FERMIAMO LA SCIENZA

La scienza, intesa sia in senso stretto come ricerca rigorosa e sperimentale, sia estensivo come sofisticazione atta ad assicurare maggior comodità, non è altro che l’ennesimo espediente con cui l’uomo nasconde la propria precarietà. Teme la realtà e allora prova a dominarla giustificando con confortevoli menzogne la devastazione che lascia alle spalle. Il bello di quest’epoca fluida è che le falsità sono disseminate ovunque e hanno la tracotanza della metafisica, dello statocentrismo, dell’ideologia, la seduzione dell’industrializzazione, del mercato, del consumismo, della tecnocrazia e… e l’assolutismo dell’immarcescibile scienza, intorno a cui tutte ormai ruotano.

Inizialmente gli scienziati erano considerati un manipolo di folli. Molti venivano perseguitati, altri esiliati in virtù del principio che la natura era divina e gli uomini i suoi custodi. Finché qualcuno ha intuito che la conoscenza è dominio e, se applicata all’economia, accresce il profitto a dismisura. A quel punto si è avvalso di questi visionari per creare la macchina a vapore, il telaio meccanico, la locomotiva e altre immaginifiche innovazioni. Per concretizzare tanta genialità ha migliorato il tenore di vita della massa e l’ha manipolata a puntino in maniera che nessuno potesse fare a meno delle nuove sofisticazioni.

La svolta non è stata facile, né immediata. Perché le persone comprassero e comprassero e comprassero ancora, infatti, quei beni dovevano diventare necessari. Serviva un genio del marketing e Berlusconi non era ancora nato. Alla fine però il tormentone che avrebbe inebetito la ragione venne partorito: “Il progresso è la chiave del successo. Prendilo adesso!” O forse era: “Altro che Dio, col progresso è tutto tuo!” C’è pure chi dice fosse: “Senza progresso la tua vita sarà un cesso!” Anche se dubito si potesse usare certe volgarità quando non c’era la televisione.

Passare dall’aratro all’agricoltura intensiva, dalle candele alla domotica, dallo sfruttamento all’obbedienza volontaria, dall’artigianato all’industrializzazione globalizzata, dall’uso della natura alla sua devastazione, è stato un attimo. E il merito, impossibile non riconoscerlo, è solo della scienza, diventata il mezzo attraverso cui l’umano avrebbe potuto appropriarsi di qualunque cosa pigiando un bottone.

E così, se una volta c’era Dio e c’era la scienza, oggi c’è la scienza che fa Dio, al cospetto della quale tutti devono prostrarsi, pena la derisione e l’emarginazione sociale. Almeno in questo i suoi paladini sono più moderati del religiosi, che fino all’altro giorno mandavano al rogo chiunque osasse contraddirli!

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Affinché la sua autorità diventasse assoluta non era però sufficiente che fornisse le soluzioni ai bisogni più effimeri. Essendo l’uomo un essere intrinsecamente materiale e spirituale bisognava attribuirle un’aurea di solennità che la rendesse credibile ai più sempliciotti e incontestabile ai detrattori. Detto fatto: è bastato attribuire sacralità al suo metodo per emarginare chi ne dubitasse o lo contestasse.

La procedura è semplice. Si parte da un’idea, ad esempio che un determinato fattore possa influire su un certo processo, oppure dall’osservazione di un fenomeno. Si pongono domande e si giunge a un’ipotesi. A quel punto si realizzano gli esperimenti, al termine dei quali lo scienziato possiede dei dati. Se essi la confermano, si formula una legge. Altrimenti si elabora un’atra ipotesi e si prosegue con l’osservazione e la sperimentazione. Questo è il metodo su cui la scienza fonda la propria credibilità inconfutabile.

Che poi è il solito che usava mia nonna quando improvvisava gli ingredienti per fare i dolci. Solo raccontato in maniera più figa.

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«Splendido!» Grida il sempliciotto.

«Magari!» replica il diffidente.

Perché alla fine della sperimentazione la decisione finale non viene rivelata in sogno dagli spiriti Xapiri1, ma è la manifestazione del giudizio umano. Come tale tale fallibile. Fallibile nella conclusione, poiché un errore procedurale o la cognizione errata dei risultati dell’esperimento può portare ad una legge sbagliata. Fallibile negli effetti che possono essere ignorati o, nei rari casi di buona fede, ignoti al momento in cui viene formulata.

