DAL DOMINIO ALLA COMUNITA’ AUTARCHICA

Non ci giro intorno: finché le persone si identificheranno nel profitto, libertà ed eguaglianza rimarranno retorica. Maggiore è l’accumulazione, maggiore è il potere che ne consegue e, di conseguenza, chi ne ha di più prevale su chi ne ha meno, chi ne ha meno su chi non ne ha, chi non ne ha se la prende con gli immigrati!

Battute a parte, gli squilibri umani, sociali, naturali che esso provoca dovrebbero essere sufficienti per disprezzarlo e dedicarsi a una nuova concezione di esistenza. Invece non è così. Le persone sono talmente narcotizzate dal desiderio di accumulare che si comportano come l’affamato davanti alla tavola imbandita, che afferra e divora qualunque cosa riesca a prendere finché non sviene esausto. Con una piccola differenza: che se a lui basta vomitare per riprendersi, la vita non consente seconde opportunità.

Di sicuro il bombardamento incessante messo in atto dal capitalismo ha raso al suolo i neuroni dell’uomo moderno. Ma la causa di tale dipendenza non può essere solo il condizionamento mediatico o il desiderio di emulare l’ostentazione dell’abbiente. Altrimenti non si spiegherebbero le infinite guerre fra miserabili che logorano l’umanità dalla notte dei tempi.

Credo invece che la vera ragione per cui l’individuo ha bisogno di identificarsi nella materialità sia la necessità di compensare l’inquietudine della finitezza esistenziale. Disporre di beni, ammassandoli o capitalizzandoli, ripristina l’autostima lesa dalla natura mortale. Padroneggiarli inebria di onnipotenza. La precarietà dell’esistenza è un tarlo che perseguita anche il soggetto più superficiale e così l’uomo vive per possedere perché il possesso è il modo più veloce per dare un senso alla vita. Senza trascurare che consente di affrontare con maggior sicurezza la competizione sociale e con l’ambiente e talvolta gratifica pure, vedi la soddisfazione di graffiare il macchinone parcheggiato a cazzo o rifarsi il guardaroba eludendo la sorveglianza.

Nella maggior parte dei casi, però, al godimento di uno fa da contraltare la soggezione e la sofferenza di molti. E questo è un problema! Eppure il creato insegna che gli stormi confondono il rapace, le mandrie si difendono dal predatore. Per non citare le solite formiche, vespe e così via. Gli animali attivano forme di organizzazione collettiva nell’interesse comune. E fra le piante vige il medesimo principio antiautoritario attuato mediante l’interconnessione continua con cui le radici si scambiano informazioni e nutrienti. Se quindi la natura opera con il “mutuo appoggio” nell’interesse comune (Kropotkin), l’uomo sopraffà e distrugge per narcisismo. E si sente pure figo.

La verità è che il desiderio di possedere beni imprigiona la volontà in gabbie effimere, anziché consentirle di realizzarsi in tutta la potenzialità. Potenzialità che è semplicemente amore. Amore che deve essere puro e spontaneo per appagare pienamente. Solo quando è libera di amare incondizionatamente, infatti, può unirsi alle infinite molteplicità. Ecco perché scegliere di rifiutare le falsità consolatorie per unirsi all’indistinto è una rivoluzione etica. “Essere con”, “essere per”, “essere in” in una metamorfosi spontanea in cui la volontà si rinnova nel continuo divenire della vita. Bisogna perdere l’egotismo per fondersi con l’ambiente e, nelle relazioni sociali, creare consorzi autogovernati e interdipendenti in cui ciascuno possa realizzare se stesso in una continua interconnessione col prossimo.

Comunità è la parola chiave per creare empatia, immedesimazione, contagio emotivo necessari alla fusione d’identità. Comunità con le entità circostanti. Comunità con affini. Fondersi nella realtà da protagonisti. Ma per farlo bisogna essere umili e modesti. Puri. Abbandonare i desideri materiali, il giudizio omologante, l’interesse edonista, tutto ciò che altera l’equilibrio personale e impedisce di cogliere l’armonia delle cose e godere del divenire di cui fanno parte. E ciò è possibile solo eliminando la futilità. Che non significa vegetare o vivere come asceti, ma partecipare alla processualità della vita che esplode nelle sue infinite manifestazioni affinché divengano proprie. Essere albero che frescheggia quando le fronde oscillano al vento, rugiada che riposa sulle foglie, il cane che corre sul prato, la processionaria che striscia e il dolore che prova mentre la schiaccio perché il mio Darko la sta puntando.

Applicando il concetto alle relazioni sociali, la comunità non può che essere autarchica. Non quella pratica dirigista che decreta l’intervento statale nell’economia mediante la regolamentazione del mercato e il controllo centralizzato degli scambi. Tipo il fascismo. Tantomeno quella socialista o comunista che, più o meno celatamente, hanno sempre guazzato nel mercato e nella soggezione autoritaria. Parlo di autarchia anarchica, che spoglia il concetto del suo esclusivo significato economico per restituirgli l’antico valore filosofico di derivazione cinica e stoica. Dalla prima corrente riprende l’autonomia e il rigetto delle regole che impediscono all’individuo di conseguire la felicità. Dalla seconda che la “padronanza del sé” si raggiunge perseguendo una pratica ispirata al controllo delle passioni, al rifiuto delle comodità artefatte e all’equilibrio dello spirito attraverso la saggezza, senza però abbandonare il piacere della relazione e della solidarietà.

Ẻ l’inizio di una nuova tappa dell’evoluzione umana in cui essere “padrone di se stesso” vuol dire “bastare a se stesso”. Una scelta etica in cui ridefinire i rapporti con gli altri, con la natura e, nondimeno, con se stessi. Un nuovo modello di autosufficienza sviluppata attraverso l’autogoverno e lo sfruttamento delle proprie risorse, dove l’individuo non fa economia, non si appropria e accumula, ma produce per soddisfare i bisogni primari propri e altrui e condivide gli interessi senza imposizioni o regole, senza centri di potere e divisioni fra dominanti e dominati.

Con un solo limite: non può essere imposta. La scelta deve essere volontaria ed è volontaria quando si cambia il rapporto con la contingenza. Ecco perché, prima ancora di cancellare il governo e le sue strutture, bisogna eliminare gli artifici mentali, le illusioni, fra le quali il profitto gioca un ruolo primario nella società del dominio. Non è una rinuncia, ma la via per la libertà. Perché solo chi è libero, cioè affrancato dagli inganni corruttivi, possiede l’unica cosa che conta: la genuinità necessaria per assaporare l’estasi della comunione.

Non escludo che questo affrancamento possa avvenire in solitudine, dove però l’effetto presto sparisce nella malinconia del silenzio, ma è nel gruppo che si esalta. Unità di intenti, parità di rango, pluralismo di idee, solidarietà vera realizzati in un confronto continuo e paritario di economia sostanziale in cui si sviluppino attività ancestrali come l’orticoltura, la selvicoltura, la pesca, l’artigianato e tutte quelle che non creano squilibri e non saccheggiano il mondo. La produzione deve concentrarsi sui beni necessari e poi cessare. Non esiste industria, fabbricazione di massa e il commercio è scambio di necessità. Il lavoro deve essere organizzato applicando il principio fourierano per cui il tempo lavorato va impiegato in attività diversificate: dalla terra al laboratorio, dal laboratorio alla scuola, dalla scuola ad attività pubbliche e così via. Le eventuali eccedenze devono essere impiegate in attività sociali, o per favorire l’esportazione-importazione intercomunitaria dei prodotti basilari, o distribuite per garantire il minimo necessario a chi, per qualunque motivo, non può contribuire. Perché oggi a me è andata meglio che a te, ma domani chissà!

Il progetto è semplice come respirare in un’alba tersa.

