L’ANARCHICO NELLA SOCIETA’ DEL DOMINIO

 

L’ANARCHICO NELLA SOCIETA’ DEL DOMINIO

L’anarchia è un’attitudine, un sentimento che nasce nel momento in cui, di fronte all’ingiustizia, l’individuo decide di rimuoverne la causa e ristabilire l’ordine armonico naturale. Ma questo anelito libertario come può realizzarsi in un contesto prevaricatorio capitalista?

Non è un’iperbole definirlo il più nocivo assetto sociale emerso nel corso della storia umana1. Quale evoluzione moderna della logica del dominio in cui il più forte soggioga il più debole per il proprio interesse, a differenza dei precedenti non ha bisogno di ricorrere a dio, al retaggio, a qualunque astrazione metafisica per giustificare il suo arbitrio: approfittare degli altri per un tornaconto è semplicemente giusto. Che si tratti di governo e sudditi, di datore di lavoro e operai, di capo e collaboratori, di uomini e donne, di bianchi e neri, eccetera, il denaro, la proprietà e l’accumulazione definiscono il rango, cioè l’autorità da cui deriva il potere, che diventa arbitrio. Inevitabile che l’anarchico lo osteggi per non essere complice. Cosciente infatti che schiavizza le menti, deforma le coscienze e distrugge il mondo, nega gli inganni, i fanatismi, le perversioni comandate che lo eternano e si autodetermina creando una nuova prospettiva della realtà, delle relazioni, delle cose.

La tecnologia, ad esempio. Viviamo un’epoca in cui il benessere è sinonimo di comodità. E ci può stare visto che faticare non ha mai migliorato l’esistenza di nessuno. Non fosse che per realizzare prodotti tecnologici bisogna distruggere l’ambiente e sfruttare l’uomo. Al che l’anarchico si fa una semplice domanda: la sofisticazione giustifica i danni? Questione che in termini morali diventa: le compensazioni effimere scusano le sofferenze degli esseri umani e non umani? E si dà una risposta secca e decisa: no! No perché la dipendenza da pixel non è un motivo sufficiente per colonizzare e devastare ecosistemi, sterminare e schiavizzare popolazioni. Così come un autoveicolo non giustifica l’inquinamento o una cura sperimentale non motiva il sacrificio delle cavie. Vero che l’uno porta da un luogo a un altro in breve tempo e con i vestiti puliti, mentre la seconda può salvare vite umane, ma in cambio di quanta morte si ottengono questi privilegi?

++++

Le persone non sono merce da consumare e poi gettare quando non servono più. E la natura non è un ambiente da contemplare solo nella scampagnata domenicale. La realtà è il tutto e il tutto è composto dalle infinite molteplicità connesse fra loro. Un’armonia condivisa in cui i beni non sono più ossessioni capricciose che compensano la precarietà esistenziale generando falsa autostima, bensì ausili con cui soddisfare i bisogni primari affinché mente e corpo siano liberi di cercare la felicità nel mondo circostante. Se non assolvono questa funzione sono semplicemente inutili e dannosi.

Tale rivolgimento etico è possibile pensando e agendo in maniera divergente. Quando il profitto è la giustificazione logico-teleologica del dominio, l’antropocentrismo è il presupposto ideologico. Razionalizzato da Aristotele, elaborato dalle varie correnti cristiane e cristallizzato dalla scienza, la religione moderna, esso pensa il mondo come un’organizzazione gerarchica capeggiata dall’uomo che, in virtù del suo primato, può saccheggiare a piacimento e senza rimorso. L’anarchico sovverte questa prospettiva tassonomica e definisce una nuova eguaglianza fra umano e non umano. Attraverso l’esperienza sensoriale, emotiva, spirituale con la natura, si fonde con l’indistinto per partecipare al suo divenire. In questo modo l’equilibrio è connessione incessante, scambio reciproco e condivisione consapevole. Una rivoluzione che abbandona gli egotismi antropici e crea una dinamica caratterizzata da relazioni affettuose ed egualitarie fra intersoggettività attraverso cui fondersi nel tutto.