Gli scienziati conoscono tali anomalie, però le negano o, quando sono illuminati, le sminuiscono per mantenere il loro prestigio. Le élite e i vari ossequianti sono distratti dal profitto che ne deriva. All’uomo comune non rimane che sperare che le conseguenze compromettano qualcun’altro.

Poi c’è il diffidente che studia, si documenta, si informa, ogni tanto reagisce e tutti lo prendono per un sociopatico. Perché ognuno deve occuparsi di ciò che sa e parlare di ciò che conosce. E poiché solo gli specialisti possono esprimersi su ciò che è “speciale”, la scienza è degli scienziati.

Difficile replicare se fosse un circolo di scacchi!

E comunque, se ognuno dovesse parlare di ciò che realmente conosce, cesserebbero le relazioni personali. La verità è che sostenere l’onnipotenza della scienza significa ignorare, voler ignorare, che le sue decisioni riguardano la vita di tutti.

Pretendere che gli individui omologhino le proprie condotte ad una volontà eteronoma è sempre una violenza. Quando si sfrutta l’ignoranza per soggiogare, è un abominio. Se poi ne scaturisce un profitto, è una truffa. Come tutte le volte in cui subdolamente si subordina la volontà personale a una dittatura morale per riprodurre la solita autocrazia in cui l’individuo è un mezzo per un fine.

Con l’aggravante che la scienza non si accontenta di soggiogare: deve distruggere per realizzare il progresso che stringe le catene.

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Detto che l’infallibilità scientifica è solo uno slogan, grottesco è ammantarla di oggettività.

Ẻ imparziale quando studia una pianta o la relazione fra specie, un po’ meno quando c’è da lucrare devastando l’ambiente, sviluppando armamenti o realizzando prodotti di ingegneria sociale. La storia ha infatti dimostrato che essa è uno strumento di dominio pervicace quanto la religione, che ha sostituito, sia perché fornisce mezzi e le procedure attraverso i quali chi domina eserciti violenza, sia perché plasma i bisogni della collettività, che la asseconda stordita dal suo bagliore o fiduciosa rimanga qualche briciola dei suoi profitti.

Di fatto la scienza è sempre stata al servizio del Potere, che ne ha disposto per il proprio tornaconto. Almeno fino alla seconda metà del XX secolo, quando ne perso il controllo. Da che tecnica ha sovrastato la conoscenza proliferando a dismisura le sofisticazioni, si è creata infatti una frattura fra il mondo reale e quello scientifico che ha ribaltato gli equilibri. I governi, che del dominio sono sempre stati il braccio operativo, improvvisamente hanno perso la propria autonomia a causa dell’incapacità di adeguarsi alle innovazioni in corso. E così per di non dissolversi hanno delegato agli specialisti le decisioni primarie.

Il risultato è un vero e proprio autoritarismo scientifico, oggi tecno-scientifico, dove la politica gestisce il bene comune adattandosi all’oscillazione dei suoi umori e obbedendo insindacabilmente alle sue prescrizioni. Ormai il sapere non è più al servizio dell’umanità, ma l’umanità al suo. Unito al denaro, chiunque può disporre del mondo senza più inibizioni morali o ostacoli pratici.

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Usare il creato per soddisfare bisogni biologici è nelle cose. Realizzare invece inutili artifici altera l’equilibrio universale provocando danni irreparabili. Questo fa il progresso che concepisce incessantemente eccitanti suggestioni spacciandole per necessarie. Alla scienza il compito di individuare la perversione migliore e sviluppare la dipendenza per aprire i mercati senza i quali l’economia stagnerebbe, regredirebbe, poi cesserebbe. E addio denaro.

Pensa all’agronomia, quel complesso di tecniche e tecnologie che dovrebbero rendere più efficienti ed efficaci le coltivazioni. Efficienti ed efficaci per chi? Le piante crescono, fioriscono e fruttificano spontaneamente da prima che esistesse l’uomo e lo faranno anche dopo. La natura non ha bisogno di interferenze per manifestarsi. Eppure ora si tempesta di agenti chimici, ora si produce artificialmente, ora si altera gli ecosistemi, ora si manipola la crescita per aumentarne la produttività con l’unico obbiettivo di globalizzare il consumo, quindi garantire, garantirsi, un maggior profitto in barba alle sue regole eterne.