L’unico ostacolo consiste nel rimuovere le contaminazioni che ammorbano la società del dominio, senza cui è impossibile crearne una nuova. Uno slancio consapevole che richiede il coraggio del divergente, la determinazione del giusto, la passione dell’innamorato, non facili da trovare o esprimere in tempi mistificatori dove i dissidenti vengono ignorati, disprezzati, ridicolizzati, isolati, poi eliminati dal consesso sociale. Eppure basterebbe riappropriarsi della ragione, non dico neanche del più elitario sentimento, e magari evitare di usarla per annientare il mondo. Abbiamo capito che in quello siamo i numeri uno, ora proviamo ad esserlo dove conta davvero!

NO ANTIFASCISMO, SI’ ANTIAUTORITARISMO

NO ANTIFASCISMO, SI’ ANTIAUTORITARISMO

L’antifascismo è quel movimento ideologico eterogeneo, in quanto riunisce soggetti anche molto diversi fra loro, caratterizzato dalla contrapposizione teorica e pratica al fascismo.

Attivo prima della seconda guerra mondiale per replicare alla propaganda di regime e reagire all’atmosfera di prepotenza, intolleranza e terrore, dopo l’armistizio dell’8 settembre, giocò un ruolo fondamentale nella liberazione dal nazifascismo. Terminato il conflitto, allo slancio politico il paese preferì la lavatrice nuova1 ed esso, salvo rare e nostalgiche manifestazioni, venne obliato. Almeno fino agli “anni di piombo” quando la destra e la massoneria diedero vita a quei simpatici rigurgiti sfociati nel terrorismo di stato. Da quel momento il suo significato è andato oltre la mera negazione del ventennio per contestare qualunque idea e pratica reazionaria. Sembrava l’alba di una nuova epoca, invece si trattava del golpe bianco che, attraverso l’uniformazione sociale, avrebbe concepito il meraviglioso sonnambulismo di questi tempi.

 

La ragione della contrapposizione al fascismo si spiega col fatto che esso è un “aborto storico”2. Meno enfaticamente, trattasi di un movimento politico di estrema destra in cui i frustrati di ogni rango si identificano nella banalizzazione del superuomo nietzschiano praticato con lo squadrismo e idealizzato nel nazionalismo. I suoi valori sono sintetizzati dalla formula: “dio, patria e famiglia”. Dio come verità assoluta, patria come luogo da difendere, famiglia come centro degli affetti. Aggiungerei anche la violenza, ma in epoca di cancel culture non vorrei offendere la sensibilità dei sempre più numerosi fascistelli sulla piazza.

Lasciando perdere Dio perché concepisco l’ebrezza del rum non quella della fede e la famiglia perché se uno desidera essere ammaestrato dovrebbe fare l’animale del circo, più intrigante è il concetto di nazione. Nazione che rappresenta la sintesi delle individualità nella comunità omogenea, gerarchica e bellicosa3, in cui l’idolatria dello Stato soggioga l’individuo e strumentalizza gli istituti civili nell’ostentazione militarista e imperialista. E per non farsi mancare nulla, tutto viene condito da un pervicace sentimentalismo di appartenenza.

Il fascista è la sua patria: si identifica quasi in maniera commuovente con il territorio, la cultura, la lingua, la religione, la storia, le tradizioni le istituzioni. Ẻ un servo devoto, orgoglioso di partecipare alla “grandezza morale e materiale del popolo italiano”4 di cui si sente fiero rappresentante. E lo fa con tale sincera devozione che ancora aspetta fiducioso quel favoruccio dall’assessore. Per la bandiera soffre, si esalta, inneggia, si arrabbia, aggredisce in un tourbillon di schizzofreniche emozioni. E a coloro per cui “la nostra patria è il mondo intero, nostra legge è la libertà, ed un pensiero ribelle in cor ci sta”5 è sempre pronto a elargire un po’ di sano, redentore, patriottico squadrismo.

 

Tornando all’antifascismo, nel tempo il suo significato si è evoluto. Per non rimanere ancorato all’anacronistico rifiuto delle pratiche violente, intimidatorie e razziste di cui la dittatura si è resa protagonista, aveva due soluzioni: o prendere le distanze dalla mistificazione statocentrica oppure consolarsi con l’idea che lo Stato sia un padre un po’ stronzo, ma si può chiudere un occhio perché ha promesso di comprare le figurine. Ovviamente ha scelto questa seconda.  

Sintesi dell’antifascista moderno è il rifiuto della tirannia: condivide, infatti, tanto l’opposizione all’imperialismo capitalista, perché non si può essere eguali solo quando si consuma, quanto il disprezzo per gli autoritarismi sia di destra, come le dittature sudamericane, che di sinistra, come quella sovietica. Esalta quindi i valori democratici in opposizione a qualunque idea e pratica autoritaria.

Ma essi, se intesi come rispetto delle esigenze, della dignità e dei diritti altrui, sono legati alla sensibilità personale o collettiva, in quanto tali mutevoli nel tempo e variabili in base al contesto, per cui impossibili da determinare. Ecco perché è più corretto definire democratico chi “si ispira o è conforme ai principi fondamentali della democrazia6, ovverosia quel “metodo per prendere decisioni collettive” con partecipazione personale e scelte prese a maggioranza7. Detto altrimenti, è colui che riconosce quella forma di governo in cui la sovranità è esercitata dai cittadini attraverso una consultazione popolare che può essere diretta, quando si occupano personalmente del potere legislativo, esempio è la polis greca, o indiretta, quando eleggono dei rappresentanti, esempio è il parlamentarismo. Qui sta l’inghippo.

 

La prima considerazione è che la partecipazione diretta non esiste più. Se nel medioevo, infatti, quando suonava la campana, gli abitanti del Comune si riunivano per dibattere i problemi della città, dall’Illuminismo in poi si parla solo di rappresentanza. La democrazia oggi infatti è solo indiretta. Aggiungendo che gli eletti e i sistemi elettorali sono scelti dai partiti, rispetto alla Monarchia a cui si opponeva in origine, essa è un piccolo passo per l’umanità, un grande passo per le oligarchie. Ma non voglio fare lo spiritoso parafrasando Neil Amstrong.

La seconda considerazione è che oggi esiste solo un modello di democrazia: quella liberale occidentale anglo-statunitense. E non potrebbe essere altrimenti, visto che per proteggerla e diffonderla i suoi artefici annientano qualunque alternativa.

I paradigmi che la caratterizzano sono:

  1. Il pluralismo politico.
  2. Il suffragio universale.
  3. Il principio della maggioranza.
  4. Lo stato di diritto.
  5. La divisione dei poteri.
  6. La libera manifestazione del pensiero.
  7. La libertà di stampa e la libera iniziativa economica.

Principi che dalla teoria alla pratica diventano:

  1. Pluralismo politico: può vincere chiunque ma i moderati vincono sempre. Il massimo per garantire “fascismo eterno”!8
  2. Suffragio universale: quella regola per cui tutti i cittadini, non solo pochi privilegiati, possono essere manipolati senza distinzione di sesso, età, razza, eccetera.
  3. Maggioranza: se il più forte vince, almeno il più debole ha qualcosa di cui lamentarsi.
  4. Stato di diritto: il rispetto dei diritti e delle libertà viene garantito dallo stato di polizia.
  5. Divisione dei poteri: principio fondamentale per sdoganare la divisione in caste.
  6. Libera manifestazione del pensiero: consiste nel tollerare il pensiero divergente quando si è conformato a quello generale.
  7. E se con la libertà di stampa si intende la libertà dell’editoria di assecondare chi la finanza, con la libera iniziativa economica si configura il sogno americano per cui chiunque può fare soldi se altri lavorano per lui e consumano i suoi prodotti.

