuzio se gli stringessi la mano e gli dicessi che me ne vado!»

«Non le converrebbe. Là fuori si fatica!» ironizzai. «Abbandonare la comunità non è una fuga ma una scelta. E in una società fondata sulla condivisione e che non conosce profitto, tutti si rallegrano quando qualcuno si offre a nuove relazioni, opportunità, necessità».

Pottutto fissò l’orologio che aveva appoggiato sul tavolo.

«Sevizia se l’è presa un po’ troppo comoda con questo cinese!» inframezzò Manganello.

++++

«Parla di armonia come se il mondo fosse un paradiso. Ma cosa accade se le persone non rispettano gli accordi? Siete uomini anche voi, no?» chiese il magistrato.

«Osservazione interessante!»

«Grazie!»

«Se avessi cominciato a parlare ora!» stilettai caustico. «Quando nella società del dominio le parti non rispettano un accordo, la causa è sempre un tornaconto personale. Ma se la comunità anarchica si fonda su una sintesi volontaristica in cui ciascuno compie l’interesse personale realizzando quello comune e viceversa, mi dice chi può danneggiare chi? Già che c’è, mi informa anche del perché? E visto che è sul pezzo, mi spiega pure come?»

«Ha capito cosa voglio dire!»

«Ne abbiamo già parlato!» controbattei esausto. «Quando do a lei ciò che mi ha chiesto e lei da a me ciò che le ho chiesto, non siamo entrambi contenti?»

«Per questo non c’è bisogno di essere anarchici!»

«Ma in una società in cui tutti ambiscono al profitto, l’accordo diventa strumento di competizione, non di armonia. Quando invece i membri hanno scelto di non accumulare e di vivere nell’interesse reciproco, nessuno prevale perché lo scambio soddisfa le parti paritariamente. E se, per ipotesi, qualcuno viola gli accordi, la comunità interviene per conciliare attraverso un confronto collettivo in cui il trasgressore riconosce il proprio errore, se ne assume la responsabilità, chiede perdono, compensa l’eventuale maltolto, i compagni accettano e si ripristina la pace sociale. Ecco perché la parola non è mai una sentenza, bensì una raccomandazione a cui l’interessato può scegliere se conformarsi o meno».

«Continuo a non vedere il senso!»

«Perché continua a guardare con occhi bendati!» rilevai. «È talmente intriso della mentalità del dominio che le risulta impossibile concepire le relazioni in termini di armonia e spontaneità. Dal suo punto di vista, come a ogni azione coincide un tornaconto, a ogni violazione corrisponde una sanzione che sollevi la collettività dalle proprie responsabilità. Per gli anarchici, invece, la tolleranza, al pari della solidarietà, del pluralismo e della volontarietà è un principio fondamentale per lo sviluppo del gruppo». Sospirai di nuovo. «La verità è che siete così terrorizzati dall’idea di decidere con la vostra testa, che non tollerate chi, invece, esalta la personalità» increspando il tono di voce. «Per voi lo Stato deve ingiungere e il suddito obbedire, Dio prescrivere e il fedele obbedire, il capo ordinare e il subordinato obbedire, il marito imporre e la moglie obbedire, il padre intimare e il figlio obbedire, il mercato forzare e il consumatore obbedire…»

«Ora basta!»

«Le dà fastidio, eh?»

«No, gli elenchi mi mettono ansia!». Pottutto batté la mano sul tavolo. Poi mi fissò algido: «Ormai sono ore che l’ascolto e sa cosa le dico?»

«Prego!»

S’impettì per darsi un tono: «Le dico che la realtà non cambia e non cambierà mai. Il suo mondo fatto di siamo tutti amici e fratelli, viva la pace, la libertà e l’eguaglianza, abbasso il potere cattivo e così via sono tutte stronzate!» sentenziò solenne.

«Dice?»

«L’ho appena detto!». E con un cenno nervoso mi sollecitò a proseguire.

Sollevai le spalle: «Io invece dico che ho finito!». Incrociai le braccia.

«Si è offeso perché ho detto la verità?»

«Non per ripetermi, ma la superficialità non mi offende mai. Mi intristisce!».

+++++

«Non può aver finito?». Pottutto si strappò gli ultimi ciuffetti rimasti sul mento. «Io decido quando ha finito!». Guardò Manganello in cerca di ausilio.

«Lui decide quando ha finito!» grugnì il fido compagno di ventura tamponandogli l’arterite col fazzoletto umidiccio.

«Spiace, ma ho proprio…»

«Via, non faccia il capriccioso!» disse il PM adesso più accondiscendente.

«Abbiamo ancora l’udienza preliminare, gli interrogatori in carcere, il processo… non mancherà l’occasione!» chiarii assertivo. «Per essere la prima volta che ci incontriamo, mi pare comunque d’aver parlato abbastanza!»

«Eh no!»

«Forse ha ragione!». Riflettei. «Dovrei approfondire come si sviluppa l’autogestione, come si articola l’organizzazione delle comuni, come si conciliano i diversi interessi, il lavoro e il rapporto con la natura…»

«E i nomi?»

«Per una volta sia piuma portata dal vento!» risposi fra il serio e il faceto. «Per il momento dovrà accontentarsi di sapere che esiste il luogo che non esiste4 in cui si può rendere possibile l’apparentemente impossibile5».

Avvampò come lava incandescente ma non replicò a causa dell’improvviso squillo del telefono.

E poiché nessuno sembrava voler rispondere: «Posso?» chiesi di farlo io.

Per un paio di trilli i miei interlocutori si fissarono indecisi. Poi il magistrato mi porse la cornetta. Ma il filo era troppo corto, così lo invitai a invertire i posti. Percorsi il lato del tavolo vicino alla signorina Servile, lui quello opposto come se temesse di infettarsi passandomi accanto. E quando sedetti sulla sua poltrona: «Pronto?» proferii imitandone il tono impostato.

«Pottutto?» gracidò la voce dall’altro lato del telefono.

«Buona sera dottor Persecuzio!» riconobbi il procuratore capo. «Ancora sveglio a quest’ora?… L’interrogatorio è andato alla grande! L’anarchico ha impiegato un po’ di tempo a sciogliersi ma dopo ha fatto così tanti nomi che pare l’elenco del telefono!». Tappai la cornetta perché non mi sentisse ridere. «Manca solo il giro con Sevizia, dopodiché lo impacchettiamo e spediamo al fresco… Certo, riferirò al maresciallo che questa volta non gli para il culo!… Come dice? Ne parlano i giornali? Pure la televisione? Splendido!». Con la mano di nuovo sulla cornetta: «Pure famosi vi ho fatto diventare!» rivolto ai miei aguzzini. «Mi vuole premiare?» chiesi sorpreso. «Troppo gentile! Ho fatto solo il mio dovere. Anche se quel posticino da sostituto procuratore a Milano di cui parlava… Ha attaccato!».

Riappesi la cornetta. Tolsi i piedi dalla scrivania e: «Milano l’aspetta!»

Dalla commozione quasi si mise a piangere.

«Di me ha detto nulla?» domandò Manganello.

«Che doveva dire?»

«Mi piacerebbe diventare Ministro della Guerra!6» miagolò.

«Perché non capo dei vigiles romani?» ribatté Pottutto biasimevole.

Ma anziché replicare, il maresciallo schizzò in piedi e saltellò come una palla da basket verso il bagno.

«Mi sa che l’emozione gli ha giocato un brutto scherzo!». Il magistrato lo giustificò. «È davvero un bambinone!»

Per un po’ giocammo a nascondino con gli sguardi. Poi ruppi l’imbarazzo: «È stato un piacere essere interrogato da lei!»

«Ne sono convinto, visti i risultati!» replicò amaro. «Se non vuole fare i nomi, mi dica dov’è che… Mi consenta almeno un sequestro!» insistette. «Le regalo il poster di Rocky da appendere in cella!»

«Ce l’ho!»

«Le metto la parabola!»

«Non guardo la televisione!»

«Le farò avere la cena tutti i giorni!»

«Sono a dieta!»

«Potrà entrare nel coro dei Sodomiti!»

«Non ho il coraggio di chiederle cosa sia!»

«E se prometto di farle incontrare i familiari una volta al mese?»

«Troppo buono!»

«Accordo fatto?».

Non gli strinsi la mano perché bussarono alla porta.

«Dev’essere Sevizia!» esclamò entusiasta. «Manganello, è arrivato Sevizia!» starnazzò verso il bagno.

Appena dopo lo strozzato: «Due minuti!» del maresciallo, la porta si aprì prepotentemente facendo volare la Sfinge che stava davanti. Non si frantumò in mille pezzi solo perché la signorina Servile fece da materasso.

Testa glabra, squadrata, due fessure al posto degli occhi, naso veemente sopra labbra turgide, zigomi come pietre di Stonehenge, mascella che sembrava una trebbiatrice, corpo taurino compresso in una tutina di nailon color giallo impreziosita da schizzi ancora freschi di sangue cinese. In una mano impugnava un trapano, nell’altra delle tenaglie. Avanzò facendo tremare il pavimento.

Pottutto accolse Sevizia con un sorriso spavaldo e uno: «Splendido!», d’ammirazione. Questi rispose guardandosi intorno con l’espressione di chi soffre di antropofobia e si trova in una stanza troppo affollata.

Le leggende sul suo conto non gli rendevano merito: era così spaventoso che una folata gelida di terrore mi fece tremare. Istintivamente mi coprii con la giacca che il pubblico ministero aveva lasciato sullo schienale della poltrona. Non so perché ma manipolai la pallina di pongo. Addirittura, calzai i suoi occhiali. In un impeto di esaltazione finsi perfino di prendere appunti. E quando Sevizia oscillò ancora lo sguardo dal PM a me, ebbi un’illuminazione: assentii un deciso. «Fammi vedere di cosa sei capace!», con un solerte movimento delle sopracciglia.

Tutto avvenne molto velocemente.

Il mostro fissò il magistrato, che strisciò la sedia all’indietro.

Emise alcuni fonemi d’oltretomba, a cui il PM balbettò un titubante: «Come è andato con il cinese?»

Gli si avvicinò con fare marziale inducendolo a uno strozzato: «Maresciallo, le spiace venire?».

E quando ruggì come il leopardo di Ligabue7, nel silenzio si udì prima la voce remota di Manganello che diceva: «Ho quasi finito!», poi lo sfrigolio dello sguardo elettrico di Sevizia che cercava conferma nel mio e immobilizzava quello di Pottutto, accortosi troppo tardi di essere nel posto sbagliato, la sedia di metallo in cui stanno gli interrogati, al momento sbagliato, quando il finto pubblico ministero, cioè il sottoscritto, aveva convinto l’aguzzino a non distrarsi dalla trans agonistica.

Distolsi l’attenzione da quella scena raccapricciante.

La violenza non era mai stata il mio forte. Ma la perspicacia sì. Appena il bruto lo rovesciò a terra infilandogli il trapano in bocca, in punta dei piedi mi avvicinai alla porta. Me ne andai senza salutare per non rovinare il momento.

 

 

NOTE

– 1 Auguste Comte, Sistema di politica positiva, 1851.

– 2 Cristopher Lash, Contro la cultura di massa, 2007. Nel testo la sua frase è al singolare.

– 3 Aldo Leopold, Pensare come una montagna, Piano B edizioni, 1949.

– 4 Tomaso Moro, Utopia. De optimo reipubblicae statu, 1516

–5 Amedeo Bertolo, Anarchici e orgogliosi di esserlo, ivi.

– 6 Il Ministero della Guerra venne istituito da Cavour nel 1861. Dal 1947 è stato sostituito dal Ministero della Difesa.

– 7 Antonio Ligabue, 1899-1965, Il leopardo assalito da un serpente, 1955.

 

 

 

 

 

 

POSTFAZIONE

Articoli tratti da ANARCHIA A MODO MIO di prossima pubblicazione

 

PERSONA PERBENE

La relazione col prossimo sarebbe uno stimolo, un completamento, una meraviglia, se non fosse alterata dai pregiudizi, dalla superficialità, dall’ignoranza, dalla volgarità, dall’ipocrisia, dalla manipolazione, dallo sfruttamento, dall’egoismo, dall’invidia… E siccome le persone vengono indottrinate alla competizione, fanno a gara a chi è peggio!

Così è perché sono malate. Il profitto è la loro malattia. E il denaro, che ne rappresenta la manifestazione più immediata, è la droga che ha fuso loro il cervello. Non pensano ad altro. Vivono per quello. Dalla mattina alla sera lottano per appropriarsene. Quando ce l’hanno lo spendono. Altrimenti si indebitano o ricorrono al malaffare. Che è un po’ la stessa cosa.

Progresso, crescita, competizione, benessere, lusso, e tutti gli altri ideali e scopi materialisti non sanano ma accrescono la sofferenza. E pochi riescono a guarire abbandonando l’egotismo per vivere secondo natura. Sono coloro che si spogliano del superfluo per abitare la bellezza e sviluppano la propria personalità in armonia con essa. La felicità è amore, nient’altro1. Perché di quella si nutre la volontà. Il resto è inganno. A te la scelta: accettare la follia dell’omologazione o sembrare un folle facendo ciò che vuoi.

Nella società del profitto tutti vendono qualcosa. Ma se i compratori avessero gusti, aspirazioni, bisogni differenti, potrebbero scegliere e l’imprevedibilità non è positiva in un’economia che deve crescere all’infinito. Ecco perché quando guardiamo la televisione, ci distraiamo coi social, ascoltiamo la radio, eccetera, veniamo tempestati da messaggi che propinano sempre i medesimi valori, bisogni e scopi. In questo modo, manipola oggi, manipola domani, si crea l’opinione pubblica. La fidelizzazione è il primo obiettivo di ogni bravo mercante!

Dal Taylorismo in poi la pratica è stata utilizzata anche in ambito sociale per creare individui disciplinati, prevedibili e obbedienti, nonché lavoratori zelanti e consumatori infaticabili. Si chiama pensiero dominante ed ha il merito d’aver cancellato le diversità. Siamo ormai talmente programmati che quando un giorno gli automi ci sostituiranno, saranno più umani degli umani.

Laddove la manipolazione proselitistica non funziona, intervengono la sociologia, la psicologia, l’antropologia e tutte le altre –ia che distinguono fra normalità e anormalità. Normale è colui che obbedisce alle regole. Anormale è colui che non si adatta agli standard etici e comportamentali della comunità di appartenenza e quindi li viola. È un divergente che rifiuta di adattarsi al dogma dell’obbedienza e come tale o si redime o deve essere eliminato dal consesso sociale. Ecco perché la propaganda e la legge lo assimilano al pericoloso sociopatico. La collettività deve temerlo, deve emarginarlo, se necessario eliminarlo. Siamo ancora al buon vecchio chi non è con noi è contro di noi! 2. Il fascismo non si è mai estinto. Si è solo fatto furbo!

Il manicheismo conformista rifiuta il confronto col ribelle perché rappresenta il giusto che non è. Ne disprezza la purezza. Ne irride la sincera moralità. Ne esalta la pericolosità. Lo restituirebbe al mito ardendolo nel fuoco o mozzandogli la testa se non fosse tanto ipocrita. Ai suoi occhi si è o non si è persona perbene. Si è conformi al senso comune, di cui la norma è sublimazione, oppure no. Senza domande. Senza dubbi. Interrogarsi sarebbe già un imperdonabile atto di insubordinazione poiché l’ordine, e qui la suggestione diventa ipnosi collettiva, è sempre legittimo perché legittima è l’autorità che lo emana. Che sia Dio, lo Stato, l’economia, la scienza o chi per esse. L’importante è che qualcuno l’abbia stabilito e tutti ci credano.

Per questi moralizzatori chi rispetta la legge è una persona perbene, chi la viola no. Anche se dura lex sed lex, il bravo cittadino non trasgredisce, obbedisce senza riserve qualunque sia il contenuto e la fonte dell’imposizione. Niente come l’altrui devozione spirituale, infatti, rafforza il loro tornaconto.

Le argomentazioni utilizzate sono molteplici.

In particolare mi riferisco a chi asserisce che nei sistemi democratici la legge non è arbitraria poiché rappresenta la volontà del popolo nell’interesse del popolo.

Facile dimostrare che la norma non è mai ispirata dal bene comune, bensì dalla ragion di stato. Che spesso consiste nel tributo3 imposto con o senza violazione. Con questo non escludo che talvolta gli interessi coincidano. Lo Stato è pur sempre un artificio umano e, per la legge dei grandi numeri, una cosa buona ogni tanto può venire anche a lui!

Altri aggiungono che la norma sia legittima perché sub judice, cioè soggetta alla garanzia del controllo costituzionale.

Senza addentrarmi nel pericoloso stato-centrismo echeggiato dal richiamo alle istituzioni, mi limito a rilevare che i giudici della Suprema Corte, dovendo giudicare una legge dello Stato, rispetto a esso dovrebbero essere autonomi e indipendenti. Peccato vengano nominati pro quota dal Presidente della Repubblica, che quella ha sottoscritto, dal Parlamento, che quella ha promulgato, dalla magistratura, che quella deve far applicare (art 135 Cost). Più che super partes, mi sembra che convenga a tutti farne parte!

Messi alle corde, i legalisti giocano l’ultima carta: il voto. La frase che pronunciano è sempre la solita: eh, ma voi avete votato! Che tradotta significa sia che il voto legittima le decisioni della politica, sia che: li hai votati tu, che cavolo vuoi?

Tanto per cominciare non tutti votano. Ad esempio, io ho votato solo a diciotto anni, giusto per vedere come funzionava. Ed è funzionato bene visto che il candidato scelto è stato arrestato per tangenti due mesi dopo.

In secondo luogo, come non notare che nelle ultime elezioni ha partecipato circa il sessanta percento degli aventi diritto. In quelle precedenti il settanta. Probabile che alle prossime sfiori la metà. Di questa quota vince la maggioranza. Ciò significa che il governo è sempre la volontà della minoranza dell’intera popolazione. Ora, la matematica non è il mio forte, ma essere preso per il culo non è la mia aspirazione!

