PERSONA PERBENE

La relazione col prossimo sarebbe uno stimolo, un completamento, una meraviglia, se non fosse alterata dai pregiudizi, dalla superficialità, dall’ignoranza, dalla volgarità, dall’ipocrisia, dalla manipolazione, dallo sfruttamento, dall’egoismo, dall’invidia… E siccome le persone vengono indottrinate alla competizione sin dall’infanzia, fanno a gara a chi è peggio!

Così è perché sono malate. Il profitto è la loro malattia. E il denaro, che ne rappresenta la manifestazione più immediata, è la droga che ha fuso loro il cervello. Non pensano ad altro. Vivono per quello. Dalla mattina alla sera lottano per appropriarsene. Quando ce l’hanno lo spendono. Altrimenti si indebitano o ricorrono al malaffare. Che è un po’ la stessa cosa.

Progresso, crescita, competizione, benessere, lusso, e tutti gli altri ideali e scopi materialisti non sanano ma accrescono la sofferenza. E pochi riescono a guarire abbandonando l’egotismo per vivere secondo natura. Sono coloro che si spogliano del superfluo per abitare la bellezza e sviluppano la propria personalità in armonia con essa. “La felicità è amore, nient’altro” (Hermann Hesse, Sull’amore, Mondadori, 2016)1. Perché di quella si nutre la volontà. Il resto è inganno. A te la scelta: Accettare la follia dell’omologazione o sembrare un folle facendo ciò che vuoi.

Nella società del profitto tutti vendono qualcosa. Ma se i compratori avessero gusti, aspirazioni, bisogni differenti, potrebbero scegliere e l’imprevedibilità non è positiva in un’economia che deve crescere all’infinito. Ecco perché quando guardiamo la televisione, ci distraiamo coi social, ascoltiamo la radio, eccetera, veniamo tempestati da messaggi che propinano sempre i medesimi valori, bisogni e scopi. In questo modo, manipola oggi, manipola domani, si crea l’opinione pubblica. La fidelizzazione è il primo obiettivo di ogni bravo mercante!

Dal Taylorismo in poi la pratica è stata utilizzata anche in ambito sociale per creare individui disciplinati, prevedibili e obbedienti, nonché lavoratori zelanti e consumatori infaticabili. Si chiama pensiero dominante ed ha il merito d’aver cancellato le diversità. Siamo ormai talmente programmati che quando un giorno gli automi ci sostituiranno, saranno più umani degli umani.

Laddove la manipolazione proselitistica non funziona, intervengono la sociologia, la psicologia, l’antropologia e tutte le altre “–ia” che distinguono fra normalità e anormalità. Normale è colui che obbedisce alle regole. Anormale è colui che non si adatta agli standard etici e comportamentali della comunità di appartenenza e quindi li viola. E’ un divergente che rifiuta di adattarsi al dogma dell’obbedienza e come tale o si redime o deve essere eliminato dal consesso sociale. Ecco perché la propaganda e la legge lo assimilano al pericoloso sociopatico. La collettività deve temerlo, deve emarginarlo, se necessario eliminarlo. Siamo ancora al buon vecchio “chi non è con noi è contro di noi!”2. Il fascismo non si è mai estinto. Si è solo fatto furbo!

Il manicheismo conformista rifiuta il confronto col ribelle perché rappresenta il giusto che non è. Ne disprezza la purezza. Ne irride la sincera moralità. Ne esalta la pericolosità. Lo restituirebbe al mito ardendolo nel fuoco o mozzandogli la testa se non fosse tanto ipocrita. Ai suoi occhi si è o non si è “persona perbene”. Si è conformi al senso comune, di cui la norma è sublimazione, oppure no. Senza domande. Senza dubbi. Interrogarsi sarebbe già un imperdonabile atto di insubordinazione poiché l’ordine, e qui la suggestione diventa ipnosi collettiva, è sempre legittimo perché legittima è l’autorità che lo emana. Che sia Dio, lo Stato, l’economia, la scienza o chi per esse. L’importante è che qualcuno l’abbia stabilito e tutti ci credano.

E così per questi moralizzatori “chi rispetta la legge è una persona perbene”, chi la viola no. Anche se dura lex sed lex, il “bravo cittadino” non trasgredisce, obbedisce senza riserve qualunque sia il contenuto e la fonte dell’ordine. Niente come l’altrui devozione spirituale, infatti, rafforza il loro tornaconto.

 

Le argomentazioni utilizzate sono molteplici.

In particolare mi riferisco a chi asserisce che nei sistemi democratici la legge non è arbitraria poiché rappresenta la volontà del popolo nell’interesse del popolo.

Facile dimostrare che la norma non è mai ispirata dal bene comune, bensì dalla “ragion di stato”. Che spesso consiste nel “tributo”3 imposto con o senza violazione. Con questo non escludo che talvolta gli interessi coincidano. Lo Stato è pur sempre un artificio umano e, per la legge dei grandi numeri, una cosa buona ogni tanto può venire anche a lui!

Altri aggiungono che la norma sia legittima perché sub judice, cioè soggetta alla garanzia del controllo costituzionale.

Senza addentrarmi nel pericoloso stato-centrismo echeggiato dal richiamo alle istituzioni, mi limito a rilevare che i giudici della Suprema Corte, dovendo giudicare una legge dello Stato, rispetto ad esso dovrebbero essere autonomi e indipendenti. Peccato vengano nominati pro quota dal Presidente della Repubblica, che quella ha sottoscritto, dal Parlamento, che quella ha promulgato, dalla magistratura, che quella deve far applicare (art 135 Cost). Più che super partes, mi sembra che tutti ne beneficino gaudiosamente!

