5- L’anarchia non è caos

«Non è vero che noi anarchici vogliamo fare quello che ci pare!» eccepii. «Abbiamo una visione antigerarchica della società, ciò non significa che non ci sono regole. L’anarchia mica è anomia!». Mi infervorai.

«Ma se nessuno comanda?»

«L’anarchia non è il caos. Così viene narrata dai media, così credono i sempliciotti, così è perché la massa ragiona per luoghi comuni, perché chi è al potere ha paura di perderlo e s’inventerebbe chissà cosa pur di denigrare gli antagonisti. Dice uno scrittore anarchico contemporaneo che il governo, qualunque governo, ha sempre bisogno del ribelle come metro di paragone: “Se Tizio è contro lo Stato, Tizio è cattivo, quindi lo Stato è buono”1. La realtà però è ben altra cosa. Il caos è provocato dalla disuguaglianza, cioè dagli squilibri di un mondo in cui prevale la forza del dominante sul dominato…»

«Ancora con questo dominio? È un’ossessione la sua!»

«Ma il nocciolo è tutto qui! Se impongo a taluno qualcosa che non vuole fare e lo costringo oggi e lo costringo domani e dopo domani e dopo domani ancora, è probabile che prima o poi gli girino i così detti e voglia farmela pagare. Non le pare? Sa cosa diceva Rousseau nel suo Discorso sulla ineguaglianza

«Rousseau, quello di Emilio?2»

«Esatto!»

«Reminiscenze liceali!». Pottutto gongolò.

«Diceva che Hobbes si sbagliava! Diceva che non è vero che senza lo Stato le persone si sbranerebbero le une con le altre. E portava a conferma i recenti studi sulle comunità primitive, da cui si poteva evincere che nello stato di natura gli uomini non erano in continuo conflitto, anzi vivevano in armonia, spontaneamente, erano dei bravi selvaggi. Poi qualcuno ha creato la proprietà, sono nate le associazioni e i furbetti di turno hanno inventato lo Stato per difenderla. Così, per il filosofo ginevrino, è sorta la disuguaglianza.»

«Un po’ semplicistico!» obiettò il pubblico ministero.

«Stai a vedere che la salvezza dell’umanità è il ritorno alla scimmitudine!» si inserì Manganello.

«Si dice scimmiezza!». Pottutto lo corresse.

«Volevo semplicemente significare che il disordine si crea laddove c’è frustrazione, alienazione, spaesamento, superstizione, subordinazione, soggezione. Cioè dominio. Sa che già nel 1849 Proudhon affermava che l’anarchia è ordine senza potere?3»

«Non l’ho capita!»

«Conoscerà allora l’aforisma secondo cui la libertà è madre, non figlia dell’ordine

«No. Lei Manganello?».

Manganello trasalì: «Io conosco il coro: “o mamma mamma mamma, sai perché mi batte il corazon”…!» intonandolo pure.

«Ve la spiego in poche parole». Scossi la testa. «Per Proudhon l’imposizione provoca sempre una reazione che sfocia in quel disordine che l’autorità vorrebbe evitare o ricomporre4. Sostiene altresì che sia possibile costruire un’alternativa armonica, pluralistica e antiautoritaria in cui ognuno possa realizzare se stesso in comunione con gli altri, senza prevaricazione dell’individuo sull’individuo, della società sull’individuo, delle istituzioni sull’individuo. L’insegnante e lo studente, il carceriere e il detenuto, l’imprenditore e l’operaio, il marito e la moglie in una famiglia patriarcale, il governo e il cittadino-suddito, l’economia e i consumatori, sono alcuni esempi di rapporti di soggezione o gerarchici o chiamateli come volete, che l’anarchia vuole eliminare.»

«E se schiaccio una zanzara sul vetro della finestra è soggezione?». Il maresciallo si destò. «Mi perdoni, dottore. M’è venuta così!»

«Beh, a suo modo, ha senso…», difesi il commissario. «Negli ultimi decenni, infatti, con lo sviluppo delle nuovi correnti eco-anarchiche tanti compagni parlano di antispecismo… Non ho mai sentito prendere le difese delle zanzare, però la questione è più seria di quello che sembra!»

«Allora pure i cacciatori!» ribatté Pottutto per non essere da meno.