Oltre questo dettaglio numerico, solo l’eletto, un suo stipendiato o un suo cliens (chi riceve un favore nella pratica del clientelismo) può affermare che il voto non sia una finzione. È una finzione perché nessuno ha mai accettato l’ordine politico e le sue regole. È una finzione perché i media manipolano la massa in cambio di finanziamenti. È una finzione perché quando la scelta dei candidati è imposta si chiama imbroglio. È una finzione perché il voto è una delega in bianco in virtù della quale la politica agisce come vuole e senza conseguenze. È una finzione perché non ci si candida e si fa campagna elettorale senza tanto denaro o senza colludere col malaffare e in pochi, anzi pochissimi, posseggono il primo e sono capaci del secondo.

Potrei proseguire con l’elenco, ma qui mi fermo per non annoiarti.

Tutto questo per dire che il perbenista è solo un dissimulatore che si riempie la bocca di paroloni, sofismi e moralismi perché teme che la libertà degli altri possa ostacolare il suo profitto. Che di per sé avrebbe anche una sua logica. A parte il profitto, naturalmente.

Il conformismo è una scelta utilitaristica conservativa pervertita d’ideologia ostile. Se collettiva, come nel caso del pensiero unico, addirittura spietata. Il dito dei benpensanti è sempre puntato, il giudizio sempre solerte, la pena sempre crudele nei confronti di coloro il cui spirito e la cui condotta divergente possano turbare la stabilità. Chi rispetta la legge non è quindi una persona perbene, bensì un complice del sistema delinquenziale. Perché il vero crimine non è violarla, quanto imporla per profitto impedendo alle persone di essere se stesse e definire regole proprie.

Per questo è molto più temibile dei suoi manipolatori.

Per questo ingannarla e trasgredirla dà così soddisfazione.

 

NOTE

– 1 Hermann Hesse, Sull’amore, Mondadori, 2016. Testo completo: “Quanto più invecchiavo, quanto più insipide mi parevano le piccole soddisfazioni che la vita mi dava, tanto più chiaramente comprendevo dove andasse cercata la fonte delle gioie della vita. Imparai che essere amati non è niente, mentre amare è tutto, e sempre più mi parve di capire ciò che dà valore e piacere alla nostra esistenza non è altro che la nostra capacità di sentire. Ovunque scorgessi sulla terra qualcosa che si potesse chiamare “felicità”, consisteva di sensazioni. Il denaro non era niente, il potere non era niente. Si vedevano molti che avevano sia l’uno che l’altro ed erano infelici. La bellezza non era niente: si vedevano uomini belli e donne belle che erano infelici nonostante la loro bellezza. Anche la salute non aveva un gran peso; ognuno aveva la salute che si sentiva, c’erano malati pieni di voglia di vivere che fiorivano fino a poco prima della fine e c’erano sani che avvizzivano angosciati per la paura della sofferenza. Ma la felicità era ovunque una persona avesse forti sentimenti e vivesse per loro, non li scacciasse, non facesse loro violenza, ma li coltivasse e ne traesse godimento. La bellezza non appagava chi la possedeva, ma chi sapeva amarla e adorarla. C’erano moltissimi sentimenti, all’apparenza, ma in fondo erano una cosa sola. Si può dare al sentimento il nome di volontà, o qualsiasi altro. Io lo chiamo amore. La felicità è amore, nient’altro. Felice è chi sa amare. Amore è ogni moto della nostra anima in cui essa senta se stessa e percepisca la propria vita. Ma amare e desiderare non è la stessa cosa. L’amore è desiderio fattosi saggio; l’amore non vuole avere, vuole soltanto amare”.

 

– 2 Citazione dal discorso di Mussolini del 24.3.1924.

– 3 Termine che utilizzo nell’accezione usata da Clastres.

 

 

 

 

NO ANTIFASCISMO, SÌ ANTIAUTORITARISMO

L’antifascismo è quel movimento ideologico eterogeneo, in quanto riunisce soggetti anche molto diversi fra loro, caratterizzato dalla contrapposizione teorica e pratica al fascismo.

Attivo prima della Seconda guerra mondiale per replicare alla propaganda di regime e reagire all’atmosfera di prepotenza, intolleranza e terrore, dopo l’armistizio dell’8 settembre, giocò un ruolo fondamentale nella liberazione dal nazifascismo. Terminato il conflitto, allo slancio politico il Paese preferì la lavatrice nuova1 ed esso, salvo rare e nostalgiche manifestazioni, venne obliato. Almeno fino agli Anni di piombo quando la destra e la massoneria diedero vita a quei simpatici rigurgiti sfociati nel terrorismo di stato. Da quel momento il suo significato è andato oltre la mera negazione del ventennio per contestare qualunque idea e pratica reazionaria. Sembrava l’alba di una nuova epoca, invece si trattava del golpe bianco che, attraverso l’uniformazione sociale, avrebbe concepito il meraviglioso sonnambulismo di questi tempi.

 

La ragione della contrapposizione al fascismo si spiega col fatto che esso è un aborto storico2. Meno enfaticamente, trattasi di un movimento politico di estrema destra in cui i frustrati di ogni rango si identificano nella banalizzazione del superuomo nietzschiano praticato con lo squadrismo e idealizzato nel nazionalismo. I suoi valori sono sintetizzati dalla formula: dio, patria e famiglia. Dio come verità assoluta, patria come luogo da difendere, famiglia come centro degli affetti. Aggiungerei anche la violenza, ma in epoca di cancel culture non vorrei offendere la sensibilità dei sempre più numerosi fascistelli sulla piazza.

Lasciando perdere Dio perché concepisco l’ebrezza del rum non quella della fede e la famiglia perché se uno desidera essere ammaestrato dovrebbe fare l’animale del circo, più intrigante è il concetto di nazione. Nazione che rappresenta la sintesi delle individualità nella comunità omogenea, gerarchica e bellicosa3, in cui l’idolatria dello Stato soggioga l’individuo e strumentalizza gli istituti civili nell’ostentazione militarista e imperialista. E per non farsi mancare nulla, tutto viene condito da un pervicace sentimentalismo di appartenenza.

Il fascista è la sua patria: si identifica quasi in maniera commuovente con il territorio, la cultura, la lingua, la religione, la storia, le tradizioni le istituzioni. Ẻ un servo devoto, orgoglioso di partecipare alla grandezza morale e materiale del popolo italiano4 di cui si sente fiero rappresentante. E lo fa con tale sincera devozione che ancora aspetta fiducioso quel favoruccio dall’assessore. Per la bandiera soffre, si esalta, inneggia, si arrabbia, aggredisce in un tourbillon di schizofreniche emozioni. E a coloro per cui la nostra patria è il mondo intero, nostra legge è la libertà, ed un pensiero ribelle in cor ci sta,5 è sempre pronto a elargire un po’ di sano, redentore, patriottico squadrismo.

 

Tornando all’antifascismo, nel tempo il suo significato si è evoluto. Per non rimanere ancorato all’anacronistico rifiuto delle pratiche violente, intimidatorie e razziste di cui la dittatura si è resa protagonista, aveva due soluzioni: o prendere le distanze dalla mistificazione stato centrica oppure consolarsi con l’idea che lo Stato sia un padre un po’ stronzo, ma si può chiudere un occhio perché ha promesso di comprare le figurine. Ovviamente ha scelto questa seconda.

Sintesi dell’antifascista moderno è il rifiuto della tirannia: condivide, infatti, tanto l’opposizione all’imperialismo capitalista, perché non si può essere eguali solo quando si consuma, quanto il disprezzo per gli autoritarismi sia di destra, come le dittature sudamericane, che di sinistra, come quella sovietica. Esalta quindi i valori democratici in opposizione a qualunque idea e pratica autoritaria.

Ma essi, se intesi come rispetto delle esigenze, della dignità e dei diritti altrui, sono legati alla sensibilità personale o collettiva, in quanto tali mutevoli nel tempo e variabili in base al contesto, per cui impossibili da determinare. Ecco perché è più corretto definire democratico chi si ispira o è conforme ai principi fondamentali della democrazia6, ovverosia quel metodo per prendere decisioni collettive con partecipazione personale e scelte prese a maggioranza7. Detto altrimenti, è colui che riconosce quella forma di governo in cui la sovranità è esercitata dai cittadini attraverso una consultazione popolare che può essere diretta, quando si occupano personalmente del potere legislativo, esempio è la polis greca, o indiretta, quando eleggono dei rappresentanti, esempio è il parlamentarismo. Qui sta l’inghippo.

 

La prima considerazione è che la partecipazione diretta non esiste più. Se nel medioevo, infatti, quando suonava la campana, gli abitanti del Comune si riunivano per dibattere i problemi della città, dall’Illuminismo in poi si parla solo di rappresentanza. La democrazia oggi infatti è solo indiretta. Aggiungendo che gli eletti e i sistemi elettorali sono scelti dai partiti, rispetto alla Monarchia a cui si opponeva in origine, essa è un piccolo passo per l’umanità, un grande passo per le oligarchie. Ma non voglio fare lo spiritoso parafrasando Neil Amstrong.

La seconda considerazione è che oggi esiste solo un modello di democrazia: quella liberale occidentale anglo-statunitense. E non potrebbe essere altrimenti, visto che per proteggerla e diffonderla i suoi artefici annientano qualunque alternativa.

I paradigmi che la caratterizzano sono:

  1. Il pluralismo politico.
  2. Il suffragio universale.
  3. Il principio della maggioranza.
  4. Lo stato di diritto.
  5. La divisione dei poteri.
  6. La libera manifestazione del pensiero.
  7. La libertà di stampa e la libera iniziativa economica.

Principi che dalla teoria alla pratica diventano:

  1. Pluralismo politico: può vincere chiunque ma i moderati vincono sempre. Il massimo per garantire fascismo eterno!8
  2. Suffragio universale: quella regola per cui tutti i cittadini, non solo pochi privilegiati, possono essere manipolati senza distinzione di sesso, età, razza, eccetera.
  3. Maggioranza: se il più forte vince, almeno il più debole ha qualcosa di cui lamentarsi.
  4. Stato di diritto: il rispetto dei diritti e delle libertà viene garantito dallo stato di polizia.
  5. Divisione dei poteri: principio fondamentale per sdoganare la divisione in caste.
  6. Libera manifestazione del pensiero: consiste nel tollerare il pensiero divergente quando si è conformato a quello generale.
  7. E se con la libertà di stampa si intende la libertà dell’editoria di assecondare chi la finanzia, con la libera iniziativa economica si configura il sogno americano per cui chiunque può fare soldi se altri lavorano per lui e consumano i suoi prodotti.

Difendere la democrazia significa quindi difendere queste distorsioni che, salvo qualche variazione di facciata, rimarranno tali finché sarà fondata sullo stato centrismo. L’imperio dello Stato, infatti, non solo ne esclude l’attuazione pratica in termini di partecipazione diretta in quanto con esso incompatibile, ma oscura la possibilità di alternative che siano veramente democratiche, cioè fondate su sistemi libertari, orizzontali ed egualitari, non gerarchizzati né elitari, con i quali sparirebbero i privilegi, i profitti, gli abusi di chi lo sostiene o ne approfitta.

Ecco perché la democrazia moderna è solo una forma mascherata di autocrazia. Anche quando opera nel giusto, come ad esempio… come ad esempio… non mi viene in mente nessun esempio! Comunque, anche supponendo che agisca nell’interesse dei cittadini, la maggioranza che lo ha votato, il governo impone sempre le sue decisioni punendo chi non le rispetta, la minoranza, e gli sparuti refrattari. Rappresenta pertanto un sistema soverchiante, aggressivo e violento che annulla la personalità. Niente di paragonabile col fascismo primigenio ovviamente, in quanto il tempo ha affinato i metodi, che sono diventati meno precipitosi e arroganti, più accorti, scaltri, perché no, ipocriti quanto basta a far credere ai sempliciotti che agisce nel loro interesse.

Ne consegue che, quando l’antifascismo richiama i principi della democrazia, intesa come quel modello di ispirazione illuminista e attuazione imperialista, ne legittima anche il metodo endemicamente oppressivo e dispotico. Riconoscendo lo Stato, infatti, ratifica l’azione di un governo che, coadiuvato da mastini-cacciatori di trasgressori, decide a nome di tutti nell’interesse di pochi. E mentre questi ultimi continuano a godere dei privilegi, economia e scienza perpetuano disastri umani e ambientali, i politici si spalleggiano per la conquista e la conservazione del potere. Non mi sembra un bel quadretto!

 

Diverso dovrebbe essere il discorso per gli anarchici che, invece, non ambiscono a governare e vogliono eliminare lo Stato.

Vero che eludono il potere, rifuggono le istituzioni e disprezzano ogni artificio ingannatore. Anche loro però manifestano sempre più frequentemente i valori dell’antifascismo attraverso l’esaltazione della democrazia, sostenendo di fatto un modello politico-istituzionale centralizzato e autoritario antitetico ai propri principi.

La causa di questa dissonanza cognitiva e della profetica fantasia di poterlo cambiare sta nella letargia mentale indotta dal perbenismo a cui anch’essi ormai sono assuefatti. L’effetto, invece, è che non sono più capaci di rottura col sistema. Anche per loro l’antifascismo è diventato niente più che una leva identitaria. Un cliché con cui spacciarsi migliori nonostante la mediocrità conformista e politicamente corretta di cui ormai sono parte integrante. Uno slogan come Calimero, non a caso nero anche lui. Come la maglietta con l’effige di Che Guevara. Come, guarda un po’, la democrazia.

Non si è anarchici perché antifascisti. Gli anarchici sono anche antifascisti perché contro ogni arbitrio. La loro bussola non può essere data dai così detti principi democratici, ma dall’antiautoritarismo, che ne assorbe il significato estensivo, e si concretizza nel rifiuto della società del dominio: dal profitto che lo alimenta alle istituzioni che lo conservano, dall’economia che lo diffonde alla scienza che lo sacralizza, dalla religione che lo benedice all’omologazione che lo disciplina.

Identitaria deve essere la volontà di estirpare l’arbitrio, la violenza, il sopruso, la prepotenza, il pregiudizio perpetrati costantemente e impunemente in ogni pratica sociale. Se non si eliminano questi squilibri endemici, se non si sopprime lo Stato che ne è la legittimazione etica, sono solo chiacchiere. Belle, interessanti, talora entusiasmanti, ma solo chiacchiere.

Non serve migliorare le istituzioni, bisogna sostituirle con altre che siano volontarie, acentriche, orizzontali, pluraliste, autogestite, solidali, in un sistema in cui gli individui siano padroni di se stessi e in quanto tali realizzino le proprie potenzialità in una permanente reciprocità. Occorre un’azione radicale di tipo olistico che accerchi il Potere creando comunità indipendenti che ne erodano competenze e autorità. Questo è l’antiautoritarismo anarchico.

A quel punto, eliminata ogni sua manifestazione, il fascismo si dissolverà spontaneamente e il Potere sarà costretto a cedere. O quantomeno, a confrontarsi e accettarle per la sua stessa sopravvivenza.

Certo, poi bisognerà vedere se le comunità lo tollereranno. Ma questa è tutta un’altra storia.

 

NOTE

 

– 1 Oblio che comincia con la Amnistia Togliatti del 1946 con cui il governo De Gasperi, per superare le violenze della guerra e ripristinare la pace politica e sociale, concesse clemenza a tutti coloro che si erano macchiati di reati politici, di collaborazionismo, di concorso.

– 2 Manuel Giannantonio, Anonimous, ll miolibro, 2013.

– 3 Rubo gli aggettivi alla definizione che Gentile usa nel suo libro Fascismo: storia e interpretazione, Laterza, 2002.

– 4 Discorso di Mussolini del 24.3.24.

– 5 Pietro Gori, Stornelli d’esilio, 1895.

– 6 Definizione data dalla Treccani.

– 7 Norberto Bobbio intervistato da Renato Parascandolo della Rai il 28.2.85.

– 8 Umberto Eco, Il Fascismo eterno, La Nave di Teseo, 2020.

 

 

 

 

CONTROCULTURA

Se mi chiedi per quale motivo a scuola non si leggono i testi dei filosofi anarchici, coloro che hanno scritto e si sono battuti per un mondo senza padroni, rispondo che gli insegnanti, fino ad arrivare a chi definisce i programmi scolastici, sono persone stipendiate dall’ordine costituito. E in un regime fondato sul guadagno non c’è leva più efficace di un bonifico sicuro ogni fine mese.

È un po’ lo stesso motivo per cui i ragazzi arrivano al diploma che a mala pena hanno terminato il romanticismo. Al massimo, quando i professori sono lungimiranti, conoscono qualche autore verista. Meglio non alterare la suscettibilità del padrone educando allo Stato etico, tanto esaltato nell’Ottocento, piuttosto che istruire sulle catastrofi umane, ambientali, sociali provocate dallo statocentrismo nel Novecento.

La scuola è uno strumento con cui il Potere indottrina e seleziona. A esso non interessa che le persone siano consapevoli e autonome. Le vuole ignoranti e succubi sia fisicamente che, soprattutto, mentalmente per poterle manipolare e sfruttare. E così l’entusiasmo con cui i giovani lasciano i banchi si trasforma presto nella consapevolezza di essere ingranaggi di una catena. Con due effetti consequenziali: il primo è perdere l’autostima, il secondo è tentare di ripristinarla accettando di diventare parte di quel sistema che ne deprava la personalità. E poiché non tutti hanno la capacità o l’opportunità di sviluppare questa seconda opzione, molti regrediscono alla prima crogiolandosi malinconicamente nell’inerzia.

 

L’anarchia propone molte alternative al sistema educativo tradizionale, tutte fondate sullo sviluppo dell’individualità. L’educatore è tale quando riesce a farla emergere, perché soltanto chi è consapevole di se stesso e dei propri mezzi può essere padrone del mondo. Curiosità, personalità, sperimentazione, integrazione, pluralismo, interdisciplina, capacità critica sono solo alcuni dei principi su cui si fonda il metodo antitetico alla manipolazione, all’omologazione, alla gerarchizzazione legittimati attraverso pratiche autoritarie e impositive. Affinché però la pedagogia libertaria possa diffondersi, occorre non solo che si evolva fra le maglie del Potere, e ciò avviene grazie all’underground, ma anche che sia recepibile da soggetti non più suggestionabili o dominati dal sistema. E guardandosi intorno non sembra siano molti!

Tuttavia, gli anarchici posseggono la parola e non temono il confronto personale. Sanno che se uno fissato con la trap ascolta Chopin, probabilmente si suicida. Ma sono convinti che se ha vicino chi lo introduce con passione alla musica dell’anima, deve essere alessitimico per non innamorasene!