Messi alle corde, i legalisti giocano l’ultima carta: il voto. La frase che pronunciano è sempre la solita: “eh, ma voi avete votato!” Che tradotta significa sia che il voto legittima le decisioni della politica, sia che: “li hai votati tu, che cavolo vuoi?”

Tanto per cominciare non tutti votano. Ad esempio, io ho votato solo a diciotto anni, giusto per vedere come funzionava. Ed è funzionato bene visto che il candidato scelto è stato arrestato per tangenti due mesi dopo.

In secondo luogo, come non notare che nelle ultime elezioni ha partecipato circa il sessanta percento degli aventi diritto. In quelle precedenti il settanta. Probabile che alle prossime sfiori la metà. Di questa vince la maggioranza. Ciò significa che il governo è sempre volontà di una minoranza. Ora, la matematica non è il mio forte, ma essere preso per il culo non è la mia aspirazione!

Oltre questo dettaglio numerico, solo l’eletto, un suo stipendiato o un suo cliens (chi riceve un favore nella pratica del clientelismo) può affermare che il voto non sia una finzione. Ẻ una finzione perché nessuno ha mai accettato l’ordine politico e le sue regole. Ẻ una finzione perché i media manipolano la massa in cambio di finanziamenti. Ẻ una finzione perché quando la scelta dei candidati è imposta si chiama imbroglio. Ẻ una finzione perché il voto è una delega in bianco in virtù della quale la politica agisce come vuole e senza conseguenze. Ẻ una finzione perché non ci si candida e si fa campagna elettorale senza tanto denaro o senza colludere col malaffare e in pochi, anzi pochissimi, posseggono il primo e sono capaci del secondo.

Potrei proseguire con l’elenco, ma qui mi fermo per non annoiarti.

Tutto questo per dire che il perbenista è solo un dissimulatore che si riempie la bocca di paroloni, sofismi e moralismi perché teme che la libertà degli altri possa ostacolare il suo profitto. Che di per sé avrebbe anche una sua logica. A parte il profitto, naturalmente.

Il conformismo è una scelta utilitaristica conservativa pervertita d’ideologia ostile. Se collettiva, come nel caso del pensiero unico, addirittura spietata. Il dito dei benpensanti è sempre puntato, il giudizio sempre solerte, la pena sempre crudele nei confronti di coloro il cui spirito e la cui condotta divergenti possano turbare la stabilità. Chi rispetta la legge non è quindi una “persona perbene”, bensì un complice del sistema delinquenziale. Perché il vero crimine non è violarla, quanto imporla per profitto impedendo alle persone di essere se stesse e definire regole proprie.

Per questo è molto più temibile dei suoi manipolatori.

Per questo ingannarla e trasgredirla dà così soddisfazione.

 

NOTE

*1 Testo completo: “Quanto più invecchiavo, quanto più insipide mi parevano le piccole soddisfazioni che la vita mi dava, tanto più chiaramente comprendevo dove andasse cercata la fonte delle gioie della vita. Imparai che essere amati non è niente, mentre amare è tutto, e sempre più mi parve di capire ciò che dà valore e piacere alla nostra esistenza non è altro che la nostra capacità di sentire. Ovunque scorgessi sulla terra qualcosa che si potesse chiamare “felicità”, consisteva di sensazioni. Il denaro non era niente, il potere non era niente. Si vedevano molti che avevano sia l’uno che l’altro ed erano infelici. La bellezza non era niente: si vedevano uomini belli e donne belle che erano infelici nonostante la loro bellezza. Anche la salute non aveva un gran peso; ognuno aveva la salute che si sentiva, c’erano malati pieni di voglia di vivere che fiorivano fino a poco prima della fine e c’erano sani che avvizzivano angosciato per la paura della sofferenza. Ma la felicità era ovunque una persona avesse forti sentimenti e vivesse per loro, non li scacciasse, non facesse loro violenza, ma li coltivasse e ne traesse godimento. La bellezza non appagava chi la possedeva, ma chi sapeva amarla e adorarla. C’erano moltissimi sentimenti, all’apparenza, ma in fondo erano una cosa sola. Si può dare al sentimento il nome di volontà, o qualsiasi altro. Io lo chiamo amore. La felicità è amore, nient’altro. Felice è chi sa amare. Amore è ogni moto della nostra anima in cui essa senta se stessa e percepisca la propria vita. Ma amare e desiderare non è la stessa cosa. L’amore è desiderio fattosi saggio; L’amore non vuole avere; vuole soltanto amare”.

 

*2 Citazione dal discorso di Mussolini del 24.3.1924.

*3 Termine che utilizzo nell’accezione usata da Clastres.

36 – LA RIBELLIONE È ETICA

«Io e Manganello facciamo un salto alla macchinetta» disse Pottutto.

«Oh, grazie!» esclamò il maresciallo.

«La invito solo perché ha la chiavetta!» replicò il pubblico ministero risoluto. Poi sorridendo: «Scherzavo!». Gli batté una pacca sulla spalla e: «Andiamo!».

Dopo pochi minuti, rientrarono confabulando vivacemente sul culo di una praticante avvocata incontrata nei corridoi.

«Signorina Servile scriva pure che alle 18 e 10 ricomincia l’interrogatorio… Vogliamo ripartire col botto facendo un altro nome?». Pottutto a me.

«Non sia ingordo!» dissi. «E va bene, glielo farò: Prometeo.»

«Scriva Manganello, scriva!» si rivolse al suo fido scudiero. «E chi sarebbe questo Prometeo un bombarolo, un haker…? Dica dica!»