«Lì è serissima!» esclamai con un sorriso falso che mi consentisse di tornare al discorso principale.

Note

*1 Davide Marini, Anarchismi, Amazon.

*2 Jean Jacques Rousseau, Discorso sull’ineguaglianza, 1755; Emilio o dell’educazione, 1762.

*3 P. J. Proudhon, confessioni di un rivoluzionario, 1849.

*4 P.J Proudhon, Che cos’è la proprietà?, 1840.

Immagine: Robusti Enrico, Goal, 2015.

Editing a cura di Costanza Ghezzi, Thàlia Servizi Editoriali, www.costanzaghezzi.com, costanzaghezzi@gmail.com

 

4- Differenza fra anarchia e anarchismo

 

Prima di dare una definizione di anarchia, mi sembrò opportuno spiegare la differenza fra il termine anarchia e anarchismo.

«Adesso ci mettiamo a fare della semantica?»

«La filosofia è sempre una questione semantica!». Replicai con Heidegger.

«Le chiedo solo di essere il più breve possibile!»

Promisi di fare del mio meglio.

«Cos’è l’anarchia?» riflettei a voce alta. «L’anarchia è tante cose… Per me, direi, è un sentimento. Un sentimento di avversione verso qualunque forma di autorità, di oppressione, sopruso, ingiustizia. Ma non tipo: vedo un extracomunitario picchiato dal caporale, mi dispiace per lui ma tiro dritto. Più come: vedo un extracomunitario picchiato dal caporale e il giorno dopo gli faccio trovare i chiodi nel punto in cui parcheggia il furgone ogni mattina

«Manganello aggiunga: danneggiamento a proprietà privata!». Il pubblico ministero si eccitò.

«C’è già!» confermò il maresciallo.

«Allora scriva… manovre speculative su merci!». E a me: «Le piace?»

«Non so cosa sia, ma suona benissimo!» mi congratulai. Ripresi a parlare: «Come direbbe Malatesta: “la molla motrice” della scelta anarchica “è l’amore degli uomini, il fatto di soffrire delle sofferenze altrui”, cioè “il desiderio che tutti gli altri abbiano eguale libertà” e “giustizia”1. Questa è l’anarchia. La mia anarchia!»

«Tutto qui?» chiese Pottutto con un’espressione piuttosto delusa.

«Mi avete chiesto di essere sintetico!»

«Prosegua!»

«Volentieri!». Presi fiato e ripartii: «Il sentimento di disprezzo verso il dominio è comune a tutti gli anarchici. Da questo seme è poi cresciuto un albero con innumerevoli ramificazioni. L’anarchia offre, infatti, una molteplicità di soluzioni a volte anche contrastanti fra loro. Partendo da una comune critica del reale, esse sviluppano una molteplicità di valori-scopi, da cui derivano altrettante tattiche. Gli anarchismi, appunto. Si pensi all’antitesi fra anarco-comunismo e anarco-capitalismo. L’elemento comune di tutti questi anarchismi, però, è e rimane l’antiautoritarismo, cioè l’attitudine a negare, reagire e lottare contro ogni forma di dominio politico, economico, sociale, religioso, morale per costruire una società in cui ognuno sia libero di realizzare se stesso. Come direbbe Emile Armand, uno dei padri dell’anarchismo individualista: vogliamo vivere “senza essere né servi né padroni di nessuno”». Conclusi: «L’anarchia è quindi un sentimento, un’aspirazione, l’anarchismo è la sua attuazione. Pensiero e azione!»

«Pensiero e azione? Questa l’ho già sentita…» gorgogliò Pottutto. «La Giovine Italia? Mazzini, il grande patriota!2»

«Proprio lui!» convenni. «Quel gran patriota su cui pendevano due condanne a morte per terrorismo!»

«Altri tempi quelli!». Pottutto Sospirò.

Note

*1 Errico Malatesta, La Base morale dell’anarchismo, 1922.

*2 Pensiero e Azione è una rivista edita da Giuseppe Mazzini fra il 1858 e il 1860. La Giovine Italia è un’associazione politica insurrezionale fondata da Mazzini nel 1831.

Immagine: Eduard Munch, Vampire, 1893.