Ecco perché, prima di invitare alla pratica anarchica, educano a diventare padroni di se stessi affrancandosi dalla schiavizzante vacuità. Non si è anarchici se non si è uomini liberi. E l’unico modo per essere liberi è disintossicarsi da ciò che narcotizza la volontà: il profitto. Intorno al quale vengono costruiti gli altri artifici mentali.

L’anarchia sarà sempre utopia finché l’uomo penserà e agirà in termini di tornaconto. Esso crea asservimento, provoca alienazione, favorisce la disintegrazione della personalità. Dopo tutto, se viene venduto come realizzazione del sé, non è per compensare il nulla che provoca?

 

Per evitare la terapia del dolore che appare come l’unica salvezza contro la devastazione imperante, l’anarchico invita a fermarsi e riflettere. Poi abbandonarsi all’istinto. La vita è una straordinaria opportunità. Bisogna smettere di partecipare al sistema che azzera l’individualità. E ciò avviene rinunciando all’artificiosità per vivere la naturalezza dell’esistenza. Siamo organismi biotici. E in quanto tali, ci perfezioniamo spontaneamente nella partecipazione ai processi del creato, cioè nella fibrillante connessione con le creature che lo animano. Il resto è eccedenza che distrae dall’obbiettivo primario di fondersi con l’ambiente e crea solo sofferenza.

Siamo natura che prende coscienza di sé, diceva Sorel. Occorre lasciarsi andare al suo divenire per trovare la propria identità. In termini pratici, rinunciare agli artifici del progresso mercantile, consumistico e predatorio, della logica del dominio in generale, per immergersi in essa operando attraverso relazioni empatiche coi suoi elementi e usufruendo dell’essenziale offerto in un’interdipendenza armonica in cui ciascuno è protagonista reale. Che non vuol dire spogliarsi degli averi per parlare agli uccelli come San Francesco. Sai quante cose interessanti può dire un lupo o un cinghiale, un nocciolo o una pianta d’origano, ad esempio?

Scherzi a parte, quando l’individuo vive senza profitto, immune da subordinazioni artificiali come la legge, la morale, le tradizioni e così via, e pratica un rapporto continuo col creato, coglie la propria essenza dalla connessione coi suoi elementi, dalla partecipazione alla sua evoluzione, dell’identificazione con le molteplicità e si rappresenta nella necessità attraverso cui il tutto si determina. Ed è allora, quando l’unità, la propria, diventa infinito, la natura, che l’estasi esplode in tutta la sua meraviglia. A questa felicità ambisce l’anarchico. Diversamente è solo una parodia che non fa ridere. E a noi piace tanto ridere!

 

Compiuto questo slancio etico, il libertario può dedicarsi alla costruzione di realtà autonome, autogestite e autogovernate che erodano l’ordine da cui si è estromesso e realizzino possibilità alternative. E con questo afflato, lo stesso che lo porta a esaltarsi in quella meravigliosa attività che è l’inosservanza delle regole imposte, può diffondere la parola.

Ogni occasione è buona per manifestare i principi che lo guidano, raccontare le esperienze che lo vivificano, descrivere la gioia che provocano, trasmettere la conoscenza e il buonsenso in chi vive solo perché ha paura di morire. Non gli importa se viene considerato un folle o un divergente, se viene emarginato o punito. La consapevolezza di sé e la certezza di essere nel giusto, di cui si alimenta ingordamente, lo portano sempre a divulgare:

  1. Che il profitto è strumento di potere e il potere è il male assoluto perché si conquista e si mantiene con il raggiro, la manipolazione, la corruzione, il malaffare, la depravazione, l’intimidazione, eccetera e si conserva con la violenza.
  2. Che il profitto genera sofferenza sia perché non basta mai, sia perché per conseguirlo si rinuncia al sé e si sfrutta il prossimo, sia perché è sempre alienante, deumanizzante, umiliante, annichilente.
  3. Che negato razionalmente il profitto, il giudizio, il desiderio, l’utile e ogni forma di dominio legittimante (Stato, religione, legge, tradizioni, e così via) si diventa padroni di se stessi.
  4. Che il padrone di se stesso è capace di abbandonarsi all’istinto per identificarsi con le infinite molteplicità circostanti.
  5. Che l’identificazione è condivisione spontanea con le entità animate e inanimate compiuta attraverso la partecipazione alle dinamiche naturali, in una simbiosi in cui la personalità si sviluppa coscientemente e autonomamente secondo necessità.
  6. Che partecipare al creato è amore. Non la passione, il sentimento, la pietà, o altre emozioni transitorie, bensì la capacità di donarsi incessantemente a esso, di proteggerlo, conservarlo, magnificarlo, in comunione con affini.
  7. Che unirsi all’ordine naturale per essere tutt’uno con esso è lo scopo della vita in quanto unica via per coglierne l’essenza e realizzare il sé.

 

Concludendo: l’anarchia prima di essere condotta pratica è una scelta etica che ridefinisce il rapporto col mondo, con gli altri e con se stessi. Non si è anarchici per interesse, ma perché si è compreso che per essere bisogna vivere senza di esso e il più possibile con le leggi eterne della natura e della necessità, come diceva Godwin.

Se a ciò si aggiunge che il libertario non sa esistere senza donarsi e che la parola è il mezzo più diretto per offrirsi al prossimo, l’azione non può prescindere dal verbo. Almeno finché gli viene consentito. Quando gli verrà impedito, altri lo sostituiranno perché tutti sono importanti, ma nessuno è necessario.

 

 

 

 

DAL DOMINIO ALLA COMUNITÀ AUTARCHICA

Non ci giro intorno: finché le persone si identificheranno nel profitto, libertà ed eguaglianza rimarranno retorica. Maggiore è l’accumulazione, maggiore è il potere che ne consegue e, di conseguenza, chi ne ha di più prevale su chi ne ha meno, chi ne ha meno su chi non ne ha, chi non ne ha se la prende con gli immigrati!

Ironia a parte, gli squilibri umani, sociali, naturali che esso provoca dovrebbero essere sufficienti per disprezzarlo e dedicarsi a una nuova concezione di esistenza. Invece non è così. Le persone sono talmente narcotizzate dal desiderio di accumulare che si comportano come l’affamato davanti alla tavola imbandita, che afferra e divora qualunque cosa riesca a prendere finché non sviene esausto. Con una piccola differenza: che se a lui basta vomitare per riprendersi, la vita non consente seconde opportunità.

Di sicuro il bombardamento incessante messo in atto dal capitalismo ha raso al suolo i neuroni dell’uomo moderno. Ma la causa di tale dipendenza non può essere solo il condizionamento mediatico o il desiderio di emulare l’ostentazione dell’abbiente. Altrimenti non si spiegherebbero le infinite guerre fra miserabili che logorano l’umanità dalla notte dei tempi.

Credo invece che la vera ragione per cui l’individuo ha bisogno di identificarsi nella materialità sia la necessità di compensare l’inquietudine della finitezza esistenziale. Disporre di beni, ammassandoli o capitalizzandoli, ripristina l’autostima lesa dalla natura mortale. Padroneggiarli inebria di onnipotenza. La precarietà dell’esistenza è un tarlo che perseguita anche il soggetto più superficiale e così l’uomo vive per possedere perché il possesso è il modo più veloce per dare un senso alla vita. Senza trascurare che consente di affrontare con maggior sicurezza la competizione sociale e con l’ambiente e talvolta gratifica pure, vedi la soddisfazione di graffiare il macchinone parcheggiato a cazzo o rifarsi il guardaroba eludendo la sorveglianza.

Nella maggior parte dei casi, però, al godimento di uno fa da contraltare la soggezione e la sofferenza di molti. E questo è un problema! Eppure il creato insegna che gli stormi confondono il rapace, le mandrie si difendono dal predatore. Per non citare le solite formiche, vespe e così via. Gli animali attivano forme di organizzazione collettiva nell’interesse comune. E fra le piante vige il medesimo principio antiautoritario attuato mediante l’interconnessione continua con cui le radici si scambiano informazioni e nutrienti. Se quindi la natura opera con il mutuo appoggio nell’interesse comune (Kropotkin), l’uomo sopraffà e distrugge per narcisismo. E si sente pure figo.

La verità è che il desiderio di possedere beni imprigiona la volontà in gabbie effimere, anziché consentirle di realizzarsi in tutta la potenzialità. Potenzialità che è semplicemente amore. Amore che deve essere puro e spontaneo per appagare pienamente. Solo quando la verità è libera di amare incondizionatamente, infatti, può unirsi alle infinite molteplicità. Ecco perché scegliere di rifiutare le falsità consolatorie per unirsi all’indistinto è una rivoluzione etica. Essere con, essere per, essere in in una metamorfosi spontanea in cui la volontà si rinnova nel continuo divenire della vita. Bisogna perdere l’egotismo per fondersi con l’ambiente e, nelle relazioni sociali, creare consorzi autogovernati e interdipendenti in cui ciascuno possa realizzare se stesso in una continua interconnessione col prossimo.

Comunità è la parola chiave per creare empatia, immedesimazione, contagio emotivo necessari alla fusione d’identità. Comunità con le entità circostanti. Comunità con affini. Fondersi nella realtà da protagonisti. Ma per farlo bisogna essere umili e modesti. Puri. Abbandonare i desideri materiali, il giudizio omologante, l’interesse edonista, tutto ciò che altera l’equilibrio personale e impedisce di cogliere l’armonia delle cose e godere del divenire di cui fanno parte. E ciò è possibile solo eliminando la futilità. Che non significa vegetare o vivere come asceti, ma partecipare alla processualità della vita che esplode nelle sue infinite manifestazioni affinché divengano proprie. Essere albero che frescheggia quando le fronde oscillano al vento, rugiada che riposa sulle foglie, il cane che corre sul prato, la processionaria che striscia e il dolore che prova mentre la schiaccio perché il mio Darko la sta puntando.

Applicando il concetto alle relazioni sociali, la comunità non può che essere autarchica. Non quella pratica dirigista che decreta l’intervento statale nell’economia mediante la regolamentazione del mercato e il controllo centralizzato degli scambi. Tipo il fascismo. Tantomeno quella socialista o comunista che, più o meno celatamente, hanno sempre guazzato nel mercato e nella prepotenza autoritaria. Parlo di autarchia anarchica, che spoglia il concetto del suo esclusivo significato economico per restituirgli l’antico valore filosofico di derivazione cinica e stoica. Dalla prima corrente riprende l’autonomia e il rigetto delle regole che impediscono all’individuo di conseguire la felicità. Dalla seconda che la padronanza del sé si raggiunge perseguendo una pratica ispirata al controllo delle passioni, al rifiuto delle comodità artefatte e all’equilibrio dello spirito attraverso la saggezza, senza però abbandonare il piacere della relazione e della solidarietà.

È l’inizio di una nuova tappa dell’evoluzione umana in cui essere padrone di se stesso vuol dire bastare a se stesso. Una scelta etica in cui ridefinire i rapporti con gli altri, con la natura e, nondimeno, con se stessi. Un nuovo modello di autosufficienza sviluppata attraverso l’autogoverno e lo sfruttamento delle proprie risorse, dove l’individuo non fa economia, non si appropria e accumula, non preda, ma produce per soddisfare i bisogni primari propri e altrui e condivide gli interessi senza imposizioni o regole, senza centri di potere e divisioni fra dominanti e dominati.

Con un solo limite: non può essere imposta. La scelta deve essere volontaria ed è volontaria quando si cambia il rapporto con la contingenza. Ecco perché, prima ancora di cancellare il governo e le sue strutture, bisogna eliminare gli artifici mentali, le illusioni, fra le quali il profitto gioca un ruolo primario plasmando la società del dominio. Non è una rinuncia, ma la via per la libertà. Perché solo chi è libero, cioè affrancato dagli inganni corruttivi, possiede l’unica cosa che conta: la genuinità necessaria per assaporare l’estasi della comunione.

Non escludo che questo affrancamento possa avvenire in solitudine, dove però l’effetto presto sparisce nella malinconia del silenzio, ma è nel gruppo che si esalta. Unità di intenti, parità di rango, pluralismo di idee, solidarietà vera realizzati in un confronto continuo e paritario di economia sostanziale in cui si sviluppano attività ancestrali come l’orticoltura, la selvicoltura, la pesca, l’artigianato e tutte quelle che non creano squilibri e non saccheggiano il mondo. La produzione deve concentrarsi sui beni necessari e poi cessare. Non esiste industria, fabbricazione di massa e il commercio è scambio di necessità. Il lavoro deve essere organizzato applicando il principio fourierano per cui il tempo lavorato va impiegato in attività diversificate: dalla terra al laboratorio, dal laboratorio alla scuola, dalla scuola ad attività pubbliche e così via. Le eventuali eccedenze devono essere impiegate in attività sociali, o per favorire l’esportazione-importazione intercomunitaria dei prodotti basilari, o distribuite per garantire il minimo necessario a chi, per qualunque motivo, non può contribuire. Perché oggi a me è andata meglio che a te, ma domani chissà!

Il progetto è semplice come respirare in un’alba tersa.

L’unico ostacolo consiste nel rimuovere le contaminazioni che ammorbano la società del dominio, senza cui è impossibile crearne una nuova. Uno slancio consapevole che richiede il coraggio del divergente, la determinazione del giusto, la passione dell’innamorato, non facili da trovare o esprimere in tempi mistificatori dove i dissidenti vengono ignorati, disprezzati, ridicolizzati, isolati, poi eliminati dal consesso sociale. Eppure basterebbe riappropriarsi della ragione, non dico neanche del più elitario sentimento, e magari evitare di usarla per annientare il mondo. Abbiamo capito che in quello siamo i numeri uno, ora proviamo a esserlo dove conta davvero!

 

 

 

LA RIDEFINIZIONE DEL RAPPORTO CON LA NATURA COME PUNTO DI PARTENZA DELL’AZIONE ANARCHICA

 

Siamo carne, emozioni, ragione. Siamo volontà. Ogni essere vivente dal più al meno evoluto vuole vivere. La gazzella eviterebbe di scappare dal leone, ma corre veloce perché vuole vivere. Il leone preferirebbe sonnecchiare all’ombra di un albero, ma la insegue per il medesimo motivo. Stessa cosa vale per l’uomo. Nonostante una capacità autodistruttiva superiore a qualunque altro essere, è disposto a tutto, accetta di tutto pur di soddisfare quest’istinto primigenio.

Da principio la terra produsse la famiglia delle erbe e il verde splendore intorno ai colli… in seguito creò le stirpi mortali, che nacquero in gran numero. Perciò ancora la terra a ragione ha ricevuto e conserva il nome di madre, poiché da se stessa creò il genere umano1. In queste parole di Lucrezio l’innegabile verità che il creato è fonte, è casa, è necessità e piacere, è equilibrio, è l’assoluto nelle sue infinite, spettacolari manifestazioni. È estasi. E se una vita più vicina alla natura ci porta più vicini alle verità2, come diceva Tolstoj, è solo perché siamo la natura.

Nonostante questo, l’uomo la domina, la altera, la usa, la distrugge, in un processo crudele, vigliacco e irreversibile di cui è fin troppo facile immaginare la fine. Siamo testimoni di una catastrofe e nessuno fa niente. Le persone sono sempre più inebetite. La politica insegue l’economia. L’economia si arricchisce approfittando dell’emergenza.

La sola speranza è data dalle poche, isolate menti ribelli che hanno capito, non accettano e combattono. Individui liberi che non si realizzano nella materialità e vivono in armonia, senza finzioni e attraverso continue relazioni di sympatheya con le cose. Un uomo nuovo che rifiuta il profitto, consapevole che esso genera autorità, da cui deriva il potere, che è arbitrio perché esercitato sempre egoisticamente. Persone che attuano un rapporto paritario e non dominante con l’ambiente, di conseguenza paritario e non dominante con i propri simili.

Il potere è sempre pericoloso, attira le cose peggiori e corrompe le migliori. Non ho mai desiderato il potere. Il potere è dato solo a quelli che sono disposti ad abbassarsi e raccoglierlo dice Ragnar a suo figlio Bjorn3. Anche il re vichingo aveva infatti compreso che per essere, bisogna non avere. Che si è liberi solo quando si è puri. E la purezza è immergersi nella realtà e divenire con essa senza condizionamenti.

La finitezza non può essere sanata con la sopraffazione. La volontà non diventa immortale se domina quella altrui. Può invece essere eterna se rinuncia alla propria imperfezione per fondersi con le infinite volontà nel divenire incessante della vita. È infinita quando si alza verso il cielo attraverso le ramificazioni degli alberi, affonda nella terra insieme ai lombrichi, si immerge nelle acque indorate dal sole, corre nelle praterie, riposa sulle rocce e si risveglia uomo.

Ma perché sia libera di fondersi nel tutto, prima ancora di emanciparsi dalle suggestioni ossessive, l’individuo deve cessare di identificarsi nella materialità. Perché quando l’avidità proietta il sé sul bene desiderato, essa viene ingabbiata nella rappresentazione.

È una scelta etica. Dove bene è ciò che mantiene l’equilibrio naturale, male ciò che lo altera. Per questo l’iniziato rifugge la proprietà e, di conseguenza, il dominio. Vuole che le cose non siano più strumento di privilegio e arbitrio, ma mezzo attraverso cui conseguire l’equilibrio naturale. Vuole esistere, non essere schiavo.

Se non è determinata dal bieco tornaconto, la volontà può esprimere la sua creatività. E perché avvenga questo balzo evolutivo occorre che l’individuo cessi di essere homo faber, che si considera anima del mondo4, copula mundi dice Ficino4, e pensi e agisca come homo humilis, che concepisce la terra come geometria, come misura della vita5. Solo così può smettere di conquistare e interagire con gli altri esseri viventi mettendo la propria soggettività al loro servizio.

E quando l’uno diventa tutto, tutto cambia. Spariscono i dannosi rapporti di forza che asfissiano la quotidianità: le relazioni diventano orizzontali; il lavoro si trasforma in prestazione con qualcuno non per qualcuno; l’autogestione favorisce la partecipazione alle decisioni; la cooperazione stimola lo svolgimento delle attività in maniera conviviale, a rotazione e tenendo conto delle capacità e competenze personali; la solidarietà garantisce il minimo necessario, l’equa distribuzione delle eccedenze e il fondamentale sostegno morale. E così via.