«È un mito!»

«Sentito Manganello, è un pezzo grosso!»

«Intendo il mito di Prometeo. Conoscete? Neanche avete visto il film di Ridley Scott?1 Peccato, i titoli di coda non sono male!» dissi. «Prometeo era un titano talmente amico degli uomini, che a volte per loro faceva delle sciocchezze appunto… titaniche!». Risi. «Come quando rubò ad Atena lo scrigno in cui erano riposte l’intelligenza e la memoria per donarle agli umani. Oppure quella volta in cui durante un banchetto fra uomini e dei, servì i pezzi di carne più succulenti ai suoi amici umani lasciando gli ossi a Zeus. Questi si offese così tanto che per ripicca tolse il fuoco dalla terra. Prometeo allora entrò di notte nell’Olimpo e rubò una torcia. Ancora una volta il padre degli dei si infuriò, ma stavolta fu meno tollerante. Lo fece incatenare in vetta a un monte con un’aquila che gli mangiava il fegato in continuazione. La storia prosegue con Pandora che apre il famoso vaso da cui fuoriescono tutti i tormenti dell’uomo, Prometeo che viene liberato, uccide l’aquila e vissero tutti felici e contenti… Almeno fino alla prossima volta, perché coi miti greci non si sta mai tranquilli!»

«Mi sa che non ho mai visto questo film!» ribadì Pottutto. «Lei, maresciallo?»

«Io guardo solo Fox Crime!»

«Ma perché vi ho raccontato questa storia?» chiesi.

«Già perché?»

«Perché Prometeo, rubando il fuoco agli dei per donarlo al genere umano, si comporta da ribelle. Quindi io adesso parlerò…?»

«Parlerà?»

«Parlerò?»

«Parlerà?»

«Parlerò di ribellione, dottore!»

«Non fa una piega!» Pottutto si contrasse.

«Quando l’individuo prende coscienza di sé ha ormai rifiutato l’autorità religiosa, politica, morale, sociale, economica, eccetera. È libero. È puro e percepisce pienamente le proprie potenzialità. Vorrebbe gridare di gioia, condividerla col mondo. Ma intorno c’è schiavitù, pregiudizio, ignoranza, assuefazione… Malatesta deve aver pensato a questo momento quando ha scritto di aprire degli spacci in cui la cocaina fosse venduta a prezzo di costo o anche sottocosto!2»

«Drogati!». Manganello si eccitò.

«Era una battuta! E comunque Malatesta non era drogato. Semplicemente cent’anni fa aveva già capito che la repressione è sempre business!» dissi. «Dopo lo spaesamento, l’iniziato si interroga sui propri sentimenti, sul proprio coraggio, su come poter esercitare pienamente la propria autonomia. La consapevolezza cresce. Il calore travolge. Si irradia nella schiena, pizzica la nuca, colora le guance…»

«Senta Dopraho, del trip dell’anarchico non è che…!». Pottutto intervenne spazientito. «Perché invece non mi racconta delle sue molteplici attività?»

«Mi faccia almeno parlare di quando l’iniziato incontra altri refrattari come lui!»

«Preferisco le attività!»

«Vuol sapere cosa faccio nel tempo libero?»

«Anarchiche… Solo un paio!»

«Sminuirei le altre. E poi non è la singola azione che conta, ma la scelta etica che le guida!»

«Perché avete un’etica voi bombaroli?» crocchiò Manganello.

«Ne ho già parlato all’inizio. Ricordate? L’etica anarchica poggia su due colonne. La prima è l’antiautoritarismo. La seconda è che vogliamo una società in cui libertà ed eguaglianza siano sempre in armonia

«Manganello prenda appunti!». Il PM lo redarguì vendendolo distratto.

«Scrivo sul tavolo?». Il maresciallo sventolò irruentemente i fogli riempiti con buffi disegni agresti.

Attendemmo tornasse dal bagno con un rotolo di carta igienica.

«Per l’anarchico che cosa sia giusto e morale è nell’aria che respira3. Quando si imbatte in un’ingiustizia, istintivamente si identifica con chi la subisce e da en dehors, da fuori dal mondo4 alla ricerca del profondo, nativo rapporto con la libertà5, si impegna per eliminarla.»

«Può essere più chiaro?»

«L’anarchico si identifica nella reazione al sopruso: il rifiuto categorico di un’intrusione giudicata intollerabile, che lo conduce alla sensazione di avere in qualche modo, e da qualche parte, ragione, lo porta a reagire. E nella ribellione vive la propria essenza: l’uomo che dice no dice anche sì fin dal suo primo muoversi afferma Camus6».

«Apprezzo il suo entusiasmo». Pottutto mi disinnescò. «Ma riusciamo ad arrivare al dunque prima che sia l’ora di cena?»

«Perché, ha fretta?»

«Vorrei passare al supermercato prima di rincasare!». E per giustificarsi mostrò il messaggio intimidatorio inoltrato dalla moglie.

«La lotta è il compimento etico dell’iniziazione anarchica. Pensiero e azione! Una lotta intellettuale attraverso la critica serrata e praticata mediante l’azione. Col pensiero si erode il sistema, con l’azione si dissolve l’ingiustizia e si crea una realtà in cui essa non possa germinare.»

«Poche chiacchiere, siete solo dei criminali!» rilevò Manganello caustico.