Cionondimeno finché risiede nella società del dominio è un dissidente, non un rivoluzionario che cambia l’ordine delle cose. E poiché il suo afflato libertario viene anestetizzato dal sistema, compensa la mortificazione con la lotta. Tre i suoi obbiettivi principali: il mercato che crea diseguaglianza, l’omologazione che sopprime l’individualità e il governo che protegge l’uno e incentiva l’altra.

Quanto al primo, il suo slancio disertore e sovversivo aspira a sviluppare un’economia clandestina fondata sui principi autarchici della volontarietà, autogestione, solidarietà, eguaglianza, cooperazione, equa partecipazione alla produzione e distribuzione, eccetera. Al contempo, però, realizza azioni continuative e selvagge, reattive e destabilizzanti, pianificate, coordinate, condivise, volte a destabilizzarlo per conquistare spazi di autonomia.

Fra le principali condotte si rilevano:

-Lo sciopero permanente e senza trattativa.

Se nessuno lavora, non c’è produzione. Se non c’è produzione, addio profitto dei Signori. E a cascata dei meschini opportunisti. Massima soddisfazione col minimo sforzo.

-Il boicottaggio, sabotaggio e contrabbando delle merci.

Vale quanto appena detto. Con l’aggiunta che, oltre al danno da mancato guadagno, l’impresa deve sopportare anche i costi di fabbricazione. Inoltre favorisce l’artigianato, l’orticoltura e altre forme di produzione personale e comunitarie in luogo della massificazione globalizzata. Il mercato deve essere dell’individuo e per la comunità, non di tutti nell’interesse di pochi.

-La rinuncia all’acquisto.

Da esercitare quando i beni sono prodotti con attività immorali come lo sfruttamento umano e ambientale. Penso all’agricoltura massificata, che usa senza scrupoli sostanze tossiche e lesive delle biodiversità. Penso all’allevamento intensivo, in cui gli animali vengono impudentemente torturati per tutta la loro esistenza. Penso alle merci fabbricate schiavizzando la manodopera o alla già citata tecnologia per cui si colonizzano e depauperano persone ed ecosistemi. Penso alla produzione industriale e globalizzata, dove la singola impresa inquina e danneggia quanto l’insieme degli abitanti di intere metropoli. Penso allo sfruttamento mentale, tipo quello che genera ipocondriaci disposti a vendersi per una pasticca. Che poi fosse di quelle buone!

-Gli assalti e aggressioni alle istituzioni, l’abbattimento di infrastrutture, gli attacchi informatici, il furto e la distruzione di beni, di attrezzature, di kwow how, e tutte quelle azioni brillanti ispirate al codice penale.

Si tratta di dimostrazioni efficaci, ma non per tutti. Oltre a una buona dose di intraprendenza, infatti, bisogna saper reagire ai mastini che non vedono l’ora di mordere e ai farisei che trepidano per avere l’occasione di mostrare la propria intransigenza.

-Cessare i rapporti con quegli istituti che alimentano il mercato e approfittano di esso per arricchirsi.

Chissà perché mi vengono in mente le banche!

Chiudere i conti, non usare carte di credito, non chiedere o interrompere i finanziamenti. Una volta destabilizzate, sparirà la finanza, l’industria non reggerà l’impatto e l’economia tornerà ad essere scambio faccia a faccia. Affrancarsi da questi strozzini è un atto liberatorio come un gesto dell’ombrello fatto di cuore.

-Senza dimenticare l’occupazione o squatting.

Occupare significa prendere possesso e disporre di ciò che per legge non appartiene. Iniziativa che, oltre agli evidenti riflessi pratici, possiede un altissimo valore morale giacché cancella l’istituto fondante il dominio: la proprietà.