Editing a cura di Costanza Ghezzi, Thàlia Servizi Editoriali, www.costanzaghezzi.com, costanzaghezzi@gmail.com

 

3- Underground anarchico

«Non le dispiacerà quindi se tralascio la lettura delle accuse. Sono due pagine!». Pottutto scartabellò i fogli poi ebbe un ripensamento: «Non è curioso? Neanche un pochino? Non le interessa sapere che si va dall’associazione sovversiva, al terrorismo, al disfattismo politico…?»

«Pure il disfattismo?» lo interruppi. «Siamo mica in guerra!»

«La vita è una guerra!» sghignazzò il pubblico ministero.

«A proposito…» dissi.

«Prego!». Mi guardò da sopra gli occhiali.

«Non dovrebbe essere presente il mio avvocato?».

Pottutto oscillò la testa. «Dovrebbe?» chiese a Manganello.

«In teoria…» questi esitò.

«Verbalizzeremo come sommarie informazioni. Sarà una cosa informale. Fra amici, diciamo. Le piace così?».

Strappò coi denti il filtro della sigaretta e lo sputò facendo canestro nel cestino. La passò sulle labbra, la accese. Lesse a voce bassa qualche frase dal primo foglio: «Mi risulta che a dicembre del 2022 lei abbia aperto un blog dal nome di Underground Anarchico». Esibì una foto della home page. «Conferma?»

«Confermo.»

«Splendido!» assentì compiaciuto. «Carina la grafica!». Mostrò il logo al commissario. «L’ha fatta lei?»

«No.»

«Sa che mio figlio studia grafica? È anche bravino! Pure onesto sul prezzo! Se le servisse per le prossime volte… Perché questo nome?»

«Underground Anarchico?». Sollevai le spalle: «Mi sono ispirato al film di Kusturica.»

«Kusturica, certo!»

«Kusturica come Costanzo?». La segretaria chiese senza voltarsi.

«Kusturica come il regista del film Underground1» precisai. «Con la K all’inizio e la C finale.»

«Kusturizac?»

«Prima della A. E senza la Z.»

«Kusturicac?»

«Mi affascinava la storia di un gruppo di persone che vive per anni un’esistenza parallela a quella reale, ignorando la guerra, il regime di Tito, quanto accade fuori. Mi sembrava rappresentasse in maniera efficace, seppur surreale, quell’idea di esistenza alternativa a cui ho accennato nel blog. Perché vede…»

«Okay, okay!». Il pubblico ministero mi interruppe. «Il film le è piaciuto. Ma non credo la recensione sia rilevante ai fini delle indagini». Lasciò i fogli e appoggiò la schiena alla poltrona. «E perché la bandiera nera?»

«Perché è la bandiera degli anarchici. Si dice che venne sventolata per la prima volta da Louise Michel nel 1883 durante una manifestazione di senza lavoro

«Sembra il Jolly Roger dei pirati!»

«Forse perché siamo tutti un po’ pirati un po’ signori!2»

«Si è dimenticato il teschio, pero!»

«Un vezzo di originalità!» ironizzai.

«E perché l’aggettivo anarchico?»

«Perché parlo di anarchia, coglione?» avrei voluto rispondere. Invece: «L’ho trovato poetico!»

«Mi spieghi in che senso anarchico sarebbe un aggettivo poetico, perché non vedo poesia nel fatto che sia qui!»

Su questo niente da obiettare.

«E non vedo poesia neppure se quattro imbecilli imbrattano i muri di una strada o se dei giovani incappucciati sfasciano delle vetrine. Non le pare?». Con lo sguardo cercò l’approvazione di Manganello.

«Per non parlare della musica anarco-punk? Quella sì che…!». Il commissario ci sorprese.

«Anarco-punk?» chiese Pottutto come se non avesse capito bene.

«Clash, Sex Pistols, Crass, i Chumbawamba!»

«Mi spieghi quindi perché si definisce anarchico». Il pubblico ministero tornò a me.

«Lo spiego?»

«Spieghi, spieghi!».

Passai la mano sulla bocca. Milioni di parole, sensazioni, immagini, esperienze mi inondarono la testa. Non era facile sintetizzare. Perché l’anarchia era in me da sempre come io ero per lei. Era i miei pensieri, le mie azioni, le mie aspirazioni. Anarchica era la mia concezione della vita, la propensione con cui mi relazionavo con gli altri, il talento grazie al quale mi determinavo. Era un’idea meravigliosa diventata filosofia di vita. Una filosofia morale, come direbbero Kropotkin e Malatesta, che pulsava nelle vene e batteva, sussultava, martellava incessante.