«Su questo non ci sono dubbi!» dissi. «L’anarchia è sempre presente quando il potere costituito crea iniquità, quando sorgono situazioni di scontro, le grandi eruzioni sociali che hanno un carattere imprevedibile e si presentano come eventi spontanei, in cui le persone reagiscono a ciò che avvertono come un’ingiustizia, un’aggressione, un abuso del presente7. Si chiami potestà, religione, monarchia, statalismo, burocrazia, tecnocrazia, scientocrazia, per reagire al dominio occorre violare le sue regole, quindi diventare criminali

«Non ha motivo di esaltarsi tanto!»

«E invece sì. Perché nel momento in cui il ribelle prende coscienza che la norma legittima l’ingiustizia, che senza di essa non ci sarebbe arbitrarietà e iniquità ma volontaria armonia, negarla è praticare la giustezza. E negare la norma, quindi essere quanto un criminale comune, come Hanna Arendt8 chiamava il disobbediente, lo esalta e lo realizza al contempo a prescindere dal disprezzo, dalla derisione, dall’emarginazione, dall’inevitabile persecuzione e repressione a cui lo sottoporrà il Potere. Ecco perché deve passare nel bosco9 per attuare la sua etica. La sua lotta è occulta, fuggevole, impercettibile, tuttavia non meno efficace. Appare, colpisce, sparisce come un guerrigliero.»

«Non ho capito» borbottò Manganello. «Sta dicendo che gli anarchici sono boscaioli?»

Sghignazzarono scambiandosi pacche, ammicchi, spintarelle.

Non sapendo che fare, infransi la loro stolta ilarità con un rutto.

 

NOTE

 

– 1 Prometheus, film di Ridley Scott, 2012.

– 2 Errico Malatesta, in Umanità Nova, pubbl. 10.8.22).

– 3 Ernst Jüngher, Trattato del ribelle, ivi.

– 4 Emile Armand, L’iniziazione individualista anarchica, ivi.

– 5 Ernst: Jüngher, Trattato del ribelle, ivi.

– 6 Albert Camus, L’uomo in rivolta, ivi.

– 7 Tomas Ibáñez, L’anarchia nel mondo contemporaneo, 2022.

– 8 Hannah Arendt, Disobbedienza civile, ivi.

– 9 Ernst Jünger, Trattato del ribelle, ivi.

 

Editing a cura di Costanza Ghezzi.

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35 – LA PROPRIETÀ. IL RAPPORTO CON LE COSE CAMBIA SE CAMBIA QUELLO CON LA NATURA – terza parte

«Ho detto che la comproprietà è l’unica soluzione possibile. Nessuno è proprietario di niente. Tutti posseggono tutto. La comunità ne gestisce l’acquisto, la conservazione, l’uso e la distribuzione in base a modalità stabilite dai suoi membri al momento della costituzione, dell’ingresso, o in sede di eventuale modifica degli accordi. In questo modo non possono sorgere abusi, violazioni, usurpazioni, né gelosie e avidità perché ciascuno decide secondo coscienza e interesse.»

«Per me non funzionerà mai!»

«E invece funziona alla grande se ci si affranca dalla logica del dominio per cui la libertà è libertà di possedere!» affermai. «La rinuncia alla proprietà richiede la consapevolezza che gran parte dei lussi e molte delle cosiddette comodità della vita, sono non soltanto tutt’altro che indispensabili, ma autentici ostacoli per l’elevazione del genere umano come intuì Thoureau già a metà dell’Ottocento e qualche secolo prima gli stoici. Occorre pertanto abbandonare il sistema che ci fa vivere meschinamente come formiche, cioè smettere di affamarsi non per mancanza del necessario, ma per mancanza del lusso, con l’obiettivo che mantenersi su questa terra non sia una fatica, ma un passatempo, se viviamo con semplicità e saggezza. Ma la ridefinizione della relazione con le cose è possibile se e solo se muta il rapporto con la natura, che deve essere non più di supremazia, bensì volto a sviluppare le potenzialità creative indispensabili per cogliere l’essenza di ciò che ci circonda».

Li invitai a leggere le parole del filosofo nell’articolo del 1.12.23.

«Mi resi conto che in qualunque oggetto naturale si può trovare la compagnia più dolce e tenera, più innocente e incoraggiante, anche per il povero misantropo e per il più malinconico degli uomini. Non può esistere la mera malinconia per colui che vive nel mezzo della Natura. Concetto che ripete anche più avanti: l’indescrivibile innocenza e beneficenza della Natura concedono sempre una tale salute e una tale allegria e mentre godo l’amicizia delle stagioni, confido che nulla possa rendermi la vita un peso. La natura dona un’amicizia infinita e indescrivibile ma, simultaneamente, affranca dai vantaggi immaginati dalla vicinanza umana consentendo all’individuo di percepire la realtà delle cose essendo se stesso. Immergendosi in essa, infatti, egli può non solo soddisfare i bisogni essenziali rinunciando al lusso, quello che noi moderni chiamiamo ipocritamente benessere, ma soprattutto realizzare la conoscenza del sé, fondamentale per godere l’estasi della fusione con l’universale1».

«Detesto questi filosofismi!»

«La capisco. Pensare è faticoso!»

«Come si permette?». Pottutto avvampò.

«Dicevo in generale!»

Si ricompose: «Mi è venuto un dubbio sulla comunità…»

«Prego, dica pure!»

«Non le ho chiesto il permesso!» replicò piccato. «Cosa accadrebbe se un membro si appropriasse di un bene che appartiene a un altro gruppo?»