Può avere ad oggetto beni in uso o abbandonati. Un esempio del primo sono i fabbricati aziendali conquistati per impedire la produzione. Poiché però la solerte violenza di Stato ne caratterizza la temporaneità, la sua funzione è più propagandistica che concreta. Più efficace è invece l’occupazione di siti fatiscenti, dismessi, abbandonati o incustoditi, che vengono restituiti a nuova vita per essere utilizzati in occupazioni artistiche, educative, produttive, come centro operativo per attività sovversive, oppure quale luogo in cui organizzare l’autogestione della comunità, senza tuttavia mai perdere lo spirito nomade.

 

Se queste ed altre azioni danneggiano l’usurpatore, indubbiamente possono anche procurare disagi al dissidente. Quando l’impresa non guadagna, egli non riceve il salario; quando non consuma, perde l’identità sociale; quando compie crimini può finire in gattabuia. Eppure, gli costa meno incorrere nella pena prevista per la disobbedienza allo Stato di quanto gli costerebbe obbedire, perché in questo caso sarebbe come se valesse di meno, diceva Thoreau2. Senza trascurare comunque che la comunità anarchiche forniscono sempre sostegno, collaborazione e difesa. Mica sono la collettività civile, che salvaguarda solo coloro che può sfruttare!

++++

Il mercato non è l’unico destinatario dell’azione anarchica. Privilegi e privilegiati non esisterebbero senza la compiacenza dei governi e della società.

Luogo omologante per eccellenza, quest’ultima è il mezzo con cui il Potere subordina la massa ai suoi interessi. Attraverso le tradizioni, le moraline, i pregiudizi, la standardizzazione conservatrice, aggiungo scienza, cultura e religione quali manifestazioni illustri del suo spirito conservativo spacciato per ipocrita progresso, approfitta delle fragilità individuali per plasmare alla servitù volontaria.

Difficile fare un elenco di azioni praticabili contro l’omologazione perché scelta, fini e modalità operative dipendono dal contesto e ogni realtà è un caso a sé. Innegabile, però, che la resistenza incessante e l’insubordinazione selvaggia siano le vie prioritarie per affrancarsi dal suo giogo e le comunità volontarie e clandestine siano lo strumento per rovesciare le sue strutture, disattendere le sue manipolazioni, opporsi ai suoi diktat. Insomma, se l’anarchia è creatività, la socializzazione è il luogo in cui sbizzarrirsi!

++++

Quando i costrutti ideologici, le lusinghe del mercato e i settarismi della collettività non sono più sufficienti a uniformare le condotte, ecco il governo. Magari ammantato con quel tocco di ipocrisia idealista per cui è dei cittadini e per i cittadini o di ineludibilità trascendente per cui senza violenza non si impedisce la violenza. Tanto i sempliciotti che credono alle favole o che riconoscono la dipendenza come condizione necessaria per la propria esistenza3 non mancheranno mai!

L’opposizione al tiranno deve essere razionale, mai aggressiva, sia a causa della sproporzione delle forze in gioco, sia per non generare nuovo dominio. In particolare l’anarchico disobbedisce attraverso un insieme di condotte attive o passive tipo:

-La trasgressione alla legge.

Ci sono i remissivi, che obbediscono perché gli viene detto di farlo; ci sono i sempliciotti, che nell’ossequio si identificano; ci sono i furbetti, che sfruttano la regola per interesse. Poi c’è il refrattario, che agisce secondo volontà. Egli non trasgredisce per sfizio, né perché è un sociopatico. Infrange la legge perché essa è un’imposizione arbitraria e… E non solo, ma questo basta.

-Non partecipare alla farsa delle elezioni.