Difendere la democrazia significa quindi difendere queste distorsioni che, salvo qualche variazione di facciata, rimarranno tali finché sarà fondata sullo statocentrismo. L’imperio dello Stato, infatti, non solo ne esclude l’attuazione pratica in termini di partecipazione diretta in quanto con esso incompatibile, ma oscura la possibilità di alternative che siano veramente democratiche, cioè fondate su sistemi libertari, orizzontali ed egualitari, non gerarchizzati né elitari, con i quali sparirebbero i privilegi, i profitti, gli abusi di chi lo sostiene o ne approfitta.

Ecco perché la democrazia moderna è solo una forma mascherata di autocrazia. Anche quando opera nel giusto, come ad esempio… come ad esempio… non mi viene in mente nessun esempio! Comunque, anche supponendo che agisca nell’interesse dei cittadini, la maggioranza che lo ha votato, il governo impone sempre le sue decisioni punendo chi non le rispetta, la minoranza, e gli sparuti refrattari. Rappresenta pertanto un sistema soverchiante, aggressivo e violento che annulla la personalità. Niente di paragonabile col fascismo primigenio ovviamente, in quanto il tempo ha affinato i metodi, che sono diventati meno precipitosi e arroganti, più accorti, scaltri, perché no, ipocriti quanto basta a far credere ai sempliciotti che agisce nel loro interesse.

Ne consegue che, quando l’antifascismo richiama i principi della democrazia, intesa come quel modello di ispirazione illuminista e attuazione imperialista, ne legittima anche il metodo endemicamente oppressivo e dispotico. Riconoscendo lo Stato, infatti, ratifica l’azione di un governo che, coadiuvato da mastini-cacciatori di trasgressori, decide a nome di tutti nell’interesse di pochi. E mentre questi ultimi continuano a godere dei privilegi, economia e scienza perpetuano disastri umani e ambientali, i politici si spalleggiano per la conquista e la conservazione del potere. Non mi sembra un bel quadretto!

 

Diverso dovrebbe essere il discorso per gli anarchici che, invece, non ambiscono a governare e vogliono eliminare lo Stato.

Vero che eludono il potere, rifuggono le istituzioni e disprezzano ogni artificio ingannatore. Anche loro però manifestano sempre più frequentemente i valori dell’antifascismo attraverso l’esaltazione della democrazia, sostenendo di fatto un modello politico-istituzionale centralizzato e autoritario antitetico ai propri principi.

La causa di questa dissonanza cognitiva e della profetica fantasia di poterlo cambiare sta nella letargia mentale indotta dal perbenismo a cui anch’essi ormai sono assuefatti. L’effetto, invece, è che non sono più capaci di rottura col sistema. Anche per loro l’antifascismo è diventato niente più che una leva identitaria. Un cliché con cui spacciarsi migliori nonostante la mediocrità conformista e politicamente corretta di cui ormai sono parte integrante. Uno slogan come la maglietta con l’effige di Che Guevara. Come Calimero, non a caso nero anche lui. Come, guarda un po’, la democrazia.

Non si è anarchici perché antifascisti. Gli anarchici sono anche antifascisti perché contro ogni arbitrio. La loro bussola non può essere data dai così detti principi democratici, ma dall’antiautoritarismo, che ne assorbe il significato estensivo, e si concretizza nel rifiuto della società del dominio: dal profitto che lo alimenta alle istituzioni che lo conservano, dall’economia che lo diffonde alla scienza che lo sacralizza, dalla religione che lo benedice all’omologazione che lo disciplina.

Identitaria deve essere la volontà di estirpare l’arbitrio, la violenza, il sopruso, la prepotenza, il pregiudizio perpetrati costantemente e impunemente in ogni pratica sociale. Se non si eliminano questi squilibri endemici, se non si sopprime lo Stato che ne è la legittimazione etica, sono solo chiacchiere. Belle, interessanti, talora entusiasmanti, ma solo chiacchiere.

Non serve migliorare le istituzioni, bisogna sostituirle con altre che siano volontarie, acentriche, orizzontali, pluraliste, autogestite, solidali, in un sistema in cui gli individui siano padroni di se stessi e in quanto tali realizzino le proprie potenzialità in una permanente reciprocità. Occorre un’azione radicale di tipo olistico che accerchi il Potere creando comunità indipendenti che ne erodano competenze e autorità. Questo è l’antiautoritarismo anarchico.

A quel punto, eliminata ogni sua manifestazione, il fascismo si dissolverà spontaneamente e  il Potere sarà costretto a cedere. O quantomeno, a confrontarsi e accettarle per la sua stessa sopravvivenza.

Certo, poi bisognerà vedere se le comunità lo tollereranno. Ma questa è tutta un’altra storia.

 

NOTE

*1 Oblio che comincia con la “Amnistia Togliatti” del 1946 con cui il governo De Gasperi, per superare le violenze della guerra e ripristinare la pace politica e sociale, concesse clemenza a tutti coloro che si erano macchiati di reati politici, di collaborazionismo, di concorso.

*2 Manuel Giannantonio, Anonimous, llmiolibro, 2013.

*3 Rubo gli aggettivi alla definizione che Gentile usa nel suo libro “Fascismo: storia e interpretazione”, Laterza, 2002.

*4 Discorso di Mussolini del 24.3.24.

*5 Pietro Gori, “Stornelli d’esilio”, 1895.

*6 Definizione data dalla Treccani.

*7 Norberto Bobbio intervistato da Renato Parascandolo della Rai il 28.2.85.

*8 Umberto Eco, “Il Fascismo eterno”, La Nave di Teseo, 2020.

 

LETTERA – VIOLENZA

Mi scrive un amico di Roma. E’ una mail molto lunga, ma se c’è un vantaggio dell’essere dislessici è che posso saltare le righe senza sentirmi in colpa.

Dopo un interminabile premessa in cui mi fa sapere che da giovane era comunista, poi è diventato “pidduino”, suppongo sia un refuso e volesse intendere “piddino”, infine leghista, racconta che la sua ragazza nel momento topico lo chiama Matteo perché immagina di farlo con un noto politico di cui non specifica il cognome e chiede se potrebbe essere definito anarchico nel caso in cui decidesse di eliminarlo.

 

Caro amico di Roma,

Ringraziandoti per avermi scritto, ti dico che apprezzo sinceramente i tuoi propositi regicidi, ma credo che presentino alcune piccole inconvenienze.

Innanzi tutto non mi hai comunicato di che Matteo si tratta. Ho provato a fare una ricerca fra i politici più famosi che portano questo nome, ma gli attribuiti “pagliaccio”, “manipolatore”, “farabutto”, “viscido” valgono per molti di loro. La prossima volta che scrivi, sii più preciso.

In secondo luogo, sconsiglio di ambire a essere anarchico. Lo Stato non ha pietà verso chi non gli porta profitto, figuriamoci verso chi gli dà solo rogne. Dichiarati liberale, comunista o, perché no, democristiano. Quelli sono eterni!

Evita i propositi aggressivi. Non che aborrisca la violenza di principio: se assume le forme della rivolta contro un atto ingiusto, la ritengo addirittura necessaria e morale. Ma le rivoluzioni si fanno fuggendo, non combattendo. Chi osteggeranno, umilieranno, vesseranno quando non ci sarà più nessuno?

E poi la violenza contro il Potere non va più di moda. Al tempo della così detta “propaganda del fatto” si uccideva il tiranno per risvegliare il popolo. Oggi l’oppressore non è altro che uno che ce l’ha fatta. Eliminarlo equivarrebbe a negare ciò che tutti vorrebbero essere. Non ti perdonerebbero mai di aver attentato i loro sogni.