 

Ma non basta. La consapevolezza identitaria e la pratica etica che ne consegue non sono sufficienti. Non è vero l’assunto di Max Nettlau per cui l’uomo può vivere libero e felice quando, oltre alla salute mentale consegue l’indipendenza economica grazie alle condizioni di utilizzo delle risorse della terra e dei doni spontanei della natura nell’ambito di un’organizzazione volontaria6. Come l’arbusto svigorisce e poi muore nel deserto, l’anarchia si svuota e si estingue operando in un contesto dominato dalla competizione e dal profitto. Perché può essere indipendente, fibrillante, viva quanto si vuole, ma la società del dominio è un blob che ingerisce qualunque cosa e, in men che non si dica, può ingurgitarla. Per questo non può prescindere da un’azione antagonista.

Da una parte ci sono lo Stato, l’economia, la religione, il senso comune, che impongono le loro leggi. Dall’altra chi decide personalmente e riconosce solo quelle che ha contribuito a plasmare. Lo scontro è inevitabile. Gli anarchici, tuttavia, hanno imparato sulla propria pelle che la suggestione del faccia a faccia col potere fa troppi lividi. Per questo oggi agiscono nell’underground e si sostengono con la Confederazione.

Underground è lo sviluppo di comunità volontaristiche, autogestite, pluraliste, solidali che operano eludendo l’autorità. Non partecipazione alle sue pratiche, non collaborazione con le sue istituzioni, trasgressione alle sue regole. Dopo tutto non c’è bisogno dello Stato perché la società funzioni: la parte essenziale della vita sociale si compie anche oggi al di fuori dell’intervento governativo, diceva Malatesta. Infatti le cose in cui lo Stato non ha ingerenza sono quelle che camminano meglio, che fan luogo a minori contestazioni e si accomodano per la volontà di tutti in modo che tutti ci trovino utile e piacere perché la vita quotidiana si svolge al di fuori della portata del codice ed è regolata, quasi inconsciamente, per tacito o volontario assenso di tutti, da una quantità di usi e costumi ben più importanti alla vita sociale che gli articoli del codice penale, o meglio rispettati, quantunque completamente privi di sanzione7. La società esiste di per sé quale umano esercizio di sopravvivenza ed è partecipe, efficiente, produttiva, unita quando non viene intorpidita dalle logiche del dominio.

Una volta che le comunità sono attive, strutturate e sviluppate autonomamente, seppur nel rispetto delle specifiche differenze, devono coordinarsi per disobbedire agli ordini del tiranno, sottrargli potere attraverso l’organizzazione di strutture indipendenti che assolvano funzioni sociali, creare meccanismi di protezione che sfruttino quelli dominanti, e svilupparsi, per quanto possibile, senza vicoli territoriali in maniera da attaccare e fuggire come pirati. E innanzi all’inevitabile repressione, resistere e unire le forze per colpire il Mostro nei punti vitali sottraendogli profitto e autorità.

Depredato, fiaccato, indebolito dall’azione di infinite sovranità che si riproducono continuamente, pur di non estinguersi e mantenere i propri privilegi, a quel punto l’oppressore potrebbe concedere il diritto di astensione. Riconoscere che l’individuo non sia più sottoposto alla sua autorità per nascita, ma possa scegliere liberamente se e come governarsi. A parte lo Stato e nonostante esso, possano cioè sorgere raggruppamenti legittimati che operano sovranamente per conseguire scopi condivisi. Un sistema di multigoverno non necessariamente territoriale, sviluppato attraverso comunità collegate su base federalista che garantisca l’antiautoritarismo e le preservi dai rischi di isolamento e regressione, svincolato da potere centrale seppur non in conflitto con esso.

Non è il massimo, ma da qualche parte bisogna pur cominciare.

 

NOTE

1 – Lucrezio, 94 ac-50 ac, De Rerum Natura.

2 – Una vita più vicina alla natura ci porta più vicini alle verità di una dominata dalle complicate norme della legge e della moda, frase completa.

3 – Così parla Ragnar al figlio Bjorn nella serie televisiva Viking.

4 – Termine usato da Appio Claudio Cieco (350-271 ac) nell’opera Sententiae col significato di uomo che guida il proprio destino e ripreso dall’umanesimo in antitesi all’Homo sapiens, con l’intento di rendere il sapere non più esclusivamente speculativo, quindi fine a se stesso, ma pratico, cioè utile all’edificazione di una realtà funzionale all’uomo.

5 – Concetto espresso dal pioniere dell’ambientalismo Aldo Leopold, 1887-1948, Pensare come una montagna, Piano B edizioni.

6 – Max Nettlau, Alcune idee false sull’anarchia (1905) in Gian Piero de Bellis, Panarchia, D Editore, 2017.

7 – Errico Malatesta, Anarchia, Ed Anarchismo, 2013. Da cui ho tratto le sue citazioni presenti in questo articolo.

 

 

 

 

 

 

 

 

SIAMO TUTTI ANIMALI

 

Prendiamo una bambina che va nel bosco insieme al suo cane.

Prendiamo il cacciatore che vede muovere fra le frasche, spara e uccide la bestiola.

A parte che non mi sentirei di biasimarlo in quanto è probabile che mentre mirava pensasse già al ragù delle pappardelle, mi sono chiesto il motivo per cui l’opinione pubblica non reagirebbe come se avesse colpito la piccola. E mi sono risposto che, come dice Orwell in La Fattoria degli Animali: tutti gli animali sono eguali, ma alcuni sono più eguali degli altri. E gli uomini lo sono ancora di più.

 

Partiamo da un antefatto certo: è ormai dimostrato che uomini e animali hanno antenati comuni. Provengono entrambi dalla stessa molecola del DNA, che poi nel tempo ha subito una serie di modificazioni, differenziazioni, evoluzioni fino a creare le specie che conosciamo oggi. Tanto per essere chiari: l’uomo è uno scimpanzé più figo. Ha poco da fare tanto tanto il bulletto!

Quale primate più sviluppato, siede sul punto più alto della piramide. E da lì non osserva imparziale, non controlla e domina senza far niente come Simba1. Partecipa al ciclo evolutivo ora favorendo l’estinzione di una specie, ora con la distruzione di una foresta, ora sterminando i propri simili. Tanto che, a volte, viene da chiedersi chi è il cretino che l’ha messo lassù.

Ovviamente si è messo da solo. Ma per non affermarlo spudoratamente – l’ipocrisia è una delle più praticate fra le sue peggiori qualità – ha sempre cercato qualcosa che lo confermasse. E fu così che, quando ancora guardava le stelle chiedendosi chi avesse realizzato quella meraviglia, intuì il trascendente. Da attribuirgli i meriti del creato a riconoscersi suo prediletto il passo è stato breve.

Le Sacre Scritture, infatti, affermano che Dio è onnipotente e che l’uomo è il figlio forgiato a sua immagine e somiglianza (Genesi 1,27), per cui può dominare gli animali e soggiogare la terra (Genesi 1,26.28). Per l’Islam la natura è un mezzo per raggiungere Allah poiché i sette cieli e la terra e tutto ciò che in essi si trova lo glorificano (Corano 17, 44). Insomma, le religioni monoteiste si definiscono tali non a caso: il dio è uno solo e si chiama uomo.

Non meno antropocentriche sono quelle politeiste: per gli egiziani gli dèi erano elementi della natura che avevano forma umana; per i greci erano la physis cioè la totalità delle cose, come la definivano i presocratici Eraclito e Anassagora, da cui tutto origina e senza cui nulla potrebbe essere com’è, che si personificava con creature antropomorfe interagenti fra loro; per i nativi americani la natura è la madre che dona il suo corpo per il nutrimento dei figli. Potrei proseguire con infiniti esempi dello stesso tenore.

Per secoli quindi le religioni sono state il più potente strumento di legittimazione del dominio sulla natura. Ma quando nel medioevo si cominciò a non poterne più dei numi opprimenti, l’ontologia abbandonò la metafisica per guardarsi intorno. Sperimentazione, creazione di ipotesi a cui seguono ragionamenti per arrivare a leggi che descrivono fenomeni. Ecco creata la nuova causa di riverenza al passo coi tempi: la scienza. E se all’inizio i suoi estimatori venivano cotti alla brace, il Nuovo Mondo ha cominciato a rinfrescare il vecchio, con la rivoluzione industriale ha assunto i crismi dell’infallibilità, dell’onnipotenza, dell’assolutezza, fino a diventare la dittatura che oggi adoriamo tanto.

Col pragmatismo che le è proprio essa ha dimostrato, quindi, che non c’è più bisogno neanche della fatica di credere, che l’uomo è l’essere più progredito in quanto unico a potersi adattare, sopravvivere, riprodursi tanto nel deserto quanto in vetta a una montagna. Detto in un altro modo, se trasferisci il nostro antenato scimpanzé, il più evoluto fra i meno evoluti, dalle foreste pluviali a New York, di sicuro impazzisce e poi viene abbattuto quand’è in vetta all’Empire State Building2. Se invece costringi l’uomo a fare il percorso inverso, sicuramente trasforma la foresta un bellissimo centro commerciale.

Di fatto la scienza non ha inventato niente. Ha semplicemente cristallizzato ciò che per il senso comune era indiscutibile.

Mi riferisco a coloro che affermano il primato in base alle maggiori capacità razionali di cui l’essere umano è dotato rispetto alle altre specie. Lascia stare che non ne faccia o ne faccia un pessimo uso. E lascia stare che a nostra insaputa possano essere coscienti e razionali i vertebrati, gli animali o le piante che interagiscono fra loro per la sopravvivenza e lo sviluppo e forse domani si scoprirà che lo sono anche gli insetti, gli artropodi e gli invertebrati. È indubbio che rifletta, razionalizzi, risolva problemi come nessun altro. Hai mai incontrato un’aquila mentre raschia un gratta e vinci? Sai di balene che sfrecciano su un catamarano? Conosci babbuini che sappiano assembrare un mobile Ikea? Hai mai visto giraffe che si specchiano nello schermo di un computer per un giorno intero o un orso che si rifà gli zigomi per assomigliare a un castoro? L’uomo, non l’animale né la pianta, riesce a fare tutte queste cose!

Oltre gli oltranzisti della ragione, ci sono i partigiani dell’anima. A loro dire l’uomo è l’unico essere che la possiede. E se la possiede, possiede una coscienza, cioè la consapevolezza del sé, degli altri, dell’ambiente che lo circonda, da cui deriva la capacità di giudicare cosa è bene e cosa è male. Peccato si smentiscano imponendo la morale, la legge, la religione e quant’altro lo uniformi e lo educhi affinché il giudizio non sia personale… Oppure no, magari la morale, la legge, la religione e quant’altro sono create apposta per stimolare le persone a ignorarle consapevolmente. Chissà!

Nel mucchio si distinguono i legalisti, coloro per cui la vita di un individuo è più importante di quella di un animale o di una pianta perché lo dice la legge. Per loro tutto è lecito ciò che consente, tutto è proibito se lo vieta. Le riconoscono un primato assoluto e incontestabile che ha quasi del mistico. Ti dirò: conosco la legge e conosco i mistici e, credimi, sono una pessima combinazione. Quasi peggiore dell’ideologia e del profitto. E siccome i legalisti hanno la capacità di mistificare la legge per idealizzare il profitto, mi spaventano assai!

 

La verità è che il primato dell’uomo è una finzione. Qualunque concezione antropologico-telologica è una fantasia che assolve due scopi: dimenticare la morte e alleviare il senso di colpa per la malvagità di cui l’uomo è capace. La natura, infatti, lo considera solo un animale fra animali: siamo tutti volontà che partecipa al ciclo della vita e poi torna da dove è venuta. Essa ha nei suoi confronti la stessa considerazione che può avere verso un batterio. Se addirittura non lo ritiene più fastidioso, visto come si comporta!

 

Tornando alla bambina e al cane ucciso dal cacciatore, ciò che rende ai nostri occhi la vita umana più importante rispetto a quella di qualunque altro essere non è il suo valore assoluto, che non esiste, ma il nostro punto di vista condizionato da secoli di tradizioni, morale, cultura antropocentrica che considera il tutto come un subalterno, come un mezzo per un fine. Fine che è sanare l’umano bisogno d’eternità.

Come il domino sulla natura, al pari di violenza e accumulazione, è causato dall’urgenza inconscia di negare la propria finitezza, egualmente si idealizza la vita umana, con quella di un lombrico l’effetto non sarebbe lo stesso, perché identificarsi nella sua idea rafforza l’autostima a discapito della inevitabile caducità. E così se il cacciatore avesse freddato la bambina, ella sarebbe diventata figlia, sorella, madre e il dolore provocato dalla sua morte sarebbe stato personale perché provante l’incompiutezza che ci caratterizza. Siccome, invece, ha ucciso il cane, cioè un essere non umano nei confronti del quale solo pochi eletti riescono a identificarsi, è solo un coglioncello!

Peccato che questi artifici mentali di autoconservazione siano un’illusione. E come tutte le illusioni, all’inizio sembrano consolatorie, se perpetrate ripetutamente diventano follia. Che è lo stato permanente in cui ormai vive il genere umano.

NOTE

 

1 – Il Re Leone, film di animazione, 1994.

2 – Riferimento a King Kong, film del 1933.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LA COMUNITA’ MEDIATRICE

Ma chi è l’anarchico? Per l’opinione pubblica anarchico è colui che non rispetta le regole e avvinto da una sregolatezza innata o acquisita agisce fregandosene degli interessi della collettività. Un sociopatico, insomma. Di conseguenza la società anarchica è “il far west” dove ognuno spadroneggia un po’ come gli pare replicando il modello preconizzato da Hobbes a giustificazione del Leviatano.

Socrate diceva che esiste un solo bene, la conoscenza, e un solo male, l’ignoranza. A volte mi fa quasi tenerezza il masochismo delle persone!

L’anarchico, infatti, è consapevole molto più del manipolato e stordito conformista che un consesso sociale ha bisogno di disciplinarsi per armonizzare i diversi interessi. Rileva però due cose.

La prima è che finché esiste il profitto, finché le persone agiscono per un interesse economico, le relazioni sono rapporti di dominio-soggezione dove la sopraffazione e la violenza impediscono l’esercizio della libertà e dell’eguaglianza, rendendole mere leve propagandistiche con cui infinocchiare i sempliciotti. Il denaro infatti crea divisione fra chi ne possiede di più e chi meno, fra l’autorità e chi la subisce, sviluppando rapporti di forza che impediscono all’individuo di agire spontaneamente.

L’interesse è un virus annichilente. Spesso mortifero. Ma se gli effetti sono letali, la cura è elementare e consiste nel rinunciare ai bisogni artefatti per soddisfare unicamente i necessari. E alla domanda quali essi siano, la risposta viene dalla notte dei tempi: il mercato crea solo cose inutili perché a quelle essenziali pensa la natura. Semplice, no?

La seconda è che l’individuo non deve obbedire a regole stabilite da altri, ma autogovernarsi. Nessuna autorità può arrogarsi il potere di decidere al suo posto e punirlo se non rispetta le sue prescrizioni. Sia perché ciascuno ha le capacità per determinarle autonomamente senza dover delegare ad cazzum persone che fanno l’interesse proprio e dei privilegiati che proteggono. Sia perché, qualunque disposizione eteronoma è un illegittimo strumento coercitivo creato dal più forte. Secondo natura l’individuo nasce libero. Il suo spirito e il suo corpo sono mezzi con cui la volontà personale si manifesta. E nessuna entità artefatta ne può disporre di diritto.

Disconosciuta l’oppressione eteronoma e le sue norme repressive, chiunque può scegliere l’ordinamento che preferisce oppure, come fa l’anarchico, agire spontaneamente nell’ordine naturale definito da norme ancestrali. Preso, infatti, coscienza di non poter continuare a vivere sotto un imperio che disprezza, negati i principi e i valori che lo giustificano e perpetuano, il libertario rifugge la società e trova nella natura incontaminata, non colonizzata, il suo ambiente ideale. Qui conosce se stesso, si relaziona affettivamente con le specie che la abitano, si organizza autogovernandosi da solo o in compagnia in simbiosi con gli esseri con lo hanno accolto e produce quanto basta per soddisfare i bisogni primari attraverso uno scambio delle eccedenze non fondato sulla transazione, ti do un prodotto e tu me ne dai un altro, bensì sulla reciprocità del dono, “quel dare e ricevere informale, non calcolato” tipico delle relazioni familiari o amicali1. E poi cerca la felicità. Quella vera intendo. Non quella spacciata dalla propaganda per creare tossici in crisi di astinenza, ma il vivere coscientemente la simbiosi col mondo.

Sia chiaro, si tratta di una scelta volontaria. Chi preferisce essere schiavo, obbedisca pure. Purché non impedisca agli altri di esaltarsi nella propria essenza!

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La società è un fenomeno naturale e gli anarchici non contestano il bisogno di unirsi per realizzare l’interesse comune. Rifiutano invece che si strutturi su rapporti di forza definiti dalla maggiore o minore capacità economica dando vita a forme più o meno mascherate di plutocrazia.

Chiamano “società del dominio” questo sistema in cui il più forte prevale sul più debole e il rango è determinato dal denaro. In passato pensavano di eliminarla con azioni sovvertitrici. Parlavano di giustizia, equità, diritti. Nel tempo hanno capito che “cambiando l’ordine degli addendi, il risultato non cambia”. Vedi il socialismo, che ripropone il dominio con una maschera non meno mostruosa del capitalismo.

Oggi, almeno i più illuminati, sono consapevoli che la prevaricazione è regola di convivenza finché l’uomo non si evolve in qualcosa di diverso. Un essere altro che sfrutta le proprie potenzialità selvagge non per narcotizzarsi nell’accumulazione, con conseguente violenza perpetrata per procurarsi lo stupefacente, ma per realizzarsi nell’armonia naturale.

Non credendo nella rivoluzione propongono una personale trasformazione spirituale, intima, prima ancora che sociale, in cui l’antropocentrismo materialistico diventa visione fisiocentrica del mondo2. Hanno compreso, e alcuni vissuto, che solo l’interazione paritaria con l’ecosistema è gioia vera, non effimera. E che il benessere a cui l’uomo aspira non può essere conquistato, ma vissuto nella condivisione spontanea della profonda relazione con i suoi elementi. Una connessione accogliente, mai prevaricatrice, di cui l’armonia naturale è amalgama indispensabile.