«Certo che il crimine ce l’ha proprio qui!». Puntai il dito alla tempia. «Non può accadere! Come nessuno ha bisogno di rubare un bene della comunità perché è suo, allo stesso modo non ha bisogno di appropriarsi di quello di un’altra perché ha scelto di non disporne. I bisogni sono assolti dal gruppo di appartenenza e l’assenza di competizione elide quei volgari quanto degradanti sentimenti di invidia e avidità che deturpano lo spirito e deteriora le relazioni: una volta abolita la proprietà privata, spariscono di conseguenza anche le leggi e i reati. Il comandamento non rubare è stato trasformato in lavora per vivere felice!2»  

Pottutto accese la sigaretta. «Ne vuole una?» chiese.

Sollevai le spalle assertivamente.

Indicò con lo sguardo il portacenere come a dire che avrei potuto scegliere il mozzicone che mi piaceva di più.

«Magari dopo!»

«E se invece le comunità riconoscessero la proprietà?». Il magistrato sollevò il sopracciglio.

«Già, se la riconoscessero?». Il maresciallo gli andò dietro. E come se avesse perso qualche passaggio: «Perché si sono incontrate?».

Lo ignorai: «Se una comunità accettasse la proprietà, accetterebbe di vivere secondo le regole del dominio, dando luogo a una società che non è anarchica. Potrebbe farlo perché il volontarismo e il pluralismo sono principi sacrosanti. Ma, lo ripeto, non sarebbe anarchica. E temo che, tolleranza a parte… prenda noi tre. Pensi un po’ cosa accadrebbe se andassimo a cena insieme?».

Per un attimo temetti che Pottutto si mangiasse la pallina.

«Mi parla di abolizione dello Stato, però ci sono gli accordi. Mi dice che vuole eliminare la proprietà, però va bene la comproprietà. Ho la sensazione che, come dire… che cambi tutto per non cambiare niente!» rilevò.

«Eh no. Cambia tutto per cambiare tutto!» sobbalzai. «Le dico solo tre cose random: la prima è che niente è più uguale quando le regole vengono stabilite dal basso e non c’è autorità che le imponga o ne controlli l’osservanza. Si chiama libertà. Libertà vera. Reale. Ancora più evidente mi sembra la portata rivoluzionaria della comproprietà. Condividere i beni in maniera orizzontale elimina ogni forma di sfruttamento e garantisce la compartecipazione, senza la quale non c’è autogestione. Questa è invece eguaglianza. Infine, il continuo confronto, la possibilità di trasformarsi consensualmente o di sciogliersi, di cambiare in ogni momento scopi e metodi, di rinnovarsi grazie alla negoziazione permanente, rendono il cambiamento inscritto direttamente nella sua costituzione interna e nel suo modo di esistere, con il risultato che essa non può continuare a essere ciò che è se non muta3 dice Tomas Ibágñez parlando della comunità anarchica. In quale sistema sociopolitico questa evoluzione armonica è consentita?»

«In quale?» chiese il maresciallo.

«Manganello, gli risponda l’anarchia così andiamo avanti!» il pubblico ministero lo sollecitò. E a me: «Abbiamo finito con la proprietà?»

Sovvenni: «Quasi dimenticavo il pluralismo. L’eguaglianza nella diversità è libertà senza catene. Quelle catene che vi rendono così tristi, solitari, abbandonati, depressi…!»

«Ora le facciamo anche pena?»

«Perché, è così evidente?».

 

NOTE

 

– 1 Henry David Thoreau, Walden, ivi.

– 5 William Morris, Notizie da nessun luogo, 1890.

– 6 Tomas Ibáñes, L’anarchia nel mondo contemporaneo, 2022.

 

Editing a cura di Costanza Ghezzi.

Immagine: Jago, Pietà.

34- LA PROPRIETÀ. CAMBIARE IL RAPPORTO CON LE COSE: COMPROPRIETÀ – Seconda parte.

«La proprietà è la facoltà di disporre e godere di un bene pienamente ed esclusivamente: la zappa è mia e la uso come voglio. I giuristi hanno poi aggiunto: nel rispetto della legge e senza pregiudicare i diritti altrui. Quindi la zappa è sempre mia, ma non posso dissodare la terra che non mi appartiene e non posso tirarla in testa a chi mi pare. Questa la definizione.»

«Dopraho, ho fatto giurisprudenza. So cos’è la proprietà!»

«Ottimo! Differenza fra proprietà e possesso?»

Scena muta.

«Allora cambiamo domanda: quand’è che sono proprietario di una cosa?»

Pottutto si perse nel paesaggio agreste che Manganello stava disegnando.

«Quando la realizzo, tipo mi costruisco la zappa, oppure quando me ne impossesso, tipo la compro. Nel momento in cui entra nella mia disponibilità diventa un mezzo che utilizzo per conseguire un fine, cioè uno strumento funzionale a una mia utilità. Senza la zappa non potrei tagliare i rami e se non taglio i rami non posso scaldarmi, ad esempio. Attraverso la proprietà, pertanto, soddisfo un bisogno pratico ma anche, oggi direi soprattutto vista la narcotizzazione consumistica, mentale.»

«Sul prossimo argomento mi faccia una cortesia…» intervenne Pottutto.

«Dica!»

«Evitiamo il cappello che…»

«Ma è la parte più divertente!»

«Lei si diverte?» chiese a Manganello.

«Eccome no. Sono tre ore che rido!»

«Detto che la proprietà è un mezzo per un fine e che i fini si reiterano all’infinito, occorre che qualcuno provveda al suo mantenimento, al suo sviluppo, alla sua difesa, eccetera. E poiché del proprietario si può dire tutto ma non che non sia generoso, lascia siano altri a lavorare. Si crea così un dominio degli uomini sugli uomini che, aggiunto a quello sulla natura, provoca la catastrofe umana e ambientale che stiamo vivendo. Non esistono soluzioni intermedie: l’abolizione della proprietà è l’unico modo per fermare questo delirio di onnipotenza

«In che senso?»