Astenersi dal rituale autoreferenziale del voto significa innanzi tutto non considerarsi interdetti che hanno bisogno del tutore. Ma anche non collaborare con le istituzioni mantenendo intatto il diritto di ribellarsi alla loro arroganza, non contribuire alla pantomima inscenata dalle elitè privilegiate, disconoscere il governo che si alimenta di arbitri, raggiri, manipolazioni, favoritismi, malversazioni, ricatti, scambi, convenienza e chi più ne ha più ne metta.

Nel migliore dei casi chi vota è un illuso, nel peggiore un complice. L’anarchico non è né l’uno, né l’altro. Sa che l’uomo è imperfetto. Per questo vuole che nessuno abbia potere.

-Ignorare i servizi erogati dalle istituzioni.

Poiché lo Stato usa i diritti per creare servitù, diffidare, evitare, sfuggire alle sue lusinghe rende liberi. Peraltro qualunque prestazione esso fornisca realizza l’interesse di infami oligarchie che speculano sui bisogni umani stringendo la catena della schiavitù.

Nei casi in cui usufruirne è inevitabile, invece, prendere senza dare non è immorale ma solo reciprocità.

-Smettere di contribuire economicamente al suo mantenimento.

Senza giri di parole, non pagare i tributi. Le tasse versate per ottenere una prestazione e le imposte per contribuire al finanziamento di servizi collettivi sono una forma di pizzo con cui si alimentano i malaffari che perpetuano il Potere e nutre i parassiti del dominio. Il governo pretende di essere socio delle aziende, comproprietario dei beni, protettore dei risparmi, esattamente come la criminalità organizzata. Con due differenze: che i servizi di quest’ultima sono molto più efficienti dei suoi e che la sua estorsione è autocratica4.

 

Queste le attività che può svolgere l’anarchico non ancora fuggito dalla società del dominio. A parte quelle invasive o violente, che ho più volte criticato perché inutili, si possono sintetizzare nella non partecipazione alle sue attività. Nel momento in cui l’individuo si spoglia di ogni proprietà, non lavora, non consuma, non si indebita e non obbedisce ai suoi ordini, diventa un clandestino. Così sottrae consenso e priva il Potere del profitto indispensabile alla sua sopravvivenza. E applicando la non interferenza necessaria a garantire l’armonia delle cose, comincia a respirare un po’ di quell’aria fresca nella quale presto si immergerà.

NOTE

  • Bookchin, Per una Società Ecologica, Eleuthera, 2016;
  • Henry David Thoreau, Disobbedienza civile, 1849;
  • Judith Butler, La vita psichica del potere, Mimesis, 2013.
  • Argomento controverso quello dei tributi. Come nessun’altro tira fuori il frustrato che è in ogni moralista. L’elenco degli ipocriti è infinito e va dal sottoposto che lamenta di essere costretto a pagare illuso che altrimenti il salario potrebbe crescere, all’affarista per cui l’accumulazione è scopo di vita e  nessuno deve toccarla, al parassita che succhia per sopravvivere, all’aguzzino che senza evasori chissà come sfogherebbe il suo sadismo, all’intellettuale omologato per compiacere il proprio narcisismo, all’artista che ricorda la fame dei tempi andati, ai media che del clamore hanno bisogno per vendere, aumentare le inserzioni, avere profitto. Mannaggia, sempre a quel bastardo si torna!

 

in foto Alfred Guillou, Adieu, 1892

 

A TUTTI… (da Don Chisciotte)

A tutti gli illusi,
a quelli che parlano al vento.
Ai pazzi per amore,
ai visionari,
a coloro che darebbero la vita per realizzare un sogno.
Ai reietti,
ai respinti,
agli esclusi.
Ai folli veri o presunti.
Agli uomini di cuore,
a coloro che si ostinano a credere nel sentimento puro.
A tutti quelli che ancora si commuovono.
Un omaggio ai grandi slanci,
alle idee e ai sogni.
A chi non s’arrende mai,
a chi viene deriso e giudicato.
Ai poeti del quotidiano.
Ai ” Vincibili ” dunque,
e anche agli sconfitti che sono pronti a risorgere e a combattere di nuovo.
Agli eroi dimenticati e ai vagabondi.
A chi dopo aver combattuto e perso per i propri ideali,
ancora si sente invincibile.
A chi non ha paura di dire quello che pensa.
A chi ha fatto il giro del mondo e a chi un giorno lo farà.
A chi non vuol distinguere tra realtà e finzione.
A tutti i cavalieri erranti.
In qualche modo,
forse è giusto e ci sta bene,
a tutti i teatranti .
[Don Chisciotte – Miguel De Cervantes]