E in questa esaltante avventura non sono soli. Esistono infiniti soggetti che sentono il richiamo del soffio primordiale. Sono nascosti perché temono la repressione riservata ai dissidenti, ma casualmente si trovano e sviluppano comunità, ovverosia una condivisione di intenti autogestita, che diventa il tramite ideale fra l’individuo e la natura. Essa, infatti, è il luogo in cui gli iniziati apprendono il piacere dell’eguale libertà, la prima legge della natura in virtù della quale condividere l’identità è un atto spontaneo come un gioco.

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Ecco il motivo per cui chi ha scelto di vivere la biosimbiosi rifugge i luoghi asfissiati dal cemento, avvelenati dai miasmi del progresso, sfigurati dal mercantilismo, depravati dal profitto e soggiogati dal dominio.

La comunità diventa l’ambiente.

Ambiente che offre quanto basta affinché ciascuno sia se stesso. Dove l’umano non è più dominatore, ma elemento della pulsazione naturale, che agisce nella consapevolezza che la sostanza che scorre nel suo corpo sia la medesima di una roccia, di un albero, o di un ratto.

Non edifica strade ma sentieri, né palazzi ma dimore. Non distrugge per sofisticare. Non accumula superfluità. Non combatte per depredare. Non domestica per dominare. Non si consuma d’invidia. Non fabbrica cose e ne desidera sempre di nuove. Non violenta, razzia, depreda, uccide per stupida avidità. Le sue azioni non inseguono il profitto, ma seguono i ritmi biologici senza interferenza, celebrando il creato con la gentilezza di chi riceve un dono. Diventa finalmente uomo, cioè essere legato all’humus, la terra, come dice l’etimologia del termine. Ovverosia parte del creato in cui perfezionarsi.

Anche quando capita di dover risolvere questioni pratiche. Penso alla necessità di difendersi da certi predatori, intendo il civilizzato non gli animali, così come la realizzazione di una dimora o un ponte, la definizione di attività comuni, l’ammissione di nuovi membri, la distribuzione delle eccedenze e quant’altro. L’assenza di interessi lucrativi, la partecipazione delle volontà, la distribuzione equa, la condivisa realizzazione nel tutto trasformano, infatti, i rapporti competitivi e rapaci della società del dominio in confronti paritari e sinceri. Dal dibattito si giunge alla decisione, sempre modificabile o revocabile. Generalmente è unanime, ma spesso chi è in disaccordo può astenersi e non partecipare senza subire pregiudizi. La volontarietà che ispira ogni scelta non viene mai osteggiata purché non attui forme di dominio. Fosse insanabile, l’interessato potrebbe sempre unirsi ad una comunità più affine.

Ma trovane una bella come la nostra!

Perché quando le persone non sono oppresse da regole imposte da altri, la comunione dei beni e la solidarietà esclude l’arroganza del più forte, la clandestinità e il nomadismo agevolano la creativa promisquità e impediscono l’individuazione e la repressione dello sciacallo, le decisioni sono personali e ciascuno partecipa come può, l’autarchia e il minimo necessario garantiscono la sopravvivenza e l’assenza di profitto assicura la convivenza pacifica ed egualitaria, ciascuno è se stesso. E si manifesta spontaneamente nell’equilibrio naturale condividendo con le entità la partecipazione all’armonia universale. La felicità assoluta.

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Ma per affrontare questo percorso liberatorio occorre coraggio. Non basta un animo attizzato dal fuoco della ribellione. Non è facile lasciare ciò che si ha, abbandonarsi all’oblio per trovare la luce. Spesso la paura reprime l’istinto: sono i lacciuoli personali quelli che asfissiano di più.

In questo caso l’estasi non è esclusa, ma non può che essere occasionale, data da rari momenti di fuga nella natura. Scampoli di libertà nella quotidianità opprimente. Esplosioni di gioia intensa, a cui però segue l’estenuante disforia provocata dall’impossibilità di renderla permanente. Una precarietà che ora è dissociazione necessaria per sopravvivere che sfocia nella creazione di una realtà il più possibile conforme alla propria personalità, ora diventa reazione senza sosta per opporsi al potente richiamo della morte.

Per questo i libertari che ancora risiedono nella società del dominio lottano. Lotta che è identità ribelle nelle forme della diserzione, della disobbedienza, e dell’opposizione attiva per difendere l’uomo e il creato tutto e infiacchire il Potere, sia mai che un giorno, stremato dai riottosi, onde evitare che altri padroni lo sottomettano, si accontenti di governare i fedeli servitori lasciando i refrattari liberi di essere a modo loro. Non è il massimo, ma almeno è l’inizio.

Una lotta che può essere esercitata personalmente, meglio in gruppo. Dopo tutto la natura stessa insegna che quando le prede si uniscono cacciano via il predatore. E se gli butta bene, si nutrono pure del suo cadavere.

Poi ci sono gli illuminati. Audaci ribelli di cui nessuno parla. Nessuno sa chi siano. Nessuno li ha mai visti.

Ovvio, stanno nascosti nei boschi!3

NOTE

*1 Marvin Harris, La nostra specie, Rizzoli, 1991. Così dice quando parla delle popolazioni primitive.

*2 Da “phisis” che per i filosofi presocratici era la “realtà prima”: la natura. Quando si dice che non s’inventa più niente!

*3 Per gli amanti della schematizzazione:

 

Negare gli ingranaggi mentali             →  Padrone di se stesso

-no dominio, no antropocentrismo                          ↓

Trasformazione spirituale

Andare nel bosco (foresta-natura incontaminata, selvaggia)

-Comunità = apprendere l’eguale libertà

Autarchia

Produzione personale

Solidarietà -Reciprocità del dono

-Bisogni necessari → la natura offre quanto basta

-Biosimbiosi → Felicità

Immagine: Kallela, Tramonto sul lago 1915

FERMIAMO LA SCIENZA

La scienza, intesa sia in senso stretto come ricerca rigorosa e sperimentale, sia estensivo come sofisticazione atta ad assicurare maggior comodità, non è altro che l’ennesimo espediente con cui l’uomo nasconde la propria precarietà. Teme la realtà e allora prova a dominarla giustificando con confortevoli menzogne la devastazione che lascia alle spalle. Il bello di quest’epoca fluida è che le falsità sono disseminate ovunque e hanno la tracotanza della metafisica, dello statocentrismo, dell’ideologia, la seduzione dell’industrializzazione, del mercato, del consumismo, della tecnocrazia e… e l’assolutismo dell’immarcescibile scienza, intorno a cui tutte ormai ruotano.

Inizialmente gli scienziati erano considerati un manipolo di folli. Molti venivano perseguitati, altri esiliati in virtù del principio che la natura era divina e gli uomini i suoi custodi. Finché qualcuno ha intuito che la conoscenza è dominio e, se applicata all’economia, accresce il profitto a dismisura. A quel punto si è avvalso di questi visionari per creare la macchina a vapore, il telaio meccanico, la locomotiva e altre immaginifiche innovazioni. Per concretizzare tanta genialità ha migliorato il tenore di vita della massa e l’ha manipolata a puntino in maniera che nessuno potesse fare a meno delle nuove sofisticazioni.

La svolta non è stata facile, né immediata. Perché le persone comprassero e comprassero e comprassero ancora, infatti, quei beni dovevano diventare necessari. Serviva un genio del marketing e Berlusconi non era ancora nato. Alla fine però il tormentone che avrebbe inebetito la ragione venne partorito: “Il progresso è la chiave del successo. Prendilo adesso!” O forse era: “Altro che Dio, col progresso è tutto tuo!” C’è pure chi dice fosse: “Senza progresso la tua vita sarà un cesso!” Anche se dubito si potesse usare certe volgarità quando non c’era la televisione.

Passare dall’aratro all’agricoltura intensiva, dalle candele alla domotica, dallo sfruttamento all’obbedienza volontaria, dall’artigianato all’industrializzazione globalizzata, dall’uso della natura alla sua devastazione, è stato un attimo. E il merito, impossibile non riconoscerlo, è solo della scienza, diventata il mezzo attraverso cui l’umano avrebbe potuto appropriarsi di qualunque cosa pigiando un bottone.

E così, se una volta c’era Dio e c’era la scienza, oggi c’è la scienza che fa Dio, al cospetto della quale tutti devono prostrarsi, pena la derisione e l’emarginazione sociale. Almeno in questo i suoi paladini sono più moderati del religiosi, che fino all’altro giorno mandavano al rogo chiunque osasse contraddirli!

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Affinché la sua autorità diventasse assoluta non era però sufficiente che fornisse le soluzioni ai bisogni più effimeri. Essendo l’uomo un essere intrinsecamente materiale e spirituale bisognava attribuirle un’aurea di solennità che la rendesse credibile ai più sempliciotti e incontestabile ai detrattori. Detto fatto: è bastato attribuire sacralità al suo metodo per emarginare chi ne dubitasse o lo contestasse.

La procedura è semplice. Si parte da un’idea, ad esempio che un determinato fattore possa influire su un certo processo, oppure dall’osservazione di un fenomeno. Si pongono domande e si giunge a un’ipotesi. A quel punto si realizzano gli esperimenti, al termine dei quali lo scienziato possiede dei dati. Se essi la confermano, si formula una legge. Altrimenti si elabora un’atra ipotesi e si prosegue con l’osservazione e la sperimentazione. Questo è il metodo su cui la scienza fonda la propria credibilità inconfutabile.

Che poi è il solito che usava mia nonna quando improvvisava gli ingredienti per fare i dolci. Solo raccontato in maniera più figa.

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«Splendido!» Grida il sempliciotto.

«Magari!» replica il diffidente.

Perché alla fine della sperimentazione la decisione finale non viene rivelata in sogno dagli spiriti Xapiri1, ma è la manifestazione del giudizio umano. Come tale tale fallibile. Fallibile nella conclusione, poiché un errore procedurale o la cognizione errata dei risultati dell’esperimento può portare ad una legge sbagliata. Fallibile negli effetti che possono essere ignorati o, nei rari casi di buona fede, ignoti al momento in cui viene formulata.

Gli scienziati conoscono tali anomalie, però le negano o, quando sono illuminati, le sminuiscono per mantenere il loro prestigio. Le élite e i vari ossequianti sono distratti dal profitto che ne deriva. All’uomo comune non rimane che sperare che le conseguenze compromettano qualcun’altro.

Poi c’è il diffidente che studia, si documenta, si informa, ogni tanto reagisce e tutti lo prendono per un sociopatico. Perché ognuno deve occuparsi di ciò che sa e parlare di ciò che conosce. E poiché solo gli specialisti possono esprimersi su ciò che è “speciale”, la scienza è degli scienziati.

Difficile replicare se fosse un circolo di scacchi!

E comunque, se ognuno dovesse parlare di ciò che realmente conosce, cesserebbero le relazioni personali. La verità è che sostenere l’onnipotenza della scienza significa ignorare, voler ignorare, che le sue decisioni riguardano la vita di tutti.

Pretendere che gli individui omologhino le proprie condotte ad una volontà eteronoma è sempre una violenza. Quando si sfrutta l’ignoranza per soggiogare, è un abominio. Se poi ne scaturisce un profitto, è una truffa. Come tutte le volte in cui subdolamente si subordina la volontà personale a una dittatura morale per riprodurre la solita autocrazia in cui l’individuo è un mezzo per un fine.

Con l’aggravante che la scienza non si accontenta di soggiogare: deve distruggere per realizzare il progresso che stringe le catene.

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Detto che l’infallibilità scientifica è solo uno slogan, grottesco è ammantarla di oggettività.

Ẻ imparziale quando studia una pianta o la relazione fra specie, un po’ meno quando c’è da lucrare devastando l’ambiente, sviluppando armamenti o realizzando prodotti di ingegneria sociale. La storia ha infatti dimostrato che essa è uno strumento di dominio pervicace quanto la religione, che ha sostituito, sia perché fornisce mezzi e le procedure attraverso i quali chi domina eserciti violenza, sia perché plasma i bisogni della collettività, che la asseconda stordita dal suo bagliore o fiduciosa rimanga qualche briciola dei suoi profitti.

Di fatto la scienza è sempre stata al servizio del Potere, che ne ha disposto per il proprio tornaconto. Almeno fino alla seconda metà del XX secolo, quando ne perso il controllo. Da che tecnica ha sovrastato la conoscenza proliferando a dismisura le sofisticazioni, si è creata infatti una frattura fra il mondo reale e quello scientifico che ha ribaltato gli equilibri. I governi, che del dominio sono sempre stati il braccio operativo, improvvisamente hanno perso la propria autonomia a causa dell’incapacità di adeguarsi alle innovazioni in corso. E così per di non dissolversi hanno delegato agli specialisti le decisioni primarie.

Il risultato è un vero e proprio autoritarismo scientifico, oggi tecno-scientifico, dove la politica gestisce il bene comune adattandosi all’oscillazione dei suoi umori e obbedendo insindacabilmente alle sue prescrizioni. Ormai il sapere non è più al servizio dell’umanità, ma l’umanità al suo. Unito al denaro, chiunque può disporre del mondo senza più inibizioni morali o ostacoli pratici.

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Usare il creato per soddisfare bisogni biologici è nelle cose. Realizzare invece inutili artifici altera l’equilibrio universale provocando danni irreparabili. Questo fa il progresso che concepisce incessantemente eccitanti suggestioni spacciandole per necessarie. Alla scienza il compito di individuare la perversione migliore e sviluppare la dipendenza per aprire i mercati senza i quali l’economia stagnerebbe, regredirebbe, poi cesserebbe. E addio denaro.

Pensa all’agronomia, quel complesso di tecniche e tecnologie che dovrebbero rendere più efficienti ed efficaci le coltivazioni. Efficienti ed efficaci per chi? Le piante crescono, fioriscono e fruttificano spontaneamente da prima che esistesse l’uomo e lo faranno anche dopo. La natura non ha bisogno di interferenze per manifestarsi. Eppure ora si tempesta di agenti chimici, ora si produce artificialmente, ora si altera gli ecosistemi, ora si manipola la crescita per aumentarne la produttività con l’unico obbiettivo di globalizzare il consumo, quindi garantire, garantirsi, un maggior profitto in barba alle sue regole eterne.

Oppure pensa alla sfacciataggine con cui rinnega se stessa per trovare nuove frontiere commerciali. Vedi la transazione ecologica che, smentendo impudicamente quanto propinato in precedenza come assoluto, risolve l’inquinamento ambientale con rimedi più dannosi della causa per consentire all’industria di continuare ad arricchirsi. L’ecosostenibilità è una pagliacciata! L’unica cura contro lo distruzione della terra è smettere di essere complici del malaffare.

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Se il progresso non è altro che l’inganno dietro cui si nasconde l’ingordigia di chi lo esalta e la scienza è l’ennesimo strumento con cui i privilegiati accrescono il loro dominio, l’anarchico ha il dovere etico di avversarli con tutti i mezzi possibili.

Egli è colui che ha abbandonato gli egoismi, le influenze degeneranti, le oppressioni mortifere, i valori necrofili dell’artificiosità imposta per riappropriarsi della spontaneità. Ha scelto di immergersi nella natura. Attraverso la sua armonia realizza la propria personalità fondendosi con le molteplicità. E quando si è vissuto il sé per sé, quando si diventa coscienza primigenia, tutto il resto risulta superfluo, se non immorale.

Pur non contestandola in assoluto, riconosce infatti gli apporti forniti dal metodo alla conoscenza della natura, egli vuole che essa non sia per l’uomo, ma per tutti gli esseri che abitano la terra. Perché ciò sia possibile deve essere svincolata dal profitto che la rende corrotta, violenta, sfruttatrice, distruttrice, come ogni azione umana in cui esso è l’obbiettivo finale. Un malefico dominio che interferisce sul naturale equilibrio delle cose pervertendo la genuinità indispensabile alla reciproca connessione col tutto, unico scopo di ogni essere.

Per questo il libertario disubbidisce!

Ma la semplice disubbidienza, pur possedendo un alto valore morale, non è sufficiente a scardinarne la sua autorità, né a frenare la sua ingordigia. Occorre la lotta. Una lotta serrata che non eliminerà gli arbitri, ma almeno creerà l’instabilità necessaria affinché le comunità anarchiche, veicolo attraverso cui diffondere una nuova prospettiva esistenziale, emergano e conquistino autonomia.

Una lotta che sia trasgressione serrata alle sue insulse imposizioni, che generi resistenza alla sua manipolazione, che ne ostacoli lo sviluppo con azioni volte a danneggiarne la produzione, la distribuzione e il consumo dei prodotti. Un’azione generalizzata, selvaggia e volontaria che non si illuda di sovvertire l’irreversibile, ma lo eroda lentamente e ne penetri le fessure dando vita a realtà nuove edificate sull’armonia originaria, disciplinate dal diritto di natura, sviluppate attraverso relazioni spontanee e non prevaricatrici che solo in assenza di interesse possono germinare. Un’evoluzione dell’umanità volontaria e autodeterminata che, mondata dalle depravazioni, si riappropri della bellezza del mondo, goda nel farne parte, creda e combatta per il riscatto dell’umanità.

NOTE

*1 Gli spiriti richiamati dagli sciamani Yanomami. Da Davi Kopenawa e Bruce Albert, La caduta del cielo, Nottetempo, 2010.

In foto: Cloes Oldenburg, Floor burger, 1962

 

DARE UN GIUDIZIO

Spesso mi chiedo se esiste una relazione fra arte e anarchia.

Non tanto come l’essere ribelli possa favorire la produzione artistica. Questo mi sembra scontato, come dimostrano gli infiniti casi di coloro che, una volta arricchitisi o assuefatti al sistema, senza animus sovvertitore perdono la vena creativa. Quanto al fruitore che si immerge nell’opera vivendo un’esperienza estatica assimilabile a quella provata dal libertario nel momento in cui si identifica con gli esseri che lo circondano e si fonde con la realtà per partecipare all’unità universale.

La risposta è sempre positiva perché entrambe sono esperienze identitarie che consentono di percepire e, per alcuni fortunati, vivere la cosa in sé. Il più grande prodigio che l’individuo possa conoscere e a cui possa partecipare. L’unico che merita di essere raccontato.

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Si dice: “penso quindi sono”. Una volta credevo fosse una delle tante perle di saggezza di mia nonna, poi al liceo ho scoperto che Cartesio l’aveva affermato quattro secoli prima. Ho impiegato anni per riprendermi dalla delusione.