Oppure pensa alla sfacciataggine con cui rinnega se stessa per trovare nuove frontiere commerciali. Vedi la transazione ecologica che, smentendo impudicamente quanto propinato in precedenza come assoluto, risolve l’inquinamento ambientale con rimedi più dannosi della causa per consentire all’industria di continuare ad arricchirsi. L’ecosostenibilità è una pagliacciata! L’unica cura contro lo distruzione della terra è smettere di essere complici del malaffare.

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Se il progresso non è altro che l’inganno dietro cui si nasconde l’ingordigia di chi lo esalta e la scienza è l’ennesimo strumento con cui i privilegiati accrescono il loro dominio, l’anarchico ha il dovere etico di avversarli con tutti i mezzi possibili.

Egli è colui che ha abbandonato gli egoismi, le influenze degeneranti, le oppressioni mortifere, i valori necrofili dell’artificiosità imposta per riappropriarsi della spontaneità. Ha scelto di immergersi nella natura. Attraverso la sua armonia realizza la propria personalità fondendosi con le molteplicità. E quando si è vissuto il sé per sé, quando si diventa coscienza primigenia, tutto il resto risulta superfluo, se non immorale.

Pur non contestandola in assoluto, riconosce infatti gli apporti forniti dal metodo alla conoscenza della natura, egli vuole che essa non sia per l’uomo, ma per tutti gli esseri che abitano la terra. Perché ciò sia possibile deve essere svincolata dal profitto che la rende corrotta, violenta, sfruttatrice, distruttrice, come ogni azione umana in cui esso è l’obbiettivo finale. Un malefico dominio che interferisce sul naturale equilibrio delle cose pervertendo la genuinità indispensabile alla reciproca connessione col tutto, unico scopo di ogni essere.

Per questo il libertario disubbidisce!

Ma la semplice disubbidienza, pur possedendo un alto valore morale, non è sufficiente a scardinarne la sua autorità, né a frenare la sua ingordigia. Occorre la lotta. Una lotta serrata che non eliminerà gli arbitri, ma almeno creerà l’instabilità necessaria affinché le comunità anarchiche, veicolo attraverso cui diffondere una nuova prospettiva esistenziale, emergano e conquistino autonomia.

Una lotta che sia trasgressione serrata alle sue insulse imposizioni, che generi resistenza alla sua manipolazione, che ne ostacoli lo sviluppo con azioni volte a danneggiarne la produzione, la distribuzione e il consumo dei prodotti. Un’azione generalizzata, selvaggia e volontaria che non si illuda di sovvertire l’irreversibile, ma lo eroda lentamente e ne penetri le fessure dando vita a realtà nuove edificate sull’armonia originaria, disciplinate dal diritto di natura, sviluppate attraverso relazioni spontanee e non prevaricatrici che solo in assenza di interesse possono germinare. Un’evoluzione dell’umanità volontaria e autodeterminata che, mondata dalle depravazioni, si riappropri della bellezza del mondo, goda nel farne parte, creda e combatta per il riscatto dell’umanità.

NOTE

*1 Gli spiriti richiamati dagli sciamani Yanomami. Da Davi Kopenawa e Bruce Albert, La caduta del cielo, Nottetempo, 2010.

In foto: Cloes Oldenburg, Floor burger, 1962

 

DARE UN GIUDIZIO

Spesso mi chiedo se esiste una relazione fra arte e anarchia.

Non tanto come l’essere ribelli possa favorire la produzione artistica. Questo mi sembra scontato, come dimostrano gli infiniti casi di coloro che, una volta arricchitisi o assuefatti al sistema, senza animus sovvertitore perdono la vena creativa. Quanto al fruitore che si immerge nell’opera vivendo un’esperienza estatica assimilabile a quella provata dal libertario nel momento in cui si identifica con gli esseri che lo circondano e si fonde con la realtà per partecipare all’unità universale.

La risposta è sempre positiva perché entrambe sono esperienze identitarie che consentono di percepire e, per alcuni fortunati, vivere la cosa in sé. Il più grande prodigio che l’individuo possa conoscere e a cui possa partecipare. L’unico che merita di essere raccontato.

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Si dice: “penso quindi sono”. Una volta credevo fosse una delle tante perle di saggezza di mia nonna, poi al liceo ho scoperto che Cartesio l’aveva affermato quattro secoli prima. Ho impiegato anni per riprendermi dalla delusione.