COS’E’ LA FELICITA’

COS’E’ LA FELICITA’

Il Potere si è fatto furbo: non ordina, seduce. Promette benessere in cambio del corpo, necessario per lavorare, e della mente, necessaria per consumare. Con una mano aliena in fabbrica, in ufficio, in strada o dovunque paghino tre soldi da dissipare in consumi imposti ed estorsioni legalizzate, nell’altra tiene la caramella dell’accettazione sociale con cui premia chi si illude di realizzare la propria felicità se genera quella del più forte. Intanto l’economia si frega le mani, la politica è sempre più lorda di pervertimento, la massa affonda nella melma compiacendosi del suo sapore.

La chiamano socializzazione, ma è l’espediente attraverso cui controllare l’individuo. E per chi disattende il dovere di dissolversi in essa, quei pochi recalcitranti isolati, disprezzati, emarginati dalle sue dinamiche comandate, i mastini sono sempre pronti. A qualcosa dovranno pur servire!

Aveva ragione La Fontaine quando diceva che il nostro nemico è il nostro padrone. Con il capitalismo tecno-consumistico però, esso non ha più un volto umano ma corrisponde al ruolo che ciascuno assolve per assimilarsi al branco. L’annientamento del sé in cambio del riconoscimento sociale quale unica fonte di felicità.

Ma è proprio necessario essere infelici per avere la felicità?

++++

Tanto per cominciare, si dice “sono felice”, non “ho la felicità”. Sembra una sciocchezza, ma le parole sono importanti e queste affermano che essa è uno stato personale che attiene all’essere, non all’avere. Ẻ un sentimento, non un bene di consumo che si può smerciare. Avere non è essere, ma sembrare felici.

Trattasi poi di uno stato soggettivo, per cui è difficile trovare sia una definizione universale, che un’uniformità di cause scatenanti. Può essere determinata da condizioni personali come l’età: una cosa può generarla a venti anni e non a cinquanta; lo stato sociale: l’affamato gioisce davanti a un tozzo di pane che invece disgusta l’abbiente; la personalità: io sto bene quando scrivo, Mevio quando fa i calcoli matematici. Solo per fare qualche esempio. E, come se non bastasse, muta pure per il soggetto stesso che, senza motivo apparente, oggi può rallegrarsi di un evento, che forse domani lo rattristerà. Siamo tutti così volubili!

Il capitalismo ha provato a standardizzarla omologando personalità, bisogni e desideri: un lavoro profittevole, maggiori comodità, l’arrivismo sfrenato, possedere più beni, consumare fino all’esaurimento, eccetera. E poi ha colonizzato ogni luogo col suo modello di società uniformata, reazionaria e conservativa affinché l’individuo fosse manipolabile, prevedibile, volontariamente succube. Ma trattasi di finzioni che provocano uno stato di sospensione momentanea. Uno stare bene determinato dal riflesso sociale, quindi eteronomo, non soggettivo. L’illusione distrae, non cancella il baratro. In questo modo, infatti, la volontà affoga in artifici consumati i quali deve crearne di nuovi in un circolo vizioso e senza fine. Non bisogna essere illuminati per capire che i beni, i traguardi, gli interessi, i desideri, gli egotismi, i profitti creano bagliori di appagamento temporanei e subordinati alla contingenza, pertanto effimeri.