Il filosofo asseriva che, mettendo in dubbio qualsiasi affermazione, si può arrivare a massime vere o false. «Ehi prof, ma uno più uno fa sempre due!» una volta un suo allievo lo sorprese. «Fa due?» egli ripeté sospeso. «Fammi pensare un po’…!» Ordinò al valletto di portargli un pallottoliere. Spostò una pallina. Spostò quella accanto. Le fissò così a lungo che un altro studente: «Ma questo ci è o ci fa?» borbottò. Il maestro sollevò la testa e saettò il suo sguardo da genio: «Ci sono!» tuonò. Poi andò via lasciando sbigottiti i presenti.

Questa è la genesi mai raccontata della massima con cui Cartesio esprime la coscienza che l’uomo ha di se stesso quale soggetto pensante. Da quel momento l’umanità ha appreso due cose: la prima è che il pensiero è volontà, la seconda è che esistono tante volontà quante le personalità.

A dire il vero, ce n’è anche una terza, ovverosia che non tutte le personalità sono uguali. Infatti quelle dei due studenti zelanti hanno dovuto abbandonare matematica e iscriversi a scienze politiche.

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Il pensiero è quindi quell’attività psichica mediante la quale l’essere prende coscienza di sé e del mondo. Alla fase cogitante segue il giudizio, attraverso cui si manifesta. Tanti giudizi quante sono le persone. Ma se in natura la contraddizione diventa identità in quanto le soggettività si equivalgono nell’identità unitaria, i giudizi sono diversi perché diverse sono le storie di chi li esprime.

Prendi la reazione dell’osservatore di fronte a un’opera d’arte. Che so, il Campo di grano con corvi di Van Gogh. Egli può soffermare l’attenzione sul contrasto cromatico fra il giallo vitale e il cobalto tenebroso. Altri sullo stormo di corvi che si leva cupo o sul cielo agitato o sui sentieri serpeggianti. Qualcuno può cogliere il ritmo vorticoso delle pennellate con le quali il pittore proietta la sua sofferenza sulla realtà circostante. Qualcun altro può spingersi oltre condizionato dalla suggestione dell’orecchio mutilato. Insomma, ad ogni punto di osservazione corrisponde un’interpretazione della volontà cristallizzata nell’opera, che poi si manifesterà con un giudizio.

Ma se esistono infinite volontà che esprimono altrettanti giudizi, è possibile stabilire se uno è migliore degli altri?

Mi spiace deluderti, ma la risposta è sì. E per non farti perdere tempo, dico subito che dipende dalla credibilità di chi lo manifesta.

Credibile è ciò che ha la capacità di ottenere credito, cioè ispirare fiducia, come recita il dizionario.

Nella società un’affermazione è tale quando chi la esprime possiede autorità riconosciuta da tutti. Può essere acquisita per merito, ad esempio lo scienziato capisce di scienza più dell’uomo comune. Ẻ quando la mischia con l’economia che va in confusione! Può essere del leader che impone le sue regole ai sottomessi. Può essere dell’autocrate, come il prete, il governo, le istituzioni sociali o chiunque detenga il dominio in virtù dell’aurea sacrale che si è autoconferito. In ogni caso essa è la prerogativa di una élite a cui corrisponde l’accettazione o l’obbedienza uniforme della massa.

Considera l’affermazione anarchica “il governo è sempre tiranno”. Pur essendo una frase vera, viene pronunciata da soggetti che la manipolazione mediatica definisce non credibili. Con la conseguenza che anch’essa non lo è. Al contrario, se un giudizio falso come “gli anarchici vogliono il caos” o “gli anarchici sono dei criminali” viene reso da un’autorità apparentemente credibile, e poiché niente lo è di più di chi se l’è autoconferita, come per magia diventa apodittico. Il Potere conosce questo meccanismo e fa quello che gli pare!

Scendendo più in basso, invece, la credibilità dipende dal carisma determinato dal rango, dalla professione svolta, dalle attitudini personali, dalla conoscenza, dalla sensibilità e da altri attributi. Sono però filtri soggettivi che sottolineano l’autorità del dichiarante senza tuttavia rilevare alcunché sulla effettiva conoscenza della realtà esaminata e giudicata. Quindi sulla veridicità della sua affermazione.

Ne consegue che giudicare il giudicante per il suo retaggio è come scommettere l’intera posta su Golia solo perché è grosso. E poiché la credibilità di un giudizio non può dipendere dalle ragioni per cui chi lo manifesta sembri o meno degno di fiducia, occorre scavare oltre la superficialità. Ma per farlo, bisogna cambiare la prospettiva: non soffermarsi sugli attributi del referente, bensì concentrarsi sull’esperienza che ha vissuto. Ovverosia valutare quanto sia stato in grado di affrancarsi da ciò che è per immergersi nella realtà che deve essere giudicata per quello che è.

L’uomo è pertanto credibile quando la sua esperienza è onesta. Quando cioè le competenze, i condizionamenti sociali, gli interessi e gli orientamenti personali e tutto ciò che preconfeziona la coscienza e contamina il sé lasciano il posto alla spontaneità. Soltanto una volontà libera può accedere alla verità creando relazioni affettive, simpatetiche, empatiche con gli elementi che la vivificano, diventano loro sostanza, poi essenza universale. Terminata l’ebrezza, condividerla è una necessità amorosa non meno inebriante.

Come capire questa sincerità? Facile. Perché la verità è sempre nei silenzi.

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Il rapporto con l’arte spiega il concetto meglio di altri esempi.

L’opera artistica rappresenta la visione della realtà secondo il suo autore. Ma è anche il luogo in cui si incontra con quella del fruitore.

Il posto è misterioso, in alcuni casi impenetrabile come una selva. Difficile orientarsi e le conoscenze apprese ai tempi in cui si era Giovani Marmotte producono il solo risultato di girare intorno più e più volte. O ci si abbandona allo sconforto e si comincia a tirare calci agli alberi col rischio che una pina cada in testa, oppure ci si lascia andare affinché la natura possa guidarci.

Allo stesso modo, di fronte alla creazione dell’artista, bisogna abdicare le presunzioni, i pregiudizi, le conoscenze e donarsi ad essa. Solo facendone parte si può comprenderla. L’attore deve essere libero di abitare l’opera. Vivere la dimensione altra per trasformarsi in volontà nuova. Ma perché si realizzi questa dissoluzione e ricomposizione, come lo sciamano che dilata i confini percettibili immergendosi nel sogno, la volontà deve abbandonarsi alla casualità dell’istinto. Volare con le note, fluire fra le pennellate, formarsi e sformarsi plasticamente, accarezzata dal suono delle parole o partecipe dell’azione. Ed è allora, quando entra nell’opera e interagisce con i suoi elementi, quando il vecchio sé è trasformato in un sé semioticamente nuovo, che l’esperienza s’illumina d’immenso. Improvvisamente il mistero diventa comprensibile, il sogno reale. Tutto ha un senso. Ecco l’idea. Rivelata dalla improvvisa connessione di volontà, quella dell’autore e quella dell’attore, che esplode nell’ebrezza estatica dell’identità. Sarà poi compito della ragione conservare e donare al mondo questa possanza attraverso il giudizio. Giudizio che sarà sempre vero perché chi lo esprime avrà compreso l’essenza che la anima grazie all’esperienza che lo ha reso creatore.

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In questi termini, la credibilità di chi vive un’opera d’arte è la medesima dell’individuo che si unisce alla natura per diventare il tutto.

Anche in questo caso egli è puro. Solo dopo che si è liberato dai pregiudizi che pervertono la volontà, potrà perdersi e ritrovarsi. Anche in questo caso l’esperienza sensoriale, se protratta e compiuta con affettuosa contemplazione, provoca un acquietamento che schiarisce il pensiero, rallenta e calma le pulsioni, sfuma e poi cancella intorno, induce alla dissociazione con la quale la volontà passa dal corpo agente a quello osservato, toccato, gustato, odorato, trasformandosi lentamente ma inesorabilmente in volontà dell’animale, della pianta, del fenomeno naturale, dell’oggetto inanimato. In quella corporeità nuova ma così reale prova istinti, sentimenti, emozioni, pensieri non umani, che trasformano la coscienza di sé in un nuovo sé. Una fusione che è identità spirituale e materiale. E quando questa trasposizione viene reiterata con infinite entità, scatena una connessione simbiotica universale in cui la coscienza tangibile della cosa in sé, la volontà del creato in divenire, esplode in tutta la sua rivelazione.

Non c’è niente di mistico in questi processi. Basta cercare, trovare e fare propria la bellezza. E poi esaltarsi nell’estasi. L’idea dell’artista e la volontà naturale sono verità che il sensibile e l’intellegibile individuano e vivono grazie all’esperienza trans-dimensionale, che è tanto più reale, tanto più viva, tanto più credibile, quanto il sé riesce a donarsi alle molteplicità e condividere con esse il tutto.

In fondo, cos’è la natura se non la più meravigliosa opera d’arte?

 

in foto Emile Nolde, Girasoli rossi e gialli, 1920.

L’ANARCHICO NELLA SOCIETA’ DEL DOMINIO

L’anarchia è un’attitudine, un sentimento che nasce nel momento in cui, di fronte alla sopraffazione, l’individuo decide di rimuovere la causa dell’abuso e ristabilire l’ordine armonico naturale. Alla prima fase emozionale di disprezzo e rabbia segue quella razionale di negazione ed emancipazione dalle restrizioni sociali e mentali. Cancellato ogni costrutto artificiale che provoca diseguaglianza, la volontà è libera di cercare nel mondo la propria seità creando relazioni spontanee.

Ma questo anelito libertario come può realizzarsi se l’anarchico è costretto a vivere nel contesto prevaricatorio capitalista?

 

Il capitalismo non è che l’evoluzione della logica del dominio in quanto perpetua la lotta fra forze dove il più forte soggioga il più debole per il proprio interesse. A differenza della natura, per cui la sopraffazione è una questione di sopravvivenza, mai di guadagno.

Di nuovo c’è che il profitto è un fine etico che legittima gli arbitri attuati per conseguirlo. Non occorre più ricorrere a dio, al retaggio, a qualunque astrazione metafisica. Approfittare degli altri per tornaconto è semplicemente giusto. Al contrario, chi non agisce mosso dall’egoismo, dalla competizione, dal sopruso è un sociopatico. Che avesse ragione Bookchin quando lo definiva “il più nocivo assetto sociale emerso nel corso della storia umana”?1

Di vecchio c’è che la prepotenza del più forte è fondata sul primato economico. Che si tratti di governo e sudditi, di datore di lavoro e operai, di capo e collaboratori, di uomini e donne, di bianchi e neri, eccetera, il denaro, la proprietà e l’accumulazione definiscono il rango, cioè l’autorità da cui deriva il potere, che diventa arbitrio in un circolo vizioso e senza fine che l’anarchico rifiuta per non esserne corrotto e osteggia per non essere complice delle ingiustizie.

Cosciente che il profitto schiavizza le menti e distrugge il mondo, negati gli inganni, i fanatismi, le perversioni comandate che lo eternano, si autodetermina creando una nuova prospettiva della realtà, delle relazioni, delle cose in cui i beni sono utili quando soddisfano le necessità primarie, mentre tutti gli altri sono semplicemente superflui. Rinuncia ad essere schiavo di questi ultimi e si procura i primi con sistemi alternativi al mercato, consapevole che, finché il profitto è scopo, l’anarchia è utopia.

Faccio l’esempio della tecnologia. Viviamo un’epoca in cui il progresso è concepito come sofisticazione. Benessere è sinonimo di comodità. E ci può stare visto che faticare non ha mai migliorato l’esistenza di nessuno. Non fosse che per realizzare prodotti tecnologici bisogna distruggere l’ambiente e sfruttare l’uomo. Al che l’anarchico si fa una semplice domanda: i vantaggi giustificano le perdite? E si dà una risposta secca e decisa: no! No perché la dipendenza da pixel non è un motivo sufficiente per colonizzare e devastare ecosistemi, sterminare e schiavizzare popolazioni. Così come un autoveicolo non giustifica l’inquinamento o, per estendere il concetto alla scienza, una cura sperimentale non motiva il sacrificio delle cavie. Vero che l’uno porta da un luogo a un altro in breve tempo e con i vestiti puliti, mentre la seconda può salvare vite umane, ma in cambio di quanta morte si ottengono questi privilegi?

Le persone non sono merce da consumare e poi gettare quando non servono più. E la natura non è un ambiente da contemplare solo nella scampagnata domenicale. La realtà è il tutto e il tutto è composto dalle infinite molteplicità connesse fra loro. L’umano e il non umano posseggono la medesima essenza che si manifesta con forme diverse e coesistono nell’equilibrio naturale, che ogni ingerenza deprava in maniera irreversibile. Ne consegue l’abbandono della prevaricazione in luogo di una vivida simbiosi fra specie e della partecipazione, cooperazione, distribuzione fra affini. Un’armonia condivisa in cui i beni non sono più ossessioni capricciose che compensano la precarietà esistenziale generando falsa autostima, bensì ausili con cui soddisfare i bisogni primari affinché mente e corpo siano liberi di cercare la felicità nel mondo circostante. Quando non assolvono questa funzione sono semplicemente inutili e dannosi.

Un rivolgimento etico possibile perché l’anarchico pensa e agisce secondo una nuova visione universale. Se infatti il profitto è la giustificazione logico-teleologica del dominio, l’antropocentrismo è il presupposto ideologico. Razionalizzato da Aristotele, elaborato dalle varie correnti cristiane e cristallizzato dalla scienza, la religione moderna, esso pensa il mondo come un’organizzazione gerarchica capeggiata dall’uomo che, in virtù del suo primato, può saccheggiare a piacimento e senza rimorso.

L’anarchico sovverte questa prospettiva tassonomica e definisce una nuova eguaglianza fra umano e non umano. Attraverso l’esperienza sensoriale, emotiva, spirituale con la natura, si fonde con l’indistinto per partecipare al suo eterno divenire. In questo modo l’equilibrio è connessione incessante, scambio reciproco e condivisione consapevole. Una rivoluzione etica che abbandona gli egotismi antropici e crea una dinamica caratterizzata da “relazioni affettuose” ed egualitarie fra intersoggettività attraverso cui fondersi nel tutto.

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Nella società del dominio l’anarchico è un dissidente, non un rivoluzionario che vuole cambiare l’ordine delle cose per costruirne uno fondato sui medesimi presupposti. Il suo slancio disertore e sovversivo aspira innanzi tutto a sottrarsi al mercato, nutrimento del Potere e gabbia delle potenzialità personali, sviluppando un’economia clandestina fondata sui principi autarchici della volontarietà, autogestione, solidarietà, eguaglianza, cooperazione, equa partecipazione alla produzione e distribuzione, eccetera. Al contempo, però, realizza azioni continuative e selvagge, reattive e destabilizzanti, pianificate, coordinate, condivise contro di esso. L’anarchico è umile: non brama di sostituire un sistema con un altro. Lo erode lentamente. Destabilizza per conquistare spazi di autonomia.

Ecco alcuni esempi di condotte libertarie realizzate per logorare il mercato:

-Lo sciopero permanente e senza trattativa.

Se nessuno lavora, non c’è produzione. Se non c’è produzione, addio profitto dei Grandi Affari. E a cascata dei meschini opportunisti. Massima soddisfazione col minimo sforzo.

-Il boicottaggio, sabotaggio e contrabbando delle merci.

Vale quanto appena detto. Con l’aggiunta che, oltre al danno da mancato guadagno, l’impresa deve sopportare anche i costi di fabbricazione. Inoltre favorisce l’artigianato, l’orticoltura e altre forme di produzione personale e comunitarie in luogo della massificazione globalizzata. Il mercato deve essere dell’individuo e per la comunità, non di tutti nell’interesse di pochi.

-La rinuncia all’acquisto.

Da esercitare quando i beni sono realizzati con attività immorali come lo sfruttamento umano e ambientale. Penso a chi smercia prodotti provenienti dall’agricoltura massificata, che usa senza scrupoli sostanze tossiche e lesive delle biodiversità. Penso all’allevamento intensivo, in cui gli animali vengono impudentemente torturati per tutta la loro esistenza. Penso alle merci fabbricate schiavizzando la manodopera o alla già citata tecnologia per cui si colonizzano e depauperano civiltà ed ecosistemi. Penso alla produzione industriale e globalizzata, dove la singola impresa inquina e danneggia cinicamente quanto l’insieme degli abitanti di intere città. Penso allo sfruttamento mentale, tipo quello che genera ipocondriaci disposti a vendersi per una pasticca. Che poi fosse di quelle buone!

-Gli assalti e aggressioni alle istituzioni, l’abbattimento di infrastrutture, gli attacchi informatici, il furto e la distruzione di beni, di attrezzature, di kwow how, e tutte quelle azioni fantasiose ispirate al codice penale.

Si tratta di dimostrazioni efficaci, ma non per tutti. Oltre a una buona dose di intraprendenza, infatti, bisogna saper reagire ai mastini che non vedono l’ora di mordere e ai farisei che trepidano per avere l’occasione di mostrare la propria intransigenza.

-Cessare i rapporti con quegli istituti che alimentano il mercato e approfittano di esso per arricchirsi.

Chissà perché mi vengono in mente le banche!

Chiudere i conti, non usare carte di credito, non chiedere o interrompere i finanziamenti. Una volta estinte sparirà la finanza, l’industria non reggerà l’impatto e l’economia tornerà ad essere scambio faccia a faccia. Affrancarsi da questi strozzini è un atto liberatorio come un gesto dell’ombrello fatto di cuore.

-Senza dimenticare l’occupazione o squatting.

Occupare significa prendere possesso e disporre di ciò che non appartiene. Iniziativa che, oltre agli evidenti riflessi pratici, possiede un altissimo valore morale giacché cancella l’istituto fondante il dominio: la proprietà.

Può avere ad oggetto beni in uso o abbandonati. Un esempio del primo sono i fabbricati aziendali conquistati per impedire la produzione. Poiché però la solerte violenza di Stato ne caratterizza la temporaneità, la sua funzione è più propagandistica che concreta.

Più efficace è invece l’occupazione di siti civili, rurali, fabbriche, altro, fatiscenti, dismessi, abbandonati o incustoditi, che vengono restituiti a nuova vita per essere utilizzati in occupazioni artistiche, educative, produttive, come centro operativo per attività sovversive, oppure quale luogo in cui organizzare l’autogestione della comunità, senza mai perdere tuttavia lo spirito nomade.