Il filosofo asseriva che, mettendo in dubbio qualsiasi affermazione, si può arrivare a massime vere o false. «Ehi prof, ma uno più uno fa sempre due!» una volta un suo allievo lo sorprese. «Fa due?» egli ripeté sospeso. «Fammi pensare un po’…!» Ordinò al valletto di portargli un pallottoliere. Spostò una pallina. Spostò quella accanto. Le fissò così a lungo che un altro studente: «Ma questo ci è o ci fa?» borbottò. Il maestro sollevò la testa e saettò il suo sguardo da genio: «Ci sono!» tuonò. Poi andò via lasciando sbigottiti i presenti.

Questa è la genesi mai raccontata della massima con cui Cartesio esprime la coscienza che l’uomo ha di se stesso quale soggetto pensante. Da quel momento l’umanità ha appreso due cose: la prima è che il pensiero è volontà, la seconda è che esistono tante volontà quante le personalità.

A dire il vero, ce n’è anche una terza, ovverosia che non tutte le personalità sono uguali. Infatti quelle dei due studenti zelanti hanno dovuto abbandonare matematica e iscriversi a scienze politiche.

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Il pensiero è quindi quell’attività psichica mediante la quale l’essere prende coscienza di sé e del mondo. Alla fase cogitante segue il giudizio, attraverso cui si manifesta. Tanti giudizi quante sono le persone. Ma se in natura la contraddizione diventa identità in quanto le soggettività si equivalgono nell’identità unitaria, i giudizi sono diversi perché diverse sono le storie di chi li esprime.

Prendi la reazione dell’osservatore di fronte a un’opera d’arte. Che so, il Campo di grano con corvi di Van Gogh. Egli può soffermare l’attenzione sul contrasto cromatico fra il giallo vitale e il cobalto tenebroso. Altri sullo stormo di corvi che si leva cupo o sul cielo agitato o sui sentieri serpeggianti. Qualcuno può cogliere il ritmo vorticoso delle pennellate con le quali il pittore proietta la sua sofferenza sulla realtà circostante. Qualcun altro può spingersi oltre condizionato dalla suggestione dell’orecchio mutilato. Insomma, ad ogni punto di osservazione corrisponde un’interpretazione della volontà cristallizzata nell’opera, che poi si manifesterà con un giudizio.

Ma se esistono infinite volontà che esprimono altrettanti giudizi, è possibile stabilire se uno è migliore degli altri?

Mi spiace deluderti, ma la risposta è sì. E per non farti perdere tempo, dico subito che dipende dalla credibilità di chi lo manifesta.

Credibile è ciò che ha la capacità di ottenere credito, cioè ispirare fiducia, come recita il dizionario.

Nella società un’affermazione è tale quando chi la esprime possiede autorità riconosciuta da tutti. Può essere acquisita per merito, ad esempio lo scienziato capisce di scienza più dell’uomo comune. Ẻ quando la mischia con l’economia che va in confusione! Può essere del leader che impone le sue regole ai sottomessi. Può essere dell’autocrate, come il prete, il governo, le istituzioni sociali o chiunque detenga il dominio in virtù dell’aurea sacrale che si è autoconferito. In ogni caso essa è la prerogativa di una élite a cui corrisponde l’accettazione o l’obbedienza uniforme della massa.

Considera l’affermazione anarchica “il governo è sempre tiranno”. Pur essendo una frase vera, viene pronunciata da soggetti che la manipolazione mediatica definisce non credibili. Con la conseguenza che anch’essa non lo è. Al contrario, se un giudizio falso come “gli anarchici vogliono il caos” o “gli anarchici sono dei criminali” viene reso da un’autorità apparentemente credibile, e poiché niente lo è di più di chi se l’è autoconferita, come per magia diventa apodittico. Il Potere conosce questo meccanismo e fa quello che gli pare!

Scendendo più in basso, invece, la credibilità dipende dal carisma determinato dal rango, dalla professione svolta, dalle attitudini personali, dalla conoscenza, dalla sensibilità e da altri attributi. Sono però filtri soggettivi che sottolineano l’autorità del dichiarante senza tuttavia rilevare alcunché sulla effettiva conoscenza della realtà esaminata e giudicata. Quindi sulla veridicità della sua affermazione.

Ne consegue che giudicare il giudicante per il suo retaggio è come scommettere l’intera posta su Golia solo perché è grosso. E poiché la credibilità di un giudizio non può dipendere dalle ragioni per cui chi lo manifesta sembri o meno degno di fiducia, occorre scavare oltre la superficialità. Ma per farlo, bisogna cambiare la prospettiva: non soffermarsi sugli attributi del referente, bensì concentrarsi sull’esperienza che ha vissuto. Ovverosia valutare quanto sia stato in grado di affrancarsi da ciò che è per immergersi nella realtà che deve essere giudicata per quello che è.