«La proprietà non deve esistere. Abolita. Cancellata. Tanti saluti e arrivederci!»

«Ma se la abolite, i bisogni…?»

«Occorre distinguere fra bisogni primari e non. Mangiare, vestirsi, svagarsi, stare con gli altri, eccetera sono bisogni essenziali che l’anarchia non nega a nessuno, anzi favorisce in quanto funzionali al perfezionamento della personalità. Perché ciò sia possibile deve però cambiare il rapporto con le cose, il valore che attribuiamo loro: utile è ciò che consente di vivere in armonia col mondo, superfluo è ciò che crea schiavitù fisica e mentale.»

«E chi stabilisce se una cosa sia superflua o no?»

«Gliel’ho appena spiegato!» replicai irritato. «L’uomo si perfeziona e si compie quando vive spontaneamente in armonia con se stesso, con gli altri, con l’ambiente. Il resto è dannosa banalità. Per questo l’anarchia che voglio propone un’esistenza semplice in cui si privilegi la relazione personale e la connessione con la natura. Un progetto spirituale prima ancora che materiale, in cui l’estasi si ottiene per sottrazione, non aggiungendo. Bisogna essere nudi per essere se stessi! Come diceva Proudhon: è sufficiente possedere quel tanto che basta per essere liberi perché una volta soddisfatti i bisogni elementari si ha il tempo di coltivare la propria mente e la propria sensibilità1»

«Su questo avrei qualche dubbio!»

«Conosce qualche ricco che è felice?»

«La sua è tutta invidia!»

«Mai provato questo sentimento!»

«Neanche un pochino?»

Arrossii: «In effetti, una volta. Quando dal traghetto ho visto i delfini piroettare fra le onde… Non mi ci faccia pensare che mi commuovo ancora!»

Il pubblico ministero si grattò nervosamente la barba liberando una mosca rattrappitasi nei riccioli.

«Ma se abolite la proprietà, a chi appartengono le cose?» chiese.

«Sono di tutti e di nessuno.»

«L’avevo detto che sono comunisti!» esultò Manganello.

«Nella società anarchica, a parte i prodotti di esclusivo uso personale, i beni appartengono a tutti e tutti li producono, li gestiscono e ne dispongono in base agli accordi. Si chiama comproprietà. Quelli in eccedenza vengono distribuiti equamente, quelli accessori vengono spartiti fra i membri attraverso il dono o la permuta. Non c’è un’entità superiore che decreta dall’alto. La scelta è volontaria. Esclusivamente personale. Per questo non siamo comunisti!»

Mi restituirono due facce da cane a cui è stata tolta la ciotola.

«Non c’è bisogno di delegare chicchessia. Si concorda cosa, quanto, come produrre per se stessi e per gli altri. Che siano mezzi di trasporto, elettrodomestici, abitazioni, terreni o quant’altro, tutto è comunione!»

«Non riuscirete mai a eliminare la proprietà!» rugliò il pubblico ministero.

«Intanto cominciamo dalla nostra, senza la quale anche la vostra perde di valore!»

«E vorreste cambiare le cose così, di punto in bianco?». Si protese verso di me: «Mi perdoni. Glielo chiedo perché… sa ho appena comprato casa!» sussurrò in maniera che Manganello non udisse.

«Assolutamente no! Come diceva Goodman: i cambiamenti possono essere a spizzichi e non drammatici, ma devono essere essenziali2. Per questo creiamo comunità clandestine che erodano lentamente il sistema» dissi candidamente.

«Ma senza proprietà…?»

«Mi dica un solo motivo per cui è utile?» lo incalzai.

Seguirono secondi di silenzio assoluto, sguardi fuggevoli, contrazioni muscolari. «Se io sono proprietario di un bene posso trarne un’utilità immediata, senza mediazione di cose o persone…» biascicò Pottutto.

«E posso fare di essa quello che voglio!» seguii. «Ma a parte ricordare le definizioni di diritto assoluto e il diritto soggettivo studiate sul Trabucchi…?»

«Edizioni Simone3».

«Non importa!» lo tolsi dall’imbarazzo. «Il punto focale è che la proprietà favorisce il più forte e impedisce la realizzazione delle potenzialità individuali sfruttando e corrompendo con l’illusione della materialità. Conviviamo con essa dal momento in cui veniamo al mondo. Esattamente come la schiavitù. Per questo deve essere abolita. Ma non attraverso l’espropriazione suggerita da Bakunin, o la presa di possesso di Louise Michel, tanto per fare dei nomi, che genererebbero nuove autorità verticistiche, bensì attraverso la comproprietà in cui tutti siano attori e non fruitori, parimenti partecipi e responsabili.»

«Adesso voglio un nome. Me l’aveva promesso!»

«Uno a caso?»

«Mi accontenterò del primo che le viene in mente!»

«Adele!»

«Adele?». Pottutto scattò sugli attenti. «Chi è questa Adele?»

«E che ne so. È il primo nome che mi è venuto in mente!».

 

NOTE

– 1 P. J. Proudhon, La guerra e la pace, 1861.

– 2 Il Manuale di diritto privato di Torrente-Shlesinger è forse il testo più usato nelle Università. Quello delle Edizioni Simone è meno tecnico e più facile. Gli studenti dicono di studiare sul primo, ma non è vero. Intorno alla cinquantesima pagina chiedono ai genitori di comprare il secondo!