«Signor Dopraho?» il PM mi riportò nella stanza degli interrogatori.

Recuperai una posizione che mi desse solennità e chiesi se aveva letto il mio blog: «Dopo tutto, sono qui per questo, no?»

«No!». Il pubblico ministero d’impulso. «Cioè sì, è qui per questo!» si corresse. «Quanto al blog, ho letto qualche stralcio». Tossicchiò nervosamente. «Ma è stato più che sufficiente, mi creda!»

«Allora vi avrà trovato la risposta alla domanda» proferii serafico.

«Nel blog?»

«Se l’ha letto!»

«Giusto!» ansimò. «Solo che cercarla adesso… saranno cento, duecento, trecento pagine!» Indicò la pila di fogli legati da un elastico che troneggiava sul tavolo.

«Le trova proprio all’inizio. Cerchi pure… Leggiamo insieme?»

«In coro? Non starà scherzando?»

«La vita è tutto uno scherzo di cui non siamo altro che gli inconsapevoli protagonisti!» Cominciavo a divertirmi. 

Per un attimo, temetti che quell’improvvisa arterite alla tempia destra sarebbe esplosa. Per questo, quando la sua mano arrancò sulla scrivania in cerca della pallina di pongo, la spinsi verso di lui.

Impastare per qualche secondo lo calmò. Tolse e: «Quale articolo devo cercare?» chiese. «Oh, aveva ragione. È proprio all’inizio!».

 

Note

*1 Underground, film di Emir Kusturica, 1995.

*2 Julio Iglesias, Sono un pirata ed un signore, 1978.

Immagine: Caravaggio, Incredulità.

Editing a cura di Costanza Ghezzi, Thàlia Servizi Editoriali, www.costanzaghezzi.com, costanzaghezzi@gmail.com

2- Autorità e potere

«Prima di cominciare, vorrei informarvi di un piccolissimo dettaglio» proferii senza enfasi.

Il pubblico ministero mi invitò a proseguire con un gesto fiacco della mano.

Schiarii la voce. Il cuore batteva forte perché era una vita che sognavo di dire quello che stavo per dire. Tante volte ero stato sul punto di farlo: scontri di piazza, posti di blocco, occupazioni, reati vari, ma mai la soddisfazione di un pestaggio, di un arresto, di un banale fermo, di un mediocre controllo delle generalità per poter affermare: «dichiaro di non riconoscere l’autorità dello Stato. Sono quindi vostro prigioniero politico!».

A parte gli occhiali del pubblico ministero scivolati dalla gobba del naso fin sulla punta, non un movimento dei muscoli facciali, non un respiro, una scintilla in quegli occhietti di triglia che guarda dalla cesta. Forse solo le occhiaie segnalarono il colpo, tinteggiandosi di un cupo color catrame, prima erano marrone castagno, sicuramente più in tono con il grigio tortora della sua pelle. Il commissario, invece, rimase com’era, con la mano incastrata nel doppio mento, un occhio aperto uno chiuso, bocca allentata da cui scivolava la pallina rosa di chewing gum. La segretaria finse di cercare qualcosa nella borsetta. L’agente davanti alla porta Sfinge era, Sfinge rimase.

Non che mi aspettassi folle in subbuglio, dichiarazioni di guerra gridate dal balcone di Palazzo Venezia o l’ingresso di Mastro Titta1, una maggiore partecipazione, però, direi proprio di sì!

Ricordo d’aver pensato: wow, tutto qui? E adesso che faccio?

Improvvisamente il tempo ripartì: «Splendido!» Il pubblico ministero ricominciò a impastare la pallina di pongo. «Quindi, se non ho capito male, noi potremmo anche andare via!». Si rivolse beffardamente al commissario.

Manganello implose in un asfittico: «E dove andiamo?»

«Ma dove vuole andare, Manganello!». Guardò me: «Verbalizziamo quello che ci ha detto, o basta che lo teniamo a mente?». Guardò il compare: «Lei cosa consiglia?». Tornò a me: «Che si fa in questi casi?»