In un mondo giusto la morale e il servizio sociale svolto da questi refrattari dovrebbero esser esaltati anziché perseguiti!

 

Potrei proseguire, ma qui mi fermo rilevando che sì, se queste azioni danneggiano l’usurpatore, possono anche procurare disagi al dissidente: quando l’impresa non guadagna, egli non riceve il salario; quando non consuma, perde l’identità sociale; quando compie crimini può finire in gattabuia. Eppure, gli “costa meno incorrere nella pena prevista per la disobbedienza allo Stato di quanto gli costerebbe obbedire. In questo caso sarebbe come se valesse di meno”, diceva Thoreau2. Senza trascurare comunque che la comunità di appartenenza fornisce sempre sostegno, collaborazione e difesa a tutti i suoi membri. Diversamente dalla collettività civile, infatti, non li salvaguarda solo quando li può sfruttare.

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Il mercato non è l’unico destinatario dell’azione anarchica. Privilegi e privilegiati non esisterebbero senza la compiacenza dei governi e della società civile.

Luogo omologante per eccellenza, quest’ultima è il mezzo con cui il Potere subordina la massa ai suoi interessi. Attraverso le tradizioni, le moraline, i pregiudizi, la standardizzazione conservatrice, aggiungo scienza, cultura e religione quali manifestazioni illustri del suo spirito conservativo spacciato per ipocrita progresso, approfitta delle fragilità individuali per plasmare alla servitù volontaria.

Prima ho detto che nella società del dominio l’anarchico non può fuggire completamente dall’economia. Non può nemmeno sottrarsi totalmente alla società. Tuttavia può ignorarla, rovesciare i suoi fini, cospirare contro i suoi metodi, disattendere le sue manipolazioni e opporsi ai suoi diktat quando derogano, ledono l’armonia e comunque interferiscono nella volontà universale.

Difficile fare un elenco di azioni praticabili contro l’omologazione perché scelta, fini e modalità operative dipendono dal contesto e ogni realtà è un caso a sé. Innegabile, però, che la resistenza incessante e l’insubordinazione selvaggia siano le vie prioritarie per affrancarsi dal suo giogo e le comunità volontarie e clandestine siano lo strumento per realizzarle. Decidere come vivere e farlo insieme è avvincente. Avere anche il coraggio di sfidare l’ingiustizia è entusiasmante!

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Più difficile è sottrarsi all’ingerenza dello Stato, parafrasando Malatesta: quell’organizzazione creata dai signori per conservare e incrementare i propri privilegi. Vogliono che siamo, ma solo come vogliono loro. Quando i costrutti ideologici, le lusinghe del mercato e i settarismi della collettività non sono più sufficienti a uniformare le condotte, ecco il governo. Magari ammantato con quel tocco di ipocrisia idealista per cui è dei cittadini e per i cittadini o di ineludibilità trascendente per cui senza violenza non si impedisce la violenza. Tanto i sempliciotti che credono alle favole o che riconoscono la dipendenza come condizione necessaria per la propria esistenza3 non mancheranno mai!

Il principio assoluto da scardinare è che il governo è lo strumento con cui il Potere può imporre obbedienza e la collettività deve accettarla come un dono. Già questa follia rende etico opporsi alla sua autorità. Un’opposizione razionale, mai aggressiva, sia a causa della sproporzione delle forze in gioco, sia per non generare nuovo dominio.

In particolare l’anarchico disobbedisce attraverso un insieme di condotte attive o passive tipo:

-La trasgressione alla legge.

Ci sono i dementi, che obbediscono perché gli viene detto di farlo; ci sono i sempliciotti, che nell’ossequio si identificano; ci sono i furbetti, che sfruttano la regola per interesse. Poi c’è il refrattario, che agisce secondo volontà. Egli non trasgredisce per sfizio, né perché è un sociopatico. Infrange la legge perché essa fa gli interessi della padronanza, è una imposizione arbitraria e… E non solo, ma questo basta per renderla antitetica all’unica legge davvero inderogabile, quella della natura, che garantisce l’unità delle volontà perpetuando la vita senza bisogno di prevaricazione.

-Non partecipare alla farsa delle elezioni.

Astenersi dal rituale autoreferenziale del voto significa innanzi tutto non considerarsi interdetti che hanno bisogno del tutore. Ma anche non collaborare con le istituzioni mantenendo intatto il diritto di ribellarsi alla loro arroganza, non contribuire alla pantomima inscenata dalle elitè privilegiate, disconoscere il governo che si alimenta di arbitri, raggiri, manipolazioni, favoritismi, malversazioni, ricatti, scambi, convenienza e chi più ne ha più ne metta.

Nel migliore dei casi chi vota è un illuso, nel peggiore un complice. L’anarchico non è né l’uno, né l’altro. Sa che l’uomo è imperfetto. Per questo non vuole che abbia potere.

-Ignorare i servizi erogati dalle istituzioni.

Poiché lo Stato usa i diritti per creare servitù, diffidare, evitare, sfuggire alle sue lusinghe rende liberi. Peraltro qualunque prestazione esso fornisca realizza l’interesse di infami oligarchie che speculano sui bisogni umani o stringe la catena della schiavitù.

Nei casi in cui usufruirne è inevitabile, invece, meglio prendere senza dare. Non è un crimine, ma solo reciprocità.

-Smettere di contribuire economicamente al mantenimento del Mostro.

Senza giri di parole, non pagare i tributi. Le tasse versate per ottenere una prestazione e le imposte per contribuire al finanziamento di servizi collettivi sono in realtà una forma di “pizzo” con cui si alimentano i malaffari che perpetuano il Potere e nutre i parassiti del dominio. Il governo pretende di essere socio delle aziende, comproprietario dei beni, protettore dei risparmi, esattamente come la criminalità organizzata. Con due differenze: che i servizi di quest’ultima sono molto più efficienti dei suoi e che l’estorsione è istituzionalizzata da leggi che lui stesso ha creato. Numero uno!

Come il delinquente minaccia chi non paga la mazzetta, lo Stato intima sanzioni che fanno leva sull’ignavia di chi teme di perdere ciò per cui ha obbedito una vita. Ma con l’anarchico la minaccia non funziona. Egli si rifiuta di essere complice dell’ingiustizia. Non possiede beni, per cui non ha niente da perdere. Tantomeno ha paura. Più che un temerario è affine al saggio che non si preoccupa di ciò che non esiste. E per lui lo Stato è il niente assoluto.

Argomento controverso quello dei tributi. Come nessun’altro tira fuori il frustrato che è in ogni moralista. L’elenco degli ipocriti è infinito e va dal sottoposto che lamenta di essere costretto a pagare illuso che altrimenti il salario potrebbe crescere, all’affarista per cui l’accumulazione  è scopo di vita e  nessuno deve toccarla, al parassita che succhia per sopravvivere, all’aguzzino che senza evasori chissà come sfogherebbe il suo sadismo, all’intellettuale omologato per compiacere il proprio narcisismo, all’artista che ricorda la fame dei tempi andati, ai media che del clamore hanno bisogno per vendere, aumentare le inserzioni, avere profitto. Mannaggia, sempre a quel bastardo si torna!

NOTE

  • Bookchin, Per una Società Ecologica, Eleuthera, 2016;
  • Henry David Thoreau, Disobbedienza civile, 1849;
  • Judith Butler, La vita psichica del potere, Mimesis, 2013.

in foto Alfred Guillou, Adieu, 1892

 

A TUTTI… (da Don Chisciotte)

A tutti gli illusi,
a quelli che parlano al vento.
Ai pazzi per amore,
ai visionari,
a coloro che darebbero la vita per realizzare un sogno.
Ai reietti,
ai respinti,
agli esclusi.
Ai folli veri o presunti.
Agli uomini di cuore,
a coloro che si ostinano a credere nel sentimento puro.
A tutti quelli che ancora si commuovono.
Un omaggio ai grandi slanci,
alle idee e ai sogni.
A chi non s’arrende mai,
a chi viene deriso e giudicato.
Ai poeti del quotidiano.
Ai ” Vincibili ” dunque,
e anche agli sconfitti che sono pronti a risorgere e a combattere di nuovo.
Agli eroi dimenticati e ai vagabondi.
A chi dopo aver combattuto e perso per i propri ideali,
ancora si sente invincibile.
A chi non ha paura di dire quello che pensa.
A chi ha fatto il giro del mondo e a chi un giorno lo farà.
A chi non vuol distinguere tra realtà e finzione.
A tutti i cavalieri erranti.
In qualche modo,
forse è giusto e ci sta bene,
a tutti i teatranti .
[Don Chisciotte – Miguel De Cervantes]

COS’E’ LA FELICITA’

COS’E’ LA FELICITA’

Il Potere si è fatto furbo: non ordina, seduce. Promette benessere in cambio del corpo, necessario per lavorare, e della mente, necessaria per consumare. Con una mano aliena in fabbrica, in ufficio, in strada o dovunque paghino tre soldi da dissipare in consumi imposti ed estorsioni legalizzate, nell’altra tiene la caramella dell’accettazione sociale con cui premia chi si illude di realizzare la propria felicità se genera quella del più forte. Intanto l’economia si frega le mani, la politica è sempre più lorda di pervertimento, la massa affonda nella melma compiacendosi del suo sapore.

La chiamano socializzazione, ma è l’espediente attraverso cui controllare l’individuo. E per chi disattende il dovere di dissolversi in essa, quei pochi recalcitranti isolati, disprezzati, emarginati dalle sue dinamiche comandate, i mastini sono sempre pronti. A qualcosa dovranno pur servire!

Aveva ragione La Fontaine quando diceva che “il nostro nemico è il nostro padrone”. Con il capitalismo tecno consumistico però, esso non ha più un volto umano ma corrisponde al ruolo che ciascuno assolve per assimilarsi al branco. L’annientamento del sé in cambio del riconoscimento sociale quale unica fonte di felicità.

Ma è proprio necessario essere infelici per avere la felicità?

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Tanto per cominciare, si dice “sono felice”, non “ho la felicità”. Sembra una sciocchezza, ma le parole sono importanti e queste affermano che essa è uno stato personale che attiene all’essere, non all’avere. Ẻ un sentimento, non un bene di consumo che si può smerciare. Avere non è essere felici, ma sembrare felici.

Trattasi poi di uno stato soggettivo, per cui è difficile trovare sia una definizione universale, che un’uniformità di cause scatenanti. Può essere determinata da condizioni personali come l’età: una cosa può generarla a venti anni e non a cinquanta; lo stato sociale: l’affamato gioisce davanti a un tozzo di pane che invece disgusta l’abbiente; la personalità: io sto bene quando scrivo, Mevio quando fa i calcoli matematici. Solo per fare qualche esempio. E, come se non bastasse, muta pure per il soggetto stesso che, senza motivo apparente, oggi può rallegrarsi di un evento, che forse domani lo rattristerà. Siamo tutti così volubili!

Il capitalismo ha provato a standardizzarla omologando personalità, bisogni e desideri: un lavoro profittevole, maggiori comodità, l’arrivismo sfrenato, possedere più beni, consumare fino all’esaurimento, eccetera. E poi ha colonizzato ogni luogo col suo modello di società uniformata, reazionaria e conservativa affinché l’individuo fosse manipolabile, prevedibile, volontariamente succube.

Ma trattasi di finzioni che provocano uno stato di sospensione momentanea. Uno “stare bene” determinato dal riflesso sociale, quindi eteronomo, non soggettivo. L’illusione distrae, non cancella il baratro. In questo modo, infatti, la volontà affoga in artifici consumati i quali deve crearne di nuovi in un circolo vizioso e senza fine. Non bisogna essere illuminati per capire che i beni, i traguardi, gli interessi, i desideri, gli egotismi, i profitti creano bagliori di appagamento temporanei e subordinati alla contingenza, pertanto effimeri.

Perché invece la felicità sia piena e vera occorre svincolare la volontà da qualunque determinazione indotta. Deve godere di ineludibile spontaneità. Spontaneità che per manifestarsi richiede un ambiente che non ne pregiudichi le potenzialità. Un luogo incontaminato dove l’individuo diventa padrone esclusivo della propria sovranità e finalmente si percepisca non come entità isolata che si barcamena per sopravvivere, bensì come elemento di uno spazio, di un tempo, di una materia mutevole, senza principio né fine. In esso non simula eternità, è eterno.

Spogliatosi della precarietà insita nell’essere e che la socialità amplifica, la sua volontà contempla senza condizionamenti, instaura connessioni sensoriali e intellettive, si immerge nella sostanza delle cose producendo identità empatiche. Ora è pianta, ora è animale, ora è roccia, ora è vento e così via in un’immedesimazione simbiotica fra molteplicità che diventa fusione nella comune partecipazione. Replicata l’esperienza all’infinito svanisce la relatività in luogo di una partecipazione esaltante, senza regole, né tempo, né confini, illimitata e indeterminata, in cui vivere, non sopravvivere, nella condivisione dell’unità in continuo, eterno divenire.

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Asserire che l’unica forma di felicità è quella data dalla relazione genuina con la natura che porta a fondersi nella sua immensità non significa scegliere una vita selvaggia o sollecitare lo sviluppo di chissà quali attitudini sciamaniche. Non si tratta di essere primitivi della foresta o Baba che rifuggono la materialità per cercare l’elevazione spirituale. Vuol dire invece ripristinare l’equilibrio naturale che le artificiosità hanno pervertito.

La volontà si realizza quando sfoga gli istinti, soddisfa i bisogni, afferma le proprie possibilità, impara a relazionarsi attraverso l’autodeterminazione. E perché ciò avvenga deve evolvere in totale spontaneità, senza doversi adattare ai condizionamenti né obbedire alle imposizioni. Solo se pura, completamente libera dalle necrofile subordinazioni mondane che ora la ammorbano, spesso ne alterano l’essenza, trova la propria identità. Per questo ha bisogno di svilupparsi laddove niente è contaminato, guarda caso il suo ambiente primigenio.

Quanto gli artefatti creati dal consorzio sociale sono effimeri e fuorvianti, tanto l’ordine naturale è spazio entro il quale la volontà prende forma in tutta la sua integrità. La purezza si conquista con la libertà, ma la libertà si esercita e si mantiene quando, eliminati gli artefatti, si relaziona spontaneamente con le diversità, creando connessioni armoniche che consentano la condivisione e la partecipazione all’evoluzione di cui è parte. La Natura non è una fuga, ma lo stato in cui scoprire e realizzare se stessi. Una perfezione che, se condivisa con affini, è piacere sublime.

Riconoscere il primato dell’autenticità rispetto all’obbedienza coartata o automatizzata implica innanzi tutto rifiutare ciò che deprava le coscienze trasfigurando il sé: dalla logica del profitto alle idee fisse, al progresso barbaro e schiavizzante causa di ogni perversione. Divenuti padroni di se stessi, occorre dedicarsi a un’esistenza diretta ed empatica con l’ecosistema affinché l’alterità sia identità. Nessuna sofisticazione. Nessuna superfluità. Nessuna gerarchia. Nessuna prepotenza e malversazione. Nessun costrutto artificiale o obbligo prescritto da forze preordinate. Nessuna trasgressione alla propria indole. Ma entità interagenti, cooperanti e adattative, spontaneità che si relazionano in maniera egualitaria per compiere l’obbiettivo condiviso di perfezionarsi attraverso la biosimbiosi.

Quando la volontà è pura e opera in un ambiente non condizionato da pulsioni predatorie e distruttive, quelle esaltate da qualsiasi logica del dominio, dominio che nella nostra epoca prende forma di progresso civilizzante e omologato, è padrona di se stessa e istintivamente cerca l’identità nelle molteplicità che animano il mondo. Impara a connettersi ad esse, crea quelle interrelazioni che la portano alla percezione prima, alla fusione poi nel divenire universale della vita. Ed è nell’estasi dell’indistinta unità delle cose, che il dare e ricevere amore infonde felicità.

 

foto da Google Immagini

L’EGUALE LIBERTA’: LEGGE NATURALE DI RECIPROCITA’

Una società nevrotica difficilmente accetta i cambiamenti, le contraddizioni, le diversità. Il divergente mette in dubbio le sue convinzioni e induce a reazioni ai limiti del persecutorio. Viviamo l’epoca dell’ideologia woke dove principi giusti come il rispetto e la tolleranza verso il prossimo vengono pervertiti diventando paranoia. Con la conseguenza che qualunque manifestazione non conforme ai dettami preconfezionati si considera sessista, razzista, bullista, ipocritamente divisiva. Ma quando si ostacola il pluralismo attraverso principi che diventano persecutori si ha sempre tirannia. Soprattutto se il conformismo perbenista che lo propone e diffonde mira allo sfruttamento di nuovi mercati.

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Si definisce condotta offensiva quella che lede l’onore, il prestigio, in generale la dignità di una persona. Ẻ tale qualunque azione verbale o fisica, almeno al pensiero è lasciato il piacere di concepire le peggiori sordità, che turba o danneggia la personalità altrui. Non fosse che questa enunciazione rischia di comprendere uno spettro di condotte che sbilancia gli interessi sempre e troppo a favore della presunta parte offesa. Se infatti mi rivolgo a qualcuno dandogli dell’imbecille senza motivo, è ovvio che si offenda e reagisca. Ma se invece si è comportato da imbecille, dovrebbe ringraziarmi per averglielo ricordato.

La riconoscenza è virtù di pochi anche quando uso l’ironia, oppure mino i valori intimi dell’interlocutore scoprendone la fragilità. Faccio un esempio: Tizio invoca il suo dio per aiutarlo a realizzare un tale obiettivo. Caio sente e lo apostrofa più o meno scherzosamente che non esiste e se esiste ha cose migliori da fare. Tizio risponde che è un cafone perché non rispetta la sua fede e lo manda all’inferno. A quel punto Caio replica che l’inferno è sulla terra anche per colpa dei babbei come lui. E poi si sa come va a finire.

Questa situazione dimostra come le relazioni personali operino su un crinale periglioso, dove basta un niente per cadere nel precipizio. La sensibilità religiosa di Tizio ha infatti turbato quella agnostica di Caio, che con una battuta ne ha minato le convinzioni. Certo, il primo poteva evitare di vagheggiare in sua presenza. Il secondo doveva ignorarlo poiché i fanatici non perdono occasione per manifestare il loro integralismo. Se però comparare i peccati serve solo a chi vuole omologare le condotte, di sicuro non si può nascondere che la reazione di Tizio sia sproporzionata.