– 3 Paul Goodman, Individui e comunità, 1995.

Editing a cura di Costanza Ghezzi.

In foto: Gustave Dorè, Amore riflette sulla morte, 1875

33- LA PROPRIETÀ È IL PRESUPPOSTO DEL DOMINIO

«Adesso voglio un nome!» ululò Pottutto, manipolando vigorosamente la pallina di pongo.

«Funziona?» sviai.

«Cosa?»

«La pallina. Funziona davvero o lo fa soltanto per…?»

«Certo che… vuole provarla?»

«Era solo così, per curiosità!»

«Tanto non gliela davo!». Appoggiò l’orologio sul tavolo: «Ha cinque minuti. Dopo di che, se non mi dà un nome, qui si chiude!»

«E Sevizia?» borbottò Manganello deluso.

Ne approfittai: «Nella società del dominio, il più forte comanda, il più debole obbedisce. Anche in natura sono presenti organizzazioni asimmetriche e rapporti di supremazia, mai però l’autorità si manifesta attraverso condotte sfruttatrici, annientatrici, funzionali a un meschino scopo privato. Quando il capobranco sottomette il più debole agisce nell’interesse del gruppo, non per un fine egoistico.»

«E allora cos’è che favorisce l’instaurarsi della gerarchia?»

«Finalmente una bella domanda!»

«Grazie!»

«Dopo tre ore che sto qui…!» sottolineai. «La risposta è una: il tornaconto personale. Il profitto, cioè l’utile economico, è causa di ogni male umano. È un morbo che infetta le menti inducendole a giustificare gli atti più vili, repellenti, scellerati, devastanti perpetrati nei confronti di chiunque e di qualunque cosa ne ostacoli il perseguimento. Profitto che consiste nell’accumulare beni non necessari, che producono altri beni non necessari, l’insieme dei quali forgia l’autorità. E tanto maggiore è l’autorità, tanto il potere si trasforma in arbitrio. Arbitrio che esiste da quando l’uomo ha smesso di vivere in simbiosi con l’ambiente, non accontentandosi più di soddisfare i bisogni primari ed è legittimato dalla legge, positiva o divina che sia, nell’interesse dei Grandi Affari1 e indottrinato come principio supremo con l’etica del lavoro, della competizione, dell’affarismo, del consumo compulsivo e di tutta la propaganda che riduce l’esistenza a una triste finzione.»

«Esagerato!». Pottutto si spazientì.

«E se il profitto è causa del dominio, qual è il presupposto del profitto?» chiesi.

«Il dominio!» tuonò il maresciallo.

«Ha detto che quella è la causa!», lo corresse il magistrato.

«La proprietà è il presupposto del profitto» proferii. «Senza proprietà, cioè senza la disponibilità di beni che lo generano, esso non esisterebbe. Ma come è nata la proprietà?»

«E basta con le domande. Mica siamo a Lascia o Raddoppia.2»

«È semplice: secondo Rousseau – cito lui non perché le sue valutazioni siano antropologicamente le più approfondite ma perché fornisce un’immagine immediata e comprensibile a tutti – è bastato che qualcuno avendo attorniato di siepi un terreno, pensò di dire: questo è mio e che trovò persone tanto semplici per crederlo. A quel punto colui che possedeva, non contento di imperare nel suo territorio, temendo aggressioni esterne perché la potestà come si conquista con la forza, con la forza si può perdere, creò un potere supremo che garantisse ai proprietari l’eterna concordia: lo Stato3. Le rivoluzioni industriali ne hanno accresciuto l’autorevolezza, le guerre mondiali l’hanno cristallizzata. Dalla seconda metà del Novecento lo sviluppo tecnologico l’ha moltiplicata nelle infinite espressioni del dominio tecno-scientifico, lasciando al Leviatano l’esclusività di essere il braccio armato a protezione del sistema. Abbiamo cominciato col dominare la terra attraverso l’agricoltura, in cui abbiamo reso la natura un qualcosa da sfruttare, abbiamo proseguito dominando gli animali con l’allevamento, abbiamo strutturato una società patriarcale fino al dominio di tutti contro tutti attraverso la schiavitù, il lavoro salariato, la massificazione. Ormai siamo gli anonimi ingranaggi di una Megamacchina mangiatutto, di cui il capitalismo è solo l’ultima fase della civilizzazione4, seppur con altre parole conferma John Zerdan.»

«Arrivi al dunque!»

«Attraverso la proprietà l’uomo compensa l’inquietudine provocata dalla propria natura mortale: in essa si identifica e grazie a essa si sente eterno. Dimenticando però ciò che è, ovverosia un animale con un quoziente intellettivo appena superiore agli altri. Con la conseguenza che la sua ingordigia, il suo bisogno di onnipotenza, si materializza nel capitalismo, oggi tecnocrazia, o se preferite scientocrazia, il più nocivo assetto sociale emerso nel corso della storia

«A me piace il capitalismo!». Manganello gongolò.

«Non avevo dubbi!» replicai.

«Penso che stia enfatizzando!» miagolò invece Pottutto. «Il ricco è sempre esistito e ha sempre fatto quello che gli è parso!»