«Non so» esitai. «In teoria, se non riconosco l’autorità della legge, non ho violato alcuna legge. Per cui potrei anche andarmene…». E poiché nessuno replicava: «Me ne vado?».

Il volto di Pottutto avvinazzò a chiazze: «Mi faccia capire: se non riconosce l’autorità dello Stato, suppongo non riconosca neanche la mia…»

«Beh, direi proprio di no!»

«Non sia così drastico, Dopraho. Ci pensi bene. Ho studiato fino a trentasei anni per essere qui. Potrei offendermi!».

Meditai sollevando lo sguardo: «Ci ho pensato. No!»

«Quella del commissario?»

«Assolutamente!»

«E perché mai?»

«Vuole che glielo spieghi?». Per un attimo mi sembrò di tornare all’esame di diritto penale, quando il professore chiese la differenza fra dolo specifico e dolo generico e io avrei voluto ripetergli tutto il Mantovani a memoria.

«Vede dottore» farfugliai. «Se me lo consente, partirei dal principio…»

«Adamo ed Eva?»

«No, la differenza fra autorità e potere… Diciamo così: c’è l’autorità e c’è il potere. L’autorità è un attributo, assegnato dalle tradizioni, dagli usi, dalla morale o dalla legge, che conferisce capacità a una persona, a un ente, a qualunque cosa di agire. In una parola: autorevolezza. Autorità, da augere, cioè innalzare, elevare. Se esercitata implica un’influenza, diretta o indiretta, assoluta o parziale, un’obbedienza passiva, che non esige spiegazioni.»

«Tipo la mia?» chiese Pottutto tronfio.

«Tipo la sua!» asserii. «E sa che ogni volta in cui mi trovo davanti a persone del suo calibro, penso sempre a Chomsky quando si chiede se l’anarchismo può accettare un’autorità eretta su fondamenta razionali?»

«Che domanda intelligente!» esclamò Pottutto, lisciandosi la barba. «E che risposta si è dato?»

«Certo che sì! Purché l’autorità non si trasformi in dominio. Un genitore, ad esempio. Lo assecondo, lo rispetto, da lui imparo. La mia ragione accetta la sua autorità. Ma il mio volere, che non è fatto di solo raziocinio e fortunatamente prende con le molle il buon senso, di fronte al suo ordine di non mangiare la Nutella…»

«Anch’io la sera ne mangio sempre una cucchiaiata di nascosto da mia moglie!» intervenne Manganello senza che nessuno l’avesse interpellato.

«Anche due!» rinforzò Pottutto con inflessione deridente. «Perché di nascosto?» aggiunse.

«Perché lei, più che l’autorità, c’ha il sadismo dentro!».

Ripresi a parlare: «Chi ha autorità possiede anche il potere, cioè la capacità di fare, di compiere le azioni che da essa derivano e che la esplicano. Prendiamo lei. Possiede sicuramente un’autorità, conferita dall’ordinamento e dilatata dalla devozione pubblica, che le attribuisce il potere di interrogarmi, incarcerarmi, in teoria anche farmi torturare. Mi segue?»

«Come no?» assentì. «Che diceva del torturare?»

«Dicevo che lei è una persona di potere…»

«Così mi lusinga!»

«Davvero!». Aggiunsi: «E non è da tutti! Robert Paul Wolff affermava che, se un ladro mi punta una pistola per derubarmi, io gli consegno i soldi perché riconosco in lui un potere – aggiungo intimidatorio – che mi induce a obbedire. Difficile, però, che possa riconoscergli l’autorità2». Sorrisi: «Anche se mi guarderei bene dal riferirglielo!»

«Eh, già!» convenne Manganello.

Proseguii: «In teoria il potere può essere convenzionale o arbitrario. Convenzionale quando viene esercitato legittimamente. Arbitrario quando è abusivo. Di fatto, però, può capitare, anzi spesso capita, che la norma o la morale o le tradizioni autorizzino pratiche ingiuste, oggettivamente ingiuste, semplicemente perché è utile al sistema, cioè alla loro conservazione. L’esempio classico è la schiavitù di cui parla Henry David Thoreau in Disobbedienza Civile3

«Non conosco. Quindi?»