L’uomo è pertanto credibile quando la sua esperienza è onesta. Quando cioè le competenze, i condizionamenti sociali, gli interessi e gli orientamenti personali e tutto ciò che preconfeziona la coscienza e contamina il sé lasciano il posto alla spontaneità. Soltanto una volontà libera può accedere alla verità creando relazioni affettive, simpatetiche, empatiche con gli elementi che la vivificano, diventano loro sostanza, poi essenza universale. Terminata l’ebrezza, condividerla è una necessità amorosa non meno inebriante.

Come capire questa sincerità? Facile. Perché la verità è sempre nei silenzi.

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Il rapporto con l’arte spiega il concetto meglio di altri esempi.

L’opera artistica rappresenta la visione della realtà secondo il suo autore. Ma è anche il luogo in cui si incontra con quella del fruitore.

Il posto è misterioso, in alcuni casi impenetrabile come una selva. Difficile orientarsi e le conoscenze apprese ai tempi in cui si era Giovani Marmotte producono il solo risultato di girare intorno più e più volte. O ci si abbandona allo sconforto e si comincia a tirare calci agli alberi col rischio che una pina cada in testa, oppure ci si lascia andare affinché la natura possa guidarci.

Allo stesso modo, di fronte alla creazione dell’artista, bisogna abdicare le presunzioni, i pregiudizi, le conoscenze e donarsi ad essa. Solo facendone parte si può comprenderla. L’attore deve essere libero di abitare l’opera. Vivere la dimensione altra per trasformarsi in volontà nuova. Ma perché si realizzi questa dissoluzione e ricomposizione, come lo sciamano che dilata i confini percettibili immergendosi nel sogno, la volontà deve abbandonarsi alla casualità dell’istinto. Volare con le note, fluire fra le pennellate, formarsi e sformarsi plasticamente, accarezzata dal suono delle parole o partecipe dell’azione. Ed è allora, quando entra nell’opera e interagisce con i suoi elementi, quando il vecchio sé è trasformato in un sé semioticamente nuovo, che l’esperienza s’illumina d’immenso. Improvvisamente il mistero diventa comprensibile, il sogno reale. Tutto ha un senso. Ecco l’idea. Rivelata dalla improvvisa connessione di volontà, quella dell’autore e quella dell’attore, che esplode nell’ebrezza estatica dell’identità. Sarà poi compito della ragione conservare e donare al mondo questa possanza attraverso il giudizio. Giudizio che sarà sempre vero perché chi lo esprime avrà compreso l’essenza che la anima grazie all’esperienza che lo ha reso creatore.

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In questi termini, la credibilità di chi vive un’opera d’arte è la medesima dell’individuo che si unisce alla natura per diventare il tutto.

Anche in questo caso egli è puro. Solo dopo che si è liberato dai pregiudizi che pervertono la volontà, potrà perdersi e ritrovarsi. Anche in questo caso l’esperienza sensoriale, se protratta e compiuta con affettuosa contemplazione, provoca un acquietamento che schiarisce il pensiero, rallenta e calma le pulsioni, sfuma e poi cancella intorno, induce alla dissociazione con la quale la volontà passa dal corpo agente a quello osservato, toccato, gustato, odorato, trasformandosi lentamente ma inesorabilmente in volontà dell’animale, della pianta, del fenomeno naturale, dell’oggetto inanimato. In quella corporeità nuova ma così reale prova istinti, sentimenti, emozioni, pensieri non umani, che trasformano la coscienza di sé in un nuovo sé. Una fusione che è identità spirituale e materiale. E quando questa trasposizione viene reiterata con infinite entità, scatena una connessione simbiotica universale in cui la coscienza tangibile della cosa in sé, la volontà del creato in divenire, esplode in tutta la sua rivelazione.

Non c’è niente di mistico in questi processi. Basta cercare, trovare e fare propria la bellezza. E poi esaltarsi nell’estasi. L’idea dell’artista e la volontà naturale sono verità che il sensibile e l’intellegibile individuano e vivono grazie all’esperienza trans-dimensionale, che è tanto più reale, tanto più viva, tanto più credibile, quanto il sé riesce a donarsi alle molteplicità e condividere con esse il tutto.

In fondo, cos’è la natura se non la più meravigliosa opera d’arte?

 

in foto Emile Nolde, Girasoli rossi e gialli, 1920.