Peraltro le autorità farebbero a gara a perseguirti per un briciolo di notorietà. Per mesi i talkshow ti dipingerebbero come un mostro. Andresti incontro a degradanti afflizioni fisiche e morali. Un’ulteriore tortura che non meriteresti, visto quello che stai passando.

Ragion per cui, anziché portare a termine il tuo proposito, ascolta un amico: cambia morosa.

 

SIAMO TUTTI ANIMALI

SIAMO TUTTI ANIMALI

Hai sentito della bambina che è andata nel bosco col cane e un cacciatore gliel’ha ammazzato? Dopo il misfatto ha confessato d’averlo confuso per un cinghiale. Non lo biasimo, probabile che mentre sparava pensasse già al ragù delle pappardelle!

La notizia ha avuto poca risonanza mediatica e sicuramente l’opinione pubblica avrebbe reagito diversamente se avesse colpito la piccola. Perché, come dice Orwell ne La Fattoria degli Animali: “tutti gli animali sono eguali, ma alcuni sono più eguali degli altri”. E gli uomini lo sono ancora di più.

 

Partiamo da un antefatto certo: è ormai dimostrato che uomini e animali hanno antenati comuni. Provengono entrambi dalla stessa molecola del DNA, che poi nel tempo ha subito una serie di modificazioni, differenziazioni, evoluzioni fino a creare le specie che conosciamo oggi. Tanto per essere chiari: l’uomo è uno scimpanzé più figo. Ha poco da fare tanto tanto il bulletto!

Quale primate più sviluppato siede sul punto più alto della piramide. E da lì non osserva imparziale, non controlla e domina senza far niente come Simba1. Partecipa al ciclo evolutivo ora favorendo l’estinzione di una specie, ora con la distruzione di una foresta, ora sterminando i propri simili. Tanto che, a volte, viene da chiedersi chi è il cretino che l’ha messo lassù.

Ovviamente si è messo da solo. Ma per non affermarlo spudoratamente, l’ipocrisia è una delle più praticate fra le sue peggiori qualità, ha sempre cercato qualcosa che lo confermasse. E fu così che, quando ancora guardava le stelle chiedendosi chi avesse realizzato quella meraviglia, intuì il trascendente. Da attribuirgli i meriti del creato a riconoscersi suo prediletto il passo è stato breve.

Le Sacre Scritture, infatti, affermano che Dio è onnipotente e che l’uomo è il figlio creato a sua immagine e somiglianza (Genesi 1,27), per cui può “dominare” gli animali e “soggiogare” la terra (Genesi 1,26.28). Per l’Islam la natura è un mezzo per raggiungere Allah poiché “i sette cieli e la terra e tutto ciò che in essi si trova lo glorificano” (Corano 17, 44). Insomma, le religioni monoteiste si definiscono tali non a caso: il dio è uno solo e si chiama uomo.

Non meno antropocentriche sono quelle politeiste: per gli egiziani gli dei erano elementi della natura che avevano forma umana; per i greci essa era la physis cioè la totalità delle cose, come la definivano i presocratici Eraclito e Anassagora, da cui tutto origina e senza cui nulla potrebbe essere com’è, che si personificava con creature antropomorfe interagenti fra loro; per i nativi americani la natura è la madre che dona il suo corpo per il nutrimento dei figli. Potrei proseguire con infiniti esempi dello stesso tenore.

Per secoli quindi le religioni sono state il più potente strumento di legittimazione del dominio sulla natura. Ma quando nel medioevo si cominciò a non poterne più dei numi opprimenti, l’ontologia abbandonò la metafisica per guardarsi intorno. Sperimentazione, creazione di ipotesi a cui seguono ragionamenti per arrivare a leggi che descrivono fenomeni. Ecco creata la nuova causa di riverenza al passo coi tempi: la scienza. E se all’inizio i suoi estimatori venivano cotti alla brace, scoperto il Nuovo Mondo ha cominciato a rinfrescare il vecchio, con la rivoluzione industriale ha assunto i crismi dell’infallibilità, dell’onnipotenza, dell’assolutezza, fino a diventare la dittatura che oggi adoriamo tanto.

Col pragmatismo che le è proprio essa ha dimostrato, quindi non c’è più bisogno neanche della fatica di credere, che l’uomo è l’essere più progredito in quanto unico a potersi adattare, sopravvivere, riprodursi tanto nel deserto quanto in vetta a una montagna. Detto in un altro modo, se trasferisci il nostro antenato scimpanzé, il più evoluto fra i meno evoluti, dalle foreste pluviali a New York, di sicuro impazzisce e poi viene abbattuto quand’è in vetta all’Empire State Building2. Se invece costringi l’uomo a fare il percorso inverso, sicuramente trasforma la foresta un bellissimo centro commerciale.

Di fatto la scienza non ha inventato niente. Ha semplicemente cristallizzato ciò che per il senso comune era indiscutibile.

Mi riferisco a coloro che affermano il primato in base alle maggiori capacità razionali di cui l’essere umano è dotato rispetto alle altre specie. Lascia stare che non ne faccia o ne faccia un pessimo uso. E lascia stare che siano coscienti e razionali i vertebrati, gli animali o le piante che interagiscono fra loro per la sopravvivenza e lo sviluppo e forse domani si scoprirà che lo sono anche gli insetti, gli artropodi e gli invertebrati. Ẻ indubbio che rifletta, razionalizzi, risolva problemi come nessun altro. Hai mai incontrato un’aquila mentre raschia un gratta e vinci? Sai di balene che sfrecciano su un catamarano? Conosci babbuini che sappiano assembrare un mobile Ikea? Hai mai visto giraffe che si specchiano nello schermo di un computer per un giorno intero o un orso che si rifà gli zigomi per assomigliare a un castoro? L’uomo, non l’animale né la pianta, riesce a fare tutte queste cose!

Oltre gli oltranzisti della ragione, ci sono i partigiani dell’anima. A loro dire l’uomo è l’unico essere che la possiede. E se la possiede, possiede una coscienza, cioè la consapevolezza del sé, degli altri, dell’ambiente che lo circonda, da cui deriva la capacità di giudicare cosa è bene e cosa è male. Peccato si smentiscano imponendo la morale, la legge, la religione e quant’altro lo uniformi e lo educhi affinché il giudizio non sia personale… Oppure no, magari la morale, la legge, la religione e quant’altro sono create apposta per stimolare le persone a ignorarle consapevolmente. Chissà!

Nel mucchio si distinguono i legalisti, coloro per cui la vita di un individuo è più importante di quella di un animale o di una pianta perché lo dice la legge. Per loro tutto è lecito ciò che consente, tutto è proibito se lo vieta. Le riconoscono un primato assoluto e incontestabile che ha quasi del mistico. Ti dirò: conosco la legge e conosco i mistici e, credimi, sono una pessima combinazione. Quasi peggiore dell’ideologia e del profitto. E siccome i legalisti hanno la capacità di mistificare la legge per idealizzare il profitto, mi spaventano assai!

 

La verità è che il primato dell’uomo è una finzione. Qualunque concezione antropologico-telologica è una fantasia che assolve due scopi: dimenticare la morte e alleviare il senso di colpa per la malvagità di cui è capace. La natura, infatti, lo considera solo un animale fra animali: siamo tutti volontà che partecipa al ciclo della vita e poi torna da dove è venuta. Essa ha nei suoi confronti la stessa considerazione che può avere verso un batterio. Se addirittura non lo ritiene più fastidioso, visto come si comporta!

 

Tornando al caso della bambina e del cane ucciso dal cacciatore, ciò che rende ai nostri occhi la vita umana più importante rispetto a quella di qualunque altro essere non è il suo valore assoluto, che non esiste, ma il nostro punto di vista condizionato da secoli di tradizioni, morale, cultura antropocentrica che considera il tutto come un subalterno, come un mezzo per un fine. Fine che è sanare l’umano bisogno d’eternità.