«Ẻ quello che ho detto. Perché sacralizzando la proprietà, egli possiede l’autorità e i mezzi per esercitare la sua supremazia. Dal padre padrone al capo ufficio che sfrutta i collaboratori, al latifondista che sfrutta la manovalanza, all’imprenditore che sfrutta l’operaio, al governo che sfrutta il popolo, il potere origina sempre da un’autorità innanzi tutto economica. Chi è saggio la pratica nel rispetto della dignità reciproca, chi è sfrontato e arrogante si chiama tiranno. E se una volta annientava i dissidenti, oggi ottiene il consenso mediante gli infiniti mezzi di manipolazione emotiva come l’illusione del benessere, l’induzione all’obbedienza consumistica, la devozione allo scibile e quant’altro conformi alla sua necessità elidendo la capacità critica personale. Il paradosso infatti è che con il capitalismo l’oppresso si illude di non soffrire più il giogo perché ne è partecipe. Orgogliosamente mantiene e sviluppa ricchezza di cui non godrà mai, estorto dalle banche, ingannato dalle multinazionali, alimentando la tecnoburocrazia5, vivendo nella nevrotica normalità di professioni detestate, di relazioni opprimenti, di competizione e di avidità, di conformismo mentale e comportamentale…»

«E che è, l’Armageddon?» mi dileggiò Pottutto. «A me questo sembra solo libero mercato!»

«Il problema non è il mercato ma la servitù volontaria. L’apatia è connivenza. Le persone si scandalizzano quando i fiumi esondano, si commuovono quando vedono in tv un bambino che raccogliere coltan, si disperano quando ettari di boschi bruciano, eppure nessuno rinuncia ai propri capricci. Vivono in un sogno surreale e non vogliono svegliarsi per scoprire cosa hanno contribuito a provocare!»

«Parla dei disastri naturali? Ma se oggi l’industria fornisce una miriade di soluzioni ecosostenibili?»

«Tipo?»

«Le auto elettriche.»

«Certo, certo!» replicai caustico. «Di cosa sono fatte le batterie?»

«Non saprei. Sono un PM, non un batterista!»

«E come si smaltiscono?»

«Nemmeno uno smaltitore!»

«La verità è che l’economia ecosostenibile è un altro imbroglio con cui fregare i sempliciotti. Ha ragione Enrico Manicardi quando afferma che: si parla di tecnologia verde, tecnologia ecologica, di tecnologia a basso impatto ambientale. Ma la tecnologia non può mai essere verde, né ecologica, né a basso impatto ambientale: per avere oggetti tecnologici, infatti, bisogna produrli, e per produrli si debbono sventrare montagne, depredare fiumi, disboscare foreste, inquinare l’ambiente. Inoltre, ci vogliono fabbriche e miniere per realizzarli, perché gli oggetti tecnologici sono composti da silicio, terre rare, coltan, alluminio… conseguentemente, ci vogliono persone che vi lavorino. E siccome nessuna persona al mondo troverebbe piacevole lavorare 16-18 ore al giorno, tutti i giorni, nelle profondità buie e insalubri di una miniera, per poter consentire agli altri di avere un bel telefonino o un sistema cruise control nell’automobile, ne consegue che per avere oggetti tecnologici occorre costringere migliaia di persone a fare quello che nessuno vorrebbe fare.6 Altro che eco-sostenibilità!»

«Non mi sono mai comprato un telefonino in vita mia!» mugugnò Manganello.

«Ci credo, usa quelli confiscati!» sghignazzò Pottutto. «Ho capito il concetto!», rivolto a me. «Ma siamo a quattro minuti e non vedo la fine.»

«Quindi ne manca ancora uno!» replicai. «Il dominio ha ormai incorporato tutte le patologie sociali: patriarcato, sfruttamento, statualità, egoismo, militarismo, crescita illimitata che hanno afflitto la civiltà e inquinato tutte le sue conquiste7. Dobbiamo reagire! La radice è l’uomo, qui e non altrove, adesso e non più tardi8. Questo deve essere il punto da cui ricominciare. Che sia la guerriglia e insurrezione di Hakim Bey9, o la costruzione di comunità alternative, non è possibile rimanere inerti. Come diceva Debord: per distruggere definitivamente la società dello spettacolo occorrono uomini che mettano in azione una forza pratica10: noi anarchici la chiamiamo la lotta

«Le mancano pochi secondi!»

«Se vogliamo un mondo nuovo e diverso, un mondo in cui l’individuo non sia un rapace pubblico, se non ha timore, essendo potente; o avaro e insidioso e ipocrita se è impotente11, il primo passo è eliminare la proprietà, causa suprema di ogni devianza umana.»

«Mi ha fatto venire l’ansia!» sbottò il PM.

«Allora cambio argomento!» dissi.

«Ottimo! E di cosa ci parla?»

«Ma della proprietà, naturalmente!»

La penna che Pottutto teneva in bocca cadde sul tavolo.

 

NOTE

 

– 1 Espressione di Carlos Minghella, Piccolo Manuale di Guerriglia Urbana, Amazon, 1969.

– 2 Lascia o Raddoppia?, quiz televisivo condotto da Mike Bongiorno andato in onda dal 1955 al 1959.

– 3 Jean Jacques Rousseau, Discorso sull’origine e i fondamenti della ineguaglianza fra gli uomini, 1755.

– 4 John Zerdan, Enrico Manicardi, Nostra nemica civiltà, ivi.

– 5 Espressione coniata da Amedeo Bertolo.

– 6 Enrico Manicardi, Nostra nemica civiltà, ivi.

– 7 Murray Bookchin, Per una società ecologica, Eleuthera, 1976

– 8 Dwight Macdonald, The Root is man, 1953.

– 9 Hakim Bey, Millennium, 1997.

– 10 Guy Debord, 1931, fra i fondatori dell’Internazionale Situazionista.

– 11 Tommaso Campanella, La città del sole, 1602.

Editing a cura di Costanza Ghezzi.

Immagine: A. Modigliani, Nudo sdraiato, 1917.