Perché invece la felicità sia piena e vera occorre svincolare la volontà da qualunque determinazione indotta. Deve godere di ineludibile spontaneità. Spontaneità che per manifestarsi richiede un ambiente che non ne pregiudichi le potenzialità. Un luogo vergine dove l’individuo diventi padrone esclusivo della propria sovranità e finalmente si percepisca non come entità isolata che si barcamena per sopravvivere, bensì come elemento di uno spazio, di un tempo, di una materia mutevole, senza principio né fine. In esso non simula eternità, è eterno.

Spogliatosi della precarietà insita nell’essere e che la socialità amplifica, l’anarchico contempla senza condizionamenti, instaura connessioni sensoriali e intellettive, si immerge nella sostanza delle cose producendo identità empatiche. Ora è pianta, ora è animale, ora è roccia, ora è vento e così via in un’immedesimazione simbiotica fra molteplicità che diventa fusione nella comune partecipazione. Replicata l’esperienza all’infinito svanisce la relatività in luogo di una partecipazione esaltante, senza regole, né tempo, né confini, illimitata e indeterminata, in cui vivere, non sopravvivere, nella condivisione dell’unità in continuo, eterno divenire.

+++

Asserire che l’unica forma di felicità è quella data dalla relazione genuina con la natura che porta a fondersi nella sua immensità non significa essere primitivi della foresta o Baba che rifuggono la materialità per cercare l’elevazione spirituale. Vuol dire invece ripristinare l’equilibrio naturale che le artificiosità hanno pervertito.

La volontà si realizza quando sfoga gli istinti, soddisfa i bisogni, afferma le proprie possibilità, impara a relazionarsi attraverso l’autodeterminazione. E perché ciò avvenga deve evolvere in totale spontaneità, senza doversi adattare ai condizionamenti né obbedire alle imposizioni. Solo se completamente libera dalle necrofile subordinazioni mondane che ora la ammorbano, spesso ne alterano l’essenza, trova la propria identità. Per questo si sviluppa laddove niente è contaminato, guarda caso il suo ambiente primigenio.

Quanto gli artefatti creati dal consorzio sociale sono effimeri e fuorvianti, tanto l’ordine naturale è spazio entro il quale la volontà prende forma in tutta la sua integrità. La purezza si conquista con la libertà, ma la libertà si esercita e si mantiene quando si relaziona spontaneamente con le diversità creando connessioni armoniche. La Natura non è una fuga, ma lo stato in cui scoprire e realizzare se stessi. Una perfezione che, se condivisa con affini, è piacere sublime.

Riconoscere il primato dell’autenticità rispetto all’obbedienza coartata o automatizzata implica innanzi tutto rifiutare ciò che deprava le coscienze trasfigurando il sé: dalla logica del profitto alle idee fisse, al progresso barbaro e schiavizzante causa di ogni perversione. Divenuti padroni di se stessi, occorre dedicarsi a un’esistenza diretta ed empatica con l’ecosistema affinché l’alterità sia identità. Nessuna sofisticazione. Nessuna superfluità. Nessuna gerarchia. Nessuna prepotenza e malversazione. Nessun costrutto artificiale o obbligo prescritto da forze preordinate. Nessuna trasgressione alla propria indole. Ma entità interagenti, cooperanti e adattative che si relazionano in maniera egualitaria per compiere l’obbiettivo condiviso di perfezionarsi attraverso la biosimbiosi.

Quando la volontà opera in un ambiente non condizionato da pulsioni predatorie e distruttive, quelle esaltate da qualsiasi logica del dominio, è padrona di se stessa e istintivamente cerca l’identità nelle molteplicità contigue. Impara a connettersi ad esse, crea quelle interrelazioni che la portano alla percezione prima, alla fusione poi nel divenire universale della vita. Ed è nell’estasi dell’indistinta unità delle cose, che il dare e ricevere amore infonde felicità.