Come il domino sulla natura, al pari di violenza e accumulazione, è causato dall’urgenza inconscia di negare la propria finitezza, egualmente si idealizza la vita umana, con quella di un lombrico l’effetto non sarebbe lo stesso, perché identificarsi nella sua idea rafforza l’autostima a discapito della inevitabile caducità. E così se il cacciatore avesse freddato la bambina, ella sarebbe diventata figlia, sorella, madre e il dolore provocato dalla sua morte sarebbe stato personale perché provante l’incompiutezza che ci caratterizza. Siccome, invece, ha ucciso il cane, cioè un essere non umano nei confronti del quale solo pochi eletti riescono a identificarsi, è solo un coglioncello!

Peccato che questi artifici mentali di autoconservazione siano un’illusione. E come tutte le illusioni, all’inizio sembrano consolatorie, se perpetrate ripetutamente diventano follia. Che è lo stato permanente in cui ormai vive il genere umano.

NOTE

*1 “Il Re Leone, film di animazione, 1994.

*2 Riferimento a King Kong.

LA RIDEFINIZIONE DEL RAPPORTO CON LA NATURA COME PUNTO DI PARTENZA DELL’AZIONE ANARCHICA

LA RIDEFINIZIONE DEL RAPPORTO CON LA NATURA COME PUNTO DI PARTENZA DELL’AZIONE ANARCHICA

Siamo carne, emozioni, ragione. Siamo volontà. Ogni essere vivente dal più al meno evoluto vuole vivere. La gazzella eviterebbe di scappare dal leone, ma corre veloce perché vuole vivere. Il leone preferirebbe sonnecchiare all’ombra di un albero, ma la insegue per il medesimo motivo. Stessa cosa vale per l’uomo. Nonostante una capacità autodistruttiva superiore a qualunque altro essere, è disposto a tutto, accetta di tutto pur di soddisfare quest’istinto primigenio.

“Da principio la terra produsse la famiglia delle erbe e il verde splendore intorno ai colli… in seguito creò le stirpe mortali, che nacquero in gran numero. Perciò ancora la terra a ragione ha ricevuto e conserva il nome di madre, poiché da se stessa creò il genere umano”1. In queste parole di Lucrezio l’innegabile verità che il creato è fonte, è casa, è necessità e piacere, è equilibrio, è l’assoluto nelle sue infinite, spettacolari manifestazioni. Ẻ estasi. E se “una vita più vicina alla natura ci porta più vicini alle verità”2, come diceva Tolstoj, è solo perché siamo la natura.

Nonostante questo, l’uomo la domina, la altera, la usa, la distrugge, in un processo crudele, vigliacco e irreversibile di cui è fin troppo facile immaginare la fine. Siamo testimoni di una catastrofe e nessuno fa niente. Le persone sono sempre più inebetite. La politica insegue l’economia. L’economia si arricchisce approfittando dell’emergenza.

La sola speranza è data dalle poche, isolate menti ribelli che hanno capito, non accettano e combattono. Individui liberi che non si realizzano nella materialità e vivono in armonia, senza finzioni e attraverso continue relazioni di sympatheya con le cose. Un uomo nuovo che rifiuta il profitto, consapevole che esso genera autorità, da cui deriva il potere, che è arbitrio perché esercitato sempre egoisticamente. Persone che attuano un rapporto paritario e non dominante con l’ambiente, di conseguenza paritario e non dominante con i propri simili.

“Il potere è sempre pericoloso, attira le cose peggiori e corrompe le migliori. Non ho mai desiderato il potere. Il potere è dato solo a quelli che sono disposti ad abbassarsi e raccoglierlo” dice Ragnar a suo figlio Bjorn3. Anche il re vichingo aveva infatti compreso che per essere, bisogna non avere. Che si è liberi solo quando si è puri. E la purezza è immergersi nella realtà e divenire con essa senza condizionamenti.

La finitezza non può essere sanata con la sopraffazione. La volontà non diventa immortale se domina quella altrui. Può invece essere eterna se rinuncia alla propria imperfezione per fondersi con le infinite volontà nel divenire incessante della vita. Ẻ infinita quando si alza verso il cielo attraverso le ramificazioni degli alberi, affonda nella terra insieme ai lombrichi, si immerge nelle acque indorate dal sole, corre nelle praterie, riposa sulle rocce e si risveglia uomo.

Ma perché sia libera di fondersi nel tutto, prima ancora di emanciparsi dalle suggestioni ossessive, l’individuo deve cessare di identificarsi nella materialità. Perché quando l’avidità proietta il sé sul bene desiderato, essa viene ingabbiata nella rappresentazione.

Ẻ una scelta etica. Dove bene è ciò che mantiene l’equilibrio naturale, male ciò che lo altera. Per questo l’iniziato rifugge la proprietà e, di conseguenza, il dominio. Vuole che le cose non siano più strumento di privilegio e arbitrio, ma mezzo attraverso cui conseguire l’equilibrio naturale. Vuole esistere, non essere schiavo.

Se non è determinata dal bieco tornaconto, la volontà può esprimere la sua creatività. E perché avvenga questo balzo evolutivo occorre che l’individuo cessi di essere homo faber, che si considera anima del mondo4, copula mundi dice Ficino4, e pensi e agisca come homo humilis, che concepisce la terra come “geometria”, come misura della vita5. Solo così può smettere di conquistare e interagire con gli altri esseri viventi mettendo la propria soggettività al loro servizio.

E quando l’uno diventa tutto, tutto cambia. Spariscono i dannosi rapporti di forza che asfissiano la quotidianità: le relazioni diventano orizzontali; il lavoro si trasforma in prestazione con qualcuno non per qualcuno; l’autogestione favorisce la partecipazione alle decisioni; la cooperazione stimola lo svolgimento delle attività in maniera conviviale, a rotazione e tenendo conto delle capacità e competenze personali; la solidarietà garantisce il minimo necessario, l’equa distribuzione delle eccedente e il fondamentale sostegno morale. E così via.  

 

Ma non basta. La consapevolezza identitaria e la pratica etica che ne consegue non sono sufficienti. Non è vero l’assunto di Max Nettlau per cui “tutto quello che occorre all’individuo per garantirsi una libertà non sottomessa al potere di chicchessia consiste, oltre alla salute mentale, all’indipendenza economica resa possibile dall’eguaglianza delle condizioni di utilizzo delle risorse della terra e dei doni spontanei della natura. Una volta conseguito ciò per mezzo di accordi reciproci nell’ambito di un’organizzazione volontaria, l’essere umano può vivere libero e felice”6. Come l’arbusto svigorisce e poi muore nel deserto, l’anarchia si svuota e si estingue operando in un contesto dominato dalla competizione e dal profitto. Perché può essere indipendente, fibrillante, viva quanto si vuole, ma la società del dominio è un blob che ingerisce qualunque cosa e, in men che non si dica, può ingurgitarla. Per questo non può prescindere da un’azione antagonista.

Da una parte c’è lo Stato, l’economia, la religione, il senso comune, che impongono le loro leggi. Dall’altra chi decide personalmente e riconosce solo quelle che ha contribuito a formare. Lo scontro è inevitabile. Gli anarchici tuttavia hanno imparato sulla propria pelle che la suggestione del faccia a faccia col potere fa troppi lividi. Per questo oggi agiscono nell’underground e si sostengono con la Confederazione.