Sproporzione che è ancora più evidente quando ci si sofferma sulla causa scatenante lo scontro. Che non è la diversa visione della vita di cui ciascuno è custode geloso, non è la libertà di Tizio di credere nelle favole, né quella di Caio di deridere gli illusi. E’ bensì il tenore dell’affermazione di quest’ultimo percepita dal primo come lesiva. Per capire se e quando la reazione è fuori luogo basta quindi valutare la veridicità delle parole che l’hanno provocata. Se sono vere, cioè empiricamente incontestabili, offendersi è sbagliato o, quantomeno, esagerato. Semplice!

Tornando all’esempio, poiché è apodittico che il religioso sia un illuso, sarebbe stato molto più dignitoso per Tizio farsi una bella risata e riflettere sull’idiozia dei propri convincimenti.

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Situazioni di questo tipo si presentano molto più frequentemente di quanto si pensi perché la mente comune è intrisa della logica del dominio in cui necessariamente la prevaricazione deve realizzarsi o essere ostentata. Le persone non sono ciò che sono, ma l’immagine che vogliono altri abbiano di loro o che altri hanno creato e loro condiviso. Ciascuno è una maschera sociale che deve essere riconosciuta e accettata, pena la perdita dell’autostima. E in un contesto competitivo, nessuno vuole smarrirla perché ritrovarla è un bel casino.

Se a questo si aggiunge che la morale sociale, le leggi e tutte le regole imposte hanno innalzato il livello di suscettibilità, magari fosse sensibilità!, si spiega come oggi le persone agiscano determinate esclusivamente dalla emotività isterica dei bravi consumatori e non come uomini coscienti di sé.

Per fare un paragone, l’omologazione ipocrita e artificiosa dei comportamenti ha portato a una deformazione delle relazioni paragonabile a quella subita dal sistema immunitario a causa dell’ipertrofia terapeutica: quando non c’erano i vaccini, le medicine si assumevano di rado e il medico era una figura mitologica, la malattia era un evento naturale, a volte doloroso, spesso tragico, ma sempre parte dell’esistenza. La precarietà della vita terrorizzava allora come oggi, eppure la fitoterapia1 più o meno rudimentale era l’unica salvezza e non esistevano artifici o sofisticazioni dietro cui nascondere l’angoscia della transitorietà. Adesso invece, fra il mito del superuomo in salsa narcisistica, l’ossessione dell’igiene, l’uso salvifico dei farmaci istigato dai media e la fragilità interiore acuita dal sistema che induce a trovare sicurezza in condotte compulsive, senza dimenticare l’influenza dell’industria farmaceutica assunta a rango di oligarchia, sono tutti ipocondriaci che si ammalano come marmocchi.

Quando l’interferenza umana altera l’ordinario equilibrio delle cose ne corrompe l’attitudine. Poiché infatti la natura insegna che il divenire è armonia delle spontaneità, ogni ingerenza, sia pure quella che ipocritamente si definisce progresso, se concepita come ricchezza, confortevolezza, sofisticazione, semplicemente azione funzionale a una materialità interessata, la contamina generando precarietà e, di conseguenza, squilibrio. E come accade ogni volta di fronte alle fragilità, l’individuo reagisce, così gli è stato insegnato, nascondendosi dietro l’arroganza del dominio se ha il potere, attraverso illusioni indotte se lo subisce.

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Diverso è il discorso per l’anarchico. Egli concepisce le relazioni non come competizione, ma come sintesi. La sua realtà è costituita da pluralità di entità (animali, vegetali, pure i bipedi!) che si fondono armonicamente attraverso la partecipazione condivisa. Una biosimbiosi che è attitudine, ma che si compie solo dopo aver rifiutato la logica del dominio.

Rifuggendo il profitto che la fonda perché ostacolo alla fusione col tutto, le relazioni non sono sottese agli ordinari rapporti di forza, ma tendono reciprocamente all’armonia. Non solo quella umana, ma del biotipo in cui interagiscono. L’individuo è la comunità. Come direbbe Leopold: “allarga i confini per includervi il suolo, le acque, le piante, gli animali o, collettivamente, la sterra stessa… in una “eticità della terra” che esalta il comune “diritto di esistere”2.

In questo contesto non c’è bisogno di artefatti. Non ci sono maschere. La singola azione non è mai prevaricatrice. Ciascuno vive l’esistenza uniformandosi ai ritmi e alle leggi della natura. Quella da cui nasce e in cui ritorna con la morte. E quando l’obiettivo è fondersi nell’identità simbiotica in cui ogni essere è essenziale, non predare per interesse, l’unità diventa amore delle molteplici peculiarità. Molteplicità che partecipano alla processualità dell’esistenza in funzione del bene comune, che è semplicemente vivere. Non si domina, emargina, elimina, sopraffà l’altro perché necessario al compimento del sé, che si realizza nella condivisione.

Ecco perché nella comunità spontaneamente antiautoritaria le relazioni sono dirette, sincere, istintive, prive di sofisticazioni tanto con le entità materiali e immateriali, di cui ciascuno gode la magnificenza, tanto con i propri simili. Si chiama eguale libertà ed è quella legge universale che disciplina armonicamente l’azione di chiunque abiti il mondo. Consiste nel conoscere se stessi e legittimare gli altri in una coesistenza che esalta le pluralità senza vincoli imposti. Ma se per gli animali e le piante la giustizia è endemica, l’uomo, corrotto sin dalla nascita, deve emanciparsi dalla logica del dominio per imparare con l’esperienza ad essere natura.

Prima è necessario il rifiuto razionale delle imposizioni come la morale e la legge, le religioni, le ostentazioni, i pregiudizi, e tutto ciò che contraffà la volontà in funzione di un qualunque profitto. Dopo di che, divenuto padrone di sé, l’individuo può affidarsi all’istinto affinché essa trovi la propria identità nelle cose del mondo. Ẻ un processo spirituale e pratico al contempo, mentale ed etico, che opera come un’impollinazione, dove il polline, la volontà, mediante gli agenti impollinatori, le relazioni spontanee, crea la gamia, l’identificazione con le entità, e la seguente produzione del seme, l’estasi data dalla partecipazione al tutto. Una fusione edificata sulla reciprocità, in cui l’eguaglianza è garanzia di libertà e la libertà si compie solo quando tutti sono eguali.

Ovviamente chi non vuole evolversi ha pari dignità di esistere, ma la sua vita è un’inutile spreco di energia e un fastidio per chi ha capito che la verità è nella bellezza. Per questo, finché gli anarchici sono costretti a presenziare alla società del dominio, e così sarà finché essa non si estinguerà o sarà consentito loro di separarsi, vista l’inutilità del combatterla, offendere e irridere i conformismi dei suoi paladini non è solo strategico, è un piacere.

NOTE

*1- La fitoterapia è l’uso delle piante o degli estratto per curare le malattie e mantenere il benessere psicofisico.

*2- Aldo Leopold, Pensare come una montagna, Piano B edizioni, 1949.

IMMAGINE: August Macke, Giardini Zoologici, 1913

IL SUICIDA E’ PADRONE DI SE’ MA NON E’ UN LIBERTARIO

La vita è la cosa più importante che abbiamo perché senza di essa mancherebbe il resto. Eppure rispetto coloro che si suicidano. Il loro gesto profuma di quell’intenso “vaffanculo” che solo un ribelle può gridare.

AL contrario disprezzo gli integralisti dell’esistenza ad ogni costo che lezzano di quell’artefatto tipico delle persone fragili e insicure, bisognose di omologarsi al gretto idealismo per trovare una propria identità. Si ergono sul trono e tronfi declamano il più classico dei luoghi comuni, la più banale delle falsità: “la vita è un dono!”

Ma quale dono! Siamo carne che nasce, muore e si ricrea nel ciclo continuo della vita. Siamo materia. Materia che evolve in materia, che perisce diventando altra materia. Adesso è corpo umano, poi sarà pianta, animale o roccia, comunque sempre involucro con cui la singola volontà si manifesta, muta, compie nella processualità naturale. “La verità di un essere è il suo stesso corpo” dice Michael Onfray1. Senza di esso gli abitanti del mondo non potrebbero definirsi e determinarsi, non potrebbero identificarsi nel divenire universale.

Ma se il corpo è mezzo della volontà in azione ed essa ne dispone a piacimento per realizzare la propria natura, ne consegue che può compierla fra gli infiniti modi consentiti dal creato. Compresa l’autodistruzione.

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Tale autonomia non piace a chi del prossimo ha bisogno per soddisfare il proprio interesse. E così sono nati gli artifici che ingabbiano la volontà. A partire dalle religioni, il più secolare strumento di usurpazione dell’io, che concepiscono la morte come un portale, anziché valutarla per quello che è: un comunissimo evento fisico. Con un dio, qualunque dio, proprietario e padrone della vita, all’individuo non rimane che maneggiarla con cura per non farlo arrabbiare. In quest’ottica è inevitabile che il suicidio diventi un affronto imperdonabile al suo dominio.

La Bibbia lo aborrisce perché “chi uccide se stesso uccide un uomo”2, cioè l’essere che Egli ha creato “a sua immagine e somiglianza”3. E quando domanderà conto “della vita dell’uomo all’uomo”4, sarà meglio che il suicida trovi una scusa credibile.

L’islamismo, il competitor monoteista più agguerrito, non è meno intransigente. Dice infatti il Profeta che Allah è colui che fa vivere o morire e guai a scalfirne l’autorità perché chi “si suicida strozzandosi continuerà a strozzarsi nel Fuoco dell’Inferno (per sempre) e chi si suicida pugnalandosi continuerà a pugnalarsi nel Fuoco dell’Inferno”5.

Laddove invece il senso di colpa non è un dogma, come avviene per gran parte dei sincretismi orientali, le persone hanno una visione più chiara della realtà e la consapevolezza di sé si scontra con i modelli innaturali imposti dalla contingenza creando un corto circuito. Ecco perché quando da quelle parti qualcuno dice “vado a fare due passi!”, i familiari lo fissano coi lucciconi non sapendo se tornerà o meno.

Comunque interpretate, studiate, proposte, le religioni sono una “catalessi mentale”, come dice Armand. Impediscono all’individuo di essere padrone di se stesso inducendolo all’obbedienza volontaria verso qualcosa di illusorio.

Per questo il disinibito uomo moderno le ha sostituite con teismi più pragmatici, capaci tuttavia di conseguenze assai più devastanti. Statolandia ci chiama cittadini, ma ci tratta da servi. La Scientocrazia ci battezza uomini, ma ci reclama cavie. La prima si impone in nome di un bene comune che realizza il tornaconto dei Grandi Affari. La seconda ci subordina al progresso. Progresso che è sempre profitto, profitto che ingrassa i Grandi affari. Sempre lì si torna! Entrambe non accettano che l’individuo disponga del proprio corpo, quindi della propria vita, come vuole: l’’una lo assoggetta alla sua autorità limitando la possibilità di dispone, l’altra ne riconosce il primato perché da morti non si può produrre e consumare.

Così il suicida diventa un povero disadattato affetto da terribili disturbi psichici o psicosociali che perde il senno, anziché accettare il sistema che gli viene imposto con serena rassegnazione o rampante entusiasmo. E mentre terapeuti, psicologi, psichiatri e altri si interrogano su come i media riescano a omologare meglio di loro, i sociologi solleticano la responsabilità collettiva asserendo che il desiderio di farla finita è causato dalla mancata integrazione nel gruppo di appartenenza6. In questo modo non solo viene impedito all’individuo di scegliere se vivere o morire, ma è costretto a sorbire il giudizio dei moralisti e l’invadenza degli intrepidi salvatori che, beffa nella beffa, diventano “eroi” perché non si sono fatti gli affari loro. In epoca di delatori è inevitabile che gli impiccioni vadano in Paradiso!

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Non sono interessato alle motivazioni che inducono al suicidio. Servono ai familiari e agli amici per non sentirsi in colpa. Prevenirle invece è il disperato tentativo di chi non accetta la possibilità che qualcuno si sottragga al suo controllo.

Il dolore fisico, il disagio sociale, le patologie psichiche, gli eventi nefasti, le esperienze traumatiche e quant’altro sono tutte scuse dietro cui si cela la vera causa: l’assenza di speranza nel futuro che certifica la natura mortale. L’uomo teme la fine più di ogni altra cosa e la esorcizza ideando soluzioni consolatorie e di facile consumo.

Quando Tomas Shelby va a trovare l’amico Barney in manicomio gli chiede: “Tu sei sepolto qui, con la camicia di forza e non vedi la luce del sole, non vuoi morire, cazzo?” Questi risponde: “No, non voglio. Perché le cose potrebbero cambiare!”7.

Alla morte il detenuto oppone la speranza. Ma la speranza è uno slancio emozionale che proietta il sé in una suggestione, l’eventualità favorevole idealizzata, subordinando l’empirico all’immaginifico, il reale all’illusione, irragionevole e arbitraria per definizione. Detta diversamente, è un atto di fede. Una dissonanza cognitiva che il suicida, esattamente come il libertario, non può accettare. Lo spirito di entrambi è, infatti, completamente immerso nella realtà. Disprezzano i vagheggiamenti e ne irridono i praticanti. Per loro vale quello che dice il saggio: “ieri è storia, domani è mistero, ma oggi è un dono. Per questo si chiama presente”8. Con la peculiarità che, invece di prendere il dono, si donano.

Esattamente come il libertario, chi si toglie la vita possiede, consapevolmente o meno, la profonda percezione di essere atomo imprigionato nella roccia che, una volta liberato dalla radice di quercia, viene “gettato nel mondo delle creature viventi” e “aiuta a costruire un fiore, che diventa una ghianda, che ingrassa un cervo, che nutre un indiano”9, in un ciclo continuo inesorabile, ma esaltante. Esattamente come il libertario si fa beffe dei pregiudizi, delle imposizioni, dei personalismi per tornare al tutto.

Si fa beffe della legge. Benché, suppongo a malincuore, lo Stato non consideri più il suicidio un illecito, il suicida trasgredisce la regola che lo vuole sottomesso alla sua autorità onnipotente.

Si fa beffe della morale. Sia di quella religiosa, solo dopo il Concilio Vaticano II del 1962 la Chiesa ha consentito le esequie per chi si uccide, sia di quella sociale, che impone l’uniformazione e si concreta nella riprovazione con cui viene giudicato il divergente.

Si fa pure beffa degli affetti. Perché non esiste che uno passeggi per strada e improvvisamente dica: “sai che faccio, mi butto dal ponte!” e poi si butta davvero. Infiniti sono i segnali lanciati e non colti da coloro che, dopo la sua scelta, convivranno col senso di colpa. E ipocrite sono le obiezioni deresponsabilizzanti tipo quella per cui il suicidio è una forma di egoismo perché l’autore ignora i sentimenti dei cari e le conseguenze causate dalla sua morte, oppure quella che ciascuno deve essere portatore di valori positivi in quanto esempio per il prossimo.

La prima costringe a vivere per colmare le mancanze di chi non è riuscito a compensarle personalmente. Non mi sembra molto altruistico!

La seconda eticizzando la “guida” che l’interdetto, cioè l’individuo che si ritiene non sappia pensare e agire, deve imitare, replica in salsa laica del dio incarnatosi in Cristo “lasciandoci un esempio, affinché seguiate le sue orme”10. Suggestione talmente perversa che, guarda caso, viene impiegata ogni volta in cui bisogna sottomettere senza perdere tempo in azioni violente.

Entrambe ignorano non solo che la morte è un evento certo e imprevedibile con cui prima o poi bisogna aver a che fare e che non è l’antitesi della vita ma una sua dinamica ma, soprattutto, che quando il bene e il male sono trasmessi o imposti anziché ispirati da ciò che si è diventano prigioni della volontà. Chiunque deve essere libero di cercare la propria strada. Anche di perdersi. E se poi alla fine del lungo e periglioso cammino si ritrova davanti all’infinito, sarà il suo istinto, magari corroborato da qualche buon consiglio, a decidere da che parte andare.

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Chi si toglie la vita rompe con l’ordine esistente perché è padrone di se stesso. La sua volontà è pura, proprio come quella del libertario. E proprio come per il libertario essa trova nel ritorno alla natura il perfezionamento.

Con una differenza sostanziale, però. Per il primo, il processo non si compie attraverso l’identificazione con le molteplicità. Concepisce l’esistenza non come via per l’unione ma come oppressione da cui liberarsi. Nel momento in cui la volontà si reprime interferisce sul divenire. Crea una disarmonia. Anticipando i tempi dell’inevitabile, impedisce la partecipazione cosciente alla processualità naturale che può compiersi solo in vita. La sua è pertanto una scelta passiva dettata dal bisogno di evitamento che sorge dopo aver ignorato, rinunciato o, addirittura, fallito il tentativo di unirsi ad essa. Perché non basta desiderare l’estasi, perché le distrazioni ne ostacolano il compimento, perché determinarsi lasciandosi andare richiede comunque un’elevata e possente dose di audacia. E intuire la pienezza dell’amore senza riuscire a viverla è lacerante.

Il suicida è quindi un anarchico che non ce l’ha fatta.

Ẻ l’uccellino fuori dalla gabbia che non riesce a volare. Indietro non torna e davanti ha il pavimento. Ma sa che non sarà mai tanto libero come nel momento in cui perderà contatto con la superficie.

NOTE

1-Michael Onfray, La politica del ribelle, 2008.

2- Sant’Agostino, De Civitate Dei, 1,20.

3- Genesi 1,26, 27.

4- “dal sangue vostro anzi, ossia della vostra vita, io domanderò conto; ne domanderò conto ad ogni essere vivente e domanderò conto della vita dell’uomo all’uomo, a ognuno di suo fratello” (Genesi 9,5).

5- Sahih Al Bukhar 1365, libro 23, Hadith 117.

6- Emile Durkheim, Il suicidio, 1897.

7- Peaky Blinders, serie televisiva.

8- Frase del Maestro Oogway in “Kung Fu Panda”, film di animazione, 2008.

9- Aldo Leopold, Pensare come una montagna, Piano B editore, 1949.

10- Bibbia, 1Pietro 2:21.

Immagine: Repin, Ivan Il Terribile e suo figlio, 1581