«Quindi il potere diventa dominio ogni volta in cui si manifesta come arbitrio, cioè come esercizio di una potestà incontrastata. Presente quando Alberto Sordi, ne Il Marchese del Grillo, dice ai galantuomini: “Perché io so io e voi non siete un cazzo”4?».

Manganello frinì una risata trattenuta: «Troppo divertente Alberto Sordi!»

«Manganello, non sia banale!». Il PM lo riprese: «Vuole mettere Gian Maria Volonté?»

«E perché, la mimica di Nino Manfredi?» partecipai.

«Siamo mica qui per parlare di cinema?». Pottutto alzò la voce. «In base al suo ragionamento, io posserrei… possiderei… possetterei… avrei sia autorità, che potere, che dominio…». Sogghignò poi al fido scudiero: «Gliel’ho detto che possiamo fare quello che vogliamo!»

«Ecco perché quando portiamo i ragazzi nei sotterranei e poi diciamo che sono caduti dalle scale nessuno dice niente!» esclamò il commissario.

«Perché quando gli mettete la droga nella tasche?». Pottutto ammiccò un occhiolino.

«E quando lei falsifica i verbali?». Manganello replicò a tono.

«Manganello, non vorrà svelare tutti i nostri segreti!». Il PM s’irrigidì. Poi tornò a me: «Scommetto un mese del suo internamento che c’è un “ma”!»

«E’ una fortuna avere davanti un PM così sagace!» lo adulai.

«Dica dica, sono proprio curioso!».

«Poiché il confine fra l’auctoritas, cioè il potere di fare, e la potestas, cioè il potere su qualcosa, è molto labile, è facile si generino abusi, prevaricazioni, servitù, violenze. Per questo gli anarchici desiderano un mondo senza autorità, cioè potere, quindi dominio, coercizione, oppressione. E cosa rappresenta più di altri questo arbitrio?».

Pottutto fece labbrino. Manganello finse di rileggere gli appunti.

«Vi do un indizio: Stirner lo chiamava fantasma

«Stine? Conosce anche lei Stine?». Il commissario sobbalzò sulla poltrona.

«Chi è Stiner?». Il pubblico ministero domandò a Manganello.

«Stine, l’albanese arrestato ieri per violenza sessuale!». E con occhietti dolci: «A proposito, dopo che gli ho strappato i molari, ha confessato!»

«Stirner, con la erre!» precisai. «È un filosofo dell’ottocento autore del libro l’Unico e la sua proprietà. Un testo fondamentale per l’anarchismo5».

I due replicarono con la faccia inequivocabile dell’ignoranza.

«Stirner definiva lo Stato un fantasma… Certo, dal XIX secolo la società è molto cambiata. Dopo la Seconda guerra mondiale, ad esempio, il post-modernismo, Foucault in particolare, ha dimostrato che il potere non è solo statale, ma si manifesta in tutte le relazioni quotidiane, come l’educazione, la sanità, il governo, che operano fra loro realizzando governamentalità molteplici6. Ciò nonostante, l’abuso istituzionalizzato rappresenta, oggi più di prima, la sublimazione delle quotidiane prevaricazioni, legittimandole. Per questo l’anarchico era e sarà sempre un nemico dell’autorità pubblica. Mi spiace dottore, ma per gli anarchici non esiste alcuna sovranità al di sopra della propria!».

«Questo è un bel problema!» Pottutto bofonchiò, poi riprese a manipolare la pallina di pongo.

 

NOTE

*1 Mastro Titta, all’anagrafe Giovanni Battista Bugatti (1779-1869), famoso boia dello Stato Pontificio.

*2 Robert Paul Wolff, In difesa dell’anarchia, 1999.

*3 Hanry David Thoureau, Disobbedienza civile, 1848

*4 Il Marchese del Grillo, film con Alberto Sordi, 1981.

*5 Max Stirner, L’unico e la Proprietà, 1844.

*6 Michel Foucault, L’etica della cura di sé come pratica della libertà, intervista del 20.1.1984, in M Foucault, Antologia.

 

 

IMMAGINE: Pablo Picasso, Guernica, 1937

A cura di Costanza Ghezzi- Thàlia Servizi Editoriali, www.costanzaghezzi.com, costanzaghezzi@gmail.com