Underground è lo sviluppo di comunità volontaristiche, autogestite, pluraliste, solidali che operano eludendo l’autorità. Non partecipazione alle sue pratiche, non collaborazione con le sue istituzioni, trasgressione alle sue regole. Dopo tutto non c’è bisogno dello Stato perché la società funzioni: “La parte essenziale della vita sociale si compie anche oggi al di fuori dell’intervento governativo”, diceva Malatesta. Infatti le cose in cui lo Stato non ha ingerenza “sono quelle che camminano meglio, che fan luogo a minori contestazioni e si accomodano per la volontà di tutti in modo che tutti ci trovino utile e piacere” perché “la vita quotidiana si svolge al di fuori della portata del codice ed è regolata, quasi inconsciamente, per tacito o volontario assenso di tutti, da una quantità di usi e costumi ben più importanti alla vita sociale che gli articoli del codice penale, o meglio rispettati, quantunque completamente privi di sanzione”7. La società esiste di per sé quale umano esercizio di sopravvivenza ed è partecipe, efficiente, produttiva, unita quando non viene intorpidita dalle logiche del dominio.

Una volta che le comunità sono attive, strutturate e sviluppate autonomamente, seppur nel rispetto delle specifiche differenze, devono coordinarsi per disobbedire agli ordini del tiranno, sottrargli potere attraverso l’organizzazione di strutture indipendenti che assolvano funzioni sociali, creare meccanismi di protezione che sfruttino quelli dominanti, e svilupparsi, per quanto possibile, senza vicoli territoriali in maniera da attaccare e fuggire come pirati. E innanzi all’inevitabile repressione, resistere e unire le forze per colpire il Mostro nei punti vitali sottraendogli profitto e autorità. Questa è la funzione della Confederazione.

Depredato, fiaccato, indebolito dall’azione di infinite sovranità che si riproducono continuamente, pur di non estinguersi e mantenere i propri privilegi, a quel punto l’oppressore potrebbe concedere il diritto di astensione. Riconoscere che l’individuo non sia più sottoposto alla sua autorità per nascita, ma possa scegliere liberamente se e come governarsi. A parte lo Stato e nonostante esso, possano cioè sorgere raggruppamenti legittimati che operano sovranamente per conseguire scopi condivisi. Un sistema di multigoverno non necessariamente territoriale, sviluppato attraverso comunità collegate su base federalista che garantisca l’antiautoritarismo e le preservi dai rischi di isolamento e regressione, svincolato da potere centrale seppur non in conflitto con esso.

Non è il massimo, ma da qualche parte bisogna pur cominciare.

NOTE

*1 Lucrezio, 94 ac-50 ac, De Rerum Natura.

*2 “Una vita più vicina alla natura ci porta più vicini alle verità di una dominata dalle complicate norme della legge e della moda” frase completa.

*3 Così parla Ragnar al figlio Bjorn nella serie televisiva “Viking”.

*4 Termine usato da Appio Claudio Cieco (350-271 ac) nell’opera Sententiae col significato di uomo che guida il proprio destino e ripreso dall’umanesimo in antitesi all’Homo sapiens, con l’intento di rendere il sapere non più esclusivamente speculativo, quindi fine a se stesso, ma pratico, cioè utile all’edificazione di una realtà funzionale all’uomo.

*5 Concetto espresso dal pioniere dell’ambientalismo Aldo Leopold, 1887-1948, Pensare come una montagna, Piano B edizioni.

*6 Max Nettlau, Alcune idee false sull’anarchia (1905) in Gian Piero de Bellis, Panarchia, D Editore, 2017.

*7 Errico Malatesta, Anarchia, Ed Anarchismo, 2013. Da cui ho tratto le sue citazioni presenti in questo articolo.

 

 

41 – RIBELLIONE: INSURREZIONE E ALTRE FORME DI AZIONE DIRETTA -segue

Pottutto chiese a Manganello di portargli un cappuccino.

Il maresciallo uscì senza fiatare. Pochi secondi e rientrò per avvisarlo che il latte era finito.

«Allora solo caffè!»

«La macchinetta dà solo tè all’ibisco…»

«Lasci perdere, ho la pressione bassa di mio!». Il PM replicò stizzito. Dalla solita tasca della giacca estrasse una moka e un fornellino elettrico. Accese e la fissammo in silenzio finché non cominciò a fischiare.

«Senti che profumo!». Riempì la tazzina sua, quella del maresciallo. «Lei ne vuole?» chiese a me.

Lo gustammo come tre vecchi amici al bar. Dopo di che mi domandò se volessi fare qualche nome. Gli risposi «Più tardi!». Replicò un laconico: «Tanto lo sapevo!».

Ricominciai a parlare: «C’è un momento in cui il ribelle capisce che non basta disertare, che il sopruso può cessare solo quando si annienta la fonte che lo determina. A quel punto si presentano due soluzioni non necessariamente antitetiche: creare una realtà alternativa ed elusiva, l’underground, oppure ricorrere all’insurrezione. Approfondirò la prima fra un po’. Due parole sulla seconda. L’insurrezione è quell’azione che si compie attraverso una protesta violenta e decisa con lo scopo di minare il sistema e imporre il cambiamento mediante scontri asimmetrici, tipo la guerriglia, e psicologici, tipo il terrorismo.»

«Insurrezionalisti!» gorgogliò Manganello.

«Non solo!» replicai. «Perché sicuramente queste azioni producono un bell’effetto scenico, ma hanno scarsa sostanza… Anche se riconosco che sono un bel palo in culo al Potere!»

«Dopraho!». Manganello schizzò indignato.

«Mi perdoni, ma ci stava!»

«Dottore?». Fissò Pottutto in attesa di una sua reazione.

«Effettivamente ci stava!»

«Grazie!» replicai.

«Prosegua!»

«Il ribelle è sempre un insubordinato perché l’insubordinazione consiste nel non sottomettersi all’ordine a cui si dovrebbe obbedire. Si può assimilare alla disobbedienza, benché più reattiva. In cuor suo, ogni anarchico è un insubordinato!»

«Qui la volevo!» bramì Pottutto soddisfatto. «Manganello, aggiunga l’insubordinazione al capo di imputazione!» esclamò roboante. «Beh, che c’è?» fece rivolto a me.

«Mica sono un militare!» eccepii indignato.

«Dovrebbe dirmi grazie. Guardi che bel curriculum le ho preparato?». Indicò il capo d’imputazione.

Lo assecondai e ripresi: «Non è però un no che cambia le cose. Al rifiuto devono seguire azioni che destabilizzino il Potere. La prima che mi viene in mente è il boicottaggio. Sapete come è nato il nome? Nell’Irlanda del XIX secolo viveva un proprietario terriero di nome Boycott. Era un tipo vecchia maniera che amava sfruttare i propri lavoratori. Così essi decisero di inscenare un’azione non violenta nei suoi confronti. I vicini di casa non gli parlavano, se entrava in un negozio fingevano di non vederlo, in chiesa evitavano di sedergli accanto, cose di questo tipo. Insomma, venne così preso di mira che alla fine fu costretto ad abbandonare il paese.»

«Più che boicottaggio, mi sembra bullismo!» esclamò Pottutto.

«Ma a fin di bene!» replicai. «Oggi con il termine boicottaggio s’intende quell’azione di disturbo dai connotati prevalentemente economici realizzata nei confronti di un’azienda. Consiste nel non comprare o nell’ostacolare l’acquisto dei prodotti, colpendola nell’unica cosa che le preme: il profitto. Detta così può sembrare una goliardata. Vi garantisco invece che è molto efficace. Ed è pure etica perché trafigge al cuore sia i principi su cui si fonda il capitalismo, sia la democrazia che lo tutela.»

«Riecco il comunista!» grugnì Manganello.

«Gli anarchici rifiutano la legge del più forte, non negano lo scambio. Il commercio è un fenomeno naturale anche in un sistema di relazioni fra comunità autogestite, dove però prevalgono i principi della solidarietà, del minimo necessario, del dono, della reciprocità. Le merci che produciamo sono fatte perché ne abbiamo bisogno: lavoriamo per il benessere dei nostri simili, nonché per il nostro e non già per un astratto mercato, di cui non sappiamo nulla e che non possiamo in alcun modo controllare, diceva Morris nel suo meraviglioso Notizie da nessun luogo6. L’anarchia non ha niente a che vedere con la dittatura del proletariato perché è autarchica, orizzontale, solidale, e non le interessa appropriarsi del capitale. Vuole distruggerlo quale causa di divisione per produrre solo ciò che è necessario» chiosai la digressione economica. «Tornando al boicottaggio, ne riconosco l’efficacia a breve termine. Nel medio tuttavia non impedisce allo Stato di intervenire a favore dell’impresa danneggiata e ripristinare lo status quo. Occorre pertanto che tale azione sia rafforzata da condotte più incisive…»

«Tipo?»

«Tipo il sabotaggio. Quell’azione solitamente diretta ad arrecare un danno sia per riequilibrare le posizioni durante una negoziazione, sia come strumento di lotta per rivendicare diritti. Presente il luddismo?7»

«Conosce questo luddismo, Manganello?»

Il maresciallo sollevò gli occhi e quando li riabbassò: «L’ho visto una volta, ma solo di sfuggita!»

«Il luddismo fu un movimento di protesta operaia del XIX secolo sorto quando l’introduzione del telaio meccanico provocò un abbassamento del salario e l’incremento della disoccupazione. Si va dal più moderato ostruzionismo, allo sciopero, al rallentamento di attività economiche e civili, alle più cruente espressioni di rappresaglia come le manomissioni, i danneggiamenti, le distruzioni di strutture pubbliche o private o infrastrutture…»

«Uh, quante belle cose!», mi interruppe il maresciallo. «Prima di proseguire, però, mi consente di…». E al PM: «Posso chiamare Sevizia? Vista l’ora non vorrei che tornasse a casa senza…?».

Parlò con il corpo di guardia, l’infermeria, il deposito e la palestra. Tutti posti in cui era stato avvistato. Poi trillò il telefono.

«Pronto?» rispose Pottutto. «Buona sera Spaccafegato. Ha chiamato il suo collega Manganello per sapere dov’è l’agente Sevizia… No, non le ho chiesto del maggiore Sparo… neppure del sottotenente Legnata!». Qualche secondo di attesa e: «Perfetto, la ringrazio. Gli comunichi di passare da noi quando ha finito. Arrivederci!». Attaccò. «È impegnato con un cinese. Pare che sia una cosa lunga perché quello non spiccica una parola di italiano!», e a me: «Cosa diceva del sabotaggio?»

«Del sabotaggio?»

«Di quello parlava!»

«Giusto!». Schioccai le dita. «Stavo dicendo che, se unito al boicottaggio e soprattutto alle tecniche di guerriglia, logora l’avversario con attacchi continui e rapidi realizzando l’arte di fiaccare il nemico con mille piccole punture a spillo, come la chiamava Mao Tze-Tung. Si tratta di un complesso di azioni adattabili alla flessibilità delle organizzazioni anarchiche consentendo a ogni cellula di decidere autonomamente e, sul campo, di sfuggire alla rappresaglia. Inoltre, non implicando un movimento di massa, non generano effetti collaterali e stimolano la partecipazione sociale. La controindicazione è sempre la solita e cioè che queste condotte non cancellano né eludono l’ordine costituito che può riorganizzarsi e diventare più repressivo di prima. Più efficace, invece, è l’occupazione di fabbricati, scuole, terreni, imprese e eccetera» ripresi.

«Ah ah!» starnazzò Manganello. «Fa tanto il superiore, ma alla fine anche voi quando c’è da prendere…!»

«Occupiamo siti solitamente in stato di abbandono, dismessi, a volte anche fatiscenti e li restituiamo a nuova vita per svolgere attività sociali, ludiche, incontri, riunioni, ma anche economiche, di intrattenimento e via discorrendo.»

«Tanto poi vi facciamo sgomberare!»

«Vero. Ma può capitare che la nostra resistenza prevalga. E così vi rivediamo in borghese al mercatino dell’artigianato la domenica. La divisa vi rende un corpo di scherani, che si abituano a considerare i cittadini come carne da manette e da prigione e faccian della caccia all’uomo la principale o l’unica fonte di occupazione8. Sotto sotto però siete dei bravi ragazzi!» 

«Ahimè, siamo umani anche noi!» sospirò Manganello.

«Può capitare di occupare anche aree, diciamo così, più istituzionali come fabbriche o sedi di imprese. Ma sono per lo più azioni dimostrative. L’esempio forse più eclatante è la Zad, o più propriamente zona da difendere. Si tratta di stanziarsi in un territorio per impedire l’edificazione di grandi opere. Com’è avvenuto per Notre Dame Des Landes vicino Nantes nel 2008, dove gli occupanti si opposero alla costruzione di un aeroporto e svilupparono al suo posto una comunità anticapitalista, ambientalista e autogestita. Qualcosa di simile è stato realizzato anche in Val Susa per contrastare la realizzazione della linea ad alta velocità. Ma dalle nostre parti chi parla di diritti e libertà vola dalla finestra o va in prigione per terrorismo.9»

«Dovrei ridere?»

«Una volta occupato il sito, la comunità si autogestisce. Autogestirsi significa autogovernarsi, cioè governarsi autonomamente. Determinarsi senza l’intermediazione dell’autorità. Come dice Antonio Senta, per superare lo Stato è necessario creare esperienze di autogestione, allargare la sfera della cooperazione umana non statale, basata sulla reciprocità e non sul profitto, sul dono e non sul valore. Dare cioè vita a innumerevoli forme di democrazia diretta, assemblate, decentrate, collegate fra loro in senso federalista… Vuole che ne parli adesso o facciamo più tardi?»

«Sono quasi le otto di sera!»

«La notte è giovane!» esclamai. «Comunque le dico che è un metodo organizzativo del vivere sociale innanzi tutto etico, in quanto rifiuta il comando e si esplica in senso non gerarchico, attraverso una pratica collaborativa, solidale e paritaria10. È partecipazione faccia a faccia, mediante un confronto continuo finalizzato a realizzare l’interesse comune. Non c’è un’autorità che decide chi, come e perché. Ciascuno contribuisce agli obiettivi condivisi secondo le sue capacità e le sue forze e…»

«Mi perdoni, ma sul terrorismo non dice nulla?». Pottutto mi incalzò famelico.

«L’anarchia ha abbandonato certe pratiche. Non ha bisogno di creare terrore nella collettività per destabilizzare l’ordine.»

«Nessun attentato, rapimento, strage?»

«No!»

«Suvvia, non faccia il modesto!»

«Che le devo dire?» sbuffai. «Se con terrorismo intende un atteggiamento che vuole realizzare un’idea in maniera radicale, dico che siamo terroristi in quanto realizziamo la nostra idea di mondo. Se invece significa violenza che crea terrore colpendo innocenti indiscriminatamente, sottolineo che è una pratica vile che ripudiamo categoricamente sia perché l’individuo è intangibile, sia perché una società libera non può essere l’imposizione di un ordine nuovo al posto di quello vecchio11

«Vuol farmi credere che non ha mai fatto esplodere una bomba?»

«Ma che discorsi, certo che l’ho fatto!»

«Ora confessa!». Pottutto tirò una gomitata ingalluzzita al maresciallo.

«Come potrei rinunciare alla bomba di Maradona per i botti di capodanno?».

 

 

NOTE

 

– 6 William Morris, Notizie da nessun luogo, 1890.

– 7 Luddismo, la prima fase del movimento operaio britannico (primi decenni del sec. XIX), caratterizzato da reazioni violente contro l’introduzione delle macchine e la conseguente disoccupazione.

– 8 Errico Malatesta, Al caffè, 2010.

– 9 Nel primo caso faccio riferimento all’anarchico Giuseppe Pinelli, precipitato da una finestra della Questura di Milano nella notte fra il 15 e il 16 dicembre del 1969. Nel secondo a Maria Soledad Rosas e Edoardo Massari, arrestati insieme a Silvano Pellissero il 5 marzo 1998 con l’accusa di essere membri del gruppo terroristico dei Lupi Grigi, poi suicidatisi in carcere. Pellissero, invece, venne assolto.

– 10 Antonio Senta, Premesse del curatore in P. Kropotkin, L’anarchia, 2013.

– 11 Paul Goodman, Individuo e comunità, ivi.

 

Editing a cura di Costanza Ghezzi

Immagine: Pablo Picasso, Donna che piange, 1937

 

N 40 – RIBELLIONE OLTRE LA DISOBBEDIENZA: IL NON AGIRE DIVENTA COMUNITARIO (SEGUE)

 

«Prima di parlare della comunità, mi soffermo velocemente su alcune delle molteplici forme di disobbedienza civile».

«Velocemente quanto?»

«Il necessario.»

«Troppo!»

«Disobbedire è fondamentale sia a livello personale in quanto consente di maturare la consapevolezza di essere padroni di se stessi, sia a livello sociale, poiché agisce alla radice. Ma non è la soluzione definitiva. Non lo è perché se esercitata individualmente porta a emarginazione, se collettiva, invece, dopo l’imponente impatto iniziale, si scompone e si disperde per mancanza di omogeneità ideologica e pratica. Non lo è anche perché essendo diretta a modificare o eliminare specifici aspetti o singole norme, non si pone come possibilità antagonista, ma vuole trasformare o riformare. Un’accettazione implicita dell’autorità che determina l’inevitabile instaurazione di nuove forme di dominio. Per questo, ribadisco, il sistema non si cambia, si ignora creandone un altro fondato su principi diversi

«Mediare no, eh?»

«Mediare è un’ottima soluzione quando si ha da perdere. Ma qui è in gioco la dignità. La bestia non reagisce alle botte del padrone perché ha paura che picchi ancora più forte. Pensa a sopravvivere. Noi vogliamo vivere. E possiamo farlo soltanto essendo noi stessi. Ecco perché la disobbedienza spesso viene esercitata contestualmente a pratiche insurrezionali. Ma andiamo per gradi: il primo passo è il non agire di Godard.»

«Scriva, Manganello: Codard!»

«In quale altro modo poteva chiamarsi!». Il maresciallo lo compiacque. E a me: «Nome?»

«Philippe.»

«Morto anche lui?»

«Per ora è vivo e vegeto!». Colsi una luce sinistra nei loro sguardi: «È francese. Non potete arrestarlo!» precisai.

«Ah, francese?». Il PM corrugò la fronte. «Ha mica il suo numero di telefono?»

«No» dissi. «A cosa le serve, se posso…?»

«Ovvio: per chiamarlo e chiedergli di venire in Italia. Così lo arrestiamo!».

Mi complimentai per la strategia.

«Se ricorda, ho accennato alle sue teorie quando ho definito la democrazia come la forma più compiuta di dittatura scientifica. Contro il dispotismo dei sapienti, egli propone di non agire, cioè smettere di lavorare per il progresso. In questo modo si interromperebbe l’afflusso di profitti che alimenta la distruzione del pianeta e lo sfruttamento delle comunità umane. La sua proposta è ripartire cessando di agire contro la natura e rifiutando di impegnarci ancora sulla via del progresso per inventare un’esistenza diversa3. Laddove Goodman suggerisce di tracciare un limite in continuazione, Godard consiglia di tirare una linea e ricominciare con nuovi valori.»

«Scommetto che c’è un però!» rilevò il magistrato.

«Il principio è sacrosanto. Ma è efficace solo se la scelta diventa fusione di volontà. Senza fratellanza la non azione o resistenza passiva, come invece la definisce Emile Armand, manca di forza».

Indicai la pila di fogli.

«Leggo?» chiese Pottutto.

«Ci penso io. Lei non ci mette sentimento!» dissi. «Armand afferma che la resistenza passiva è un atto di ribellione o un insieme di azioni insurrezionali che si estrinsecano non per mezzo di manifestazioni di piazza, né con la sommossa, né con la lotta armata. Ripudiando al contempo ogni metodo violento fondato sull’eccitazione superficiale e passeggera delle moltitudini, propone quindi di innalzare barricate, astenersi da ogni attività, da ogni lavoro, da ogni funzione che implichi il mantenimento o il consolidamento di un dato regime imposto, rifiutarsi di pagare delle imposte o delle tasse destinate al funzionamento delle istituzioni. Prosegue con altri esempi: si può rifiutarsi di utilizzare come professori o come medici coloro che sono tali soltanto grazie a un diploma ufficiale. Oppure si può rifiutarsi di rispondere ai commissari, ai giudici, ai magistrati delle assise, e così via. Tutte condotte che, se svolte su grande scala, cioè con un movimento studiato, premeditato, deciso individualmente, inibirebbero la reazione dello Stato: che potrebbe fare contro questo sciopero silenzioso, ma deciso, contro questa astensione? 4 si chiede.»

«Qualche idea ce l’avrei!» borbottò Manganello.

«Armand è un’individualista e non lo ammetterà mai. Ma sostenendo che la resistenza passiva deve avvenire su larga scala perché se esercitata individualmente o in piccoli gruppi non cambia lo stato di fatto, riconosce implicitamente che solo la fratellanza può disgregare il sistema. Ecco perché la sua naturale evoluzione è la rivoluzione silenziosa di Colin Ward.»

«Colin come colino?» chiese Manganello per i suoi appunti.

Assentii con la testa.

«Questo pensatore post-anarchico realizza un ulteriore passo in avanti. Parla di comunità autogestita e antiautoritaria in cui la resistenza sia portata avanti da aggruppamenti di persone che si associano con finalità antagoniste al sistema. Diversamente dai vari Chomsky, Confort, Goodman e altri contemporanei, infatti, non propone una collaborazione con esso volta a modificarlo al suo interno. Sostiene che l’anarchia esiste già. Che sia viva e praticata. I suoi libri riassumono numerosissimi esempi passati e presenti in cui gli individui si uniscono per creare strutture omogenee, autonome e indipendenti dal Potere.»

«Me ne vuole indicare qualcuna?» chiese Pottutto.

«Le interessa davvero?»

«Al pranzo della domenica mi piace citare gli aneddoti dei miei inquisiti!»

«Le rivoluzioni individuali e collettive descritte da Ward si realizzano quando le persone si organizzano spontaneamente in maniera volontaria, autonoma, autogestita e antigerarchica, per la soluzione di problemi concreti, da risolvere senza l’interferenza delle Istituzioni, dello Stato, di qualsiasi forma di autorità. Se la gente percorre il suo cammino dall’utero alla tomba senza mai riconoscere né esprimere le proprie personalità umane, dice, questo avviene perché la possibilità di partecipare alle innovazioni, alle scelte, alle decisioni e ai giudizi è monopolio esclusivo di chi sta in alto5. A suo giudizio quindi l’alternativa esiste e si concretizza nella pratica quotidiana con uno slancio che costruisce spazi di libertà in cui esprimersi attraverso comunità federative, condivise, solidali, che…»

«Che fanno quello che vogliono!»

«Bravo Manganello, autonome. Ma anche volontaristiche, autogestite, indipendenti e mutualistiche. È una svolta straordinaria. Il punto da cui partire per un cambiamento concreto. In questo modo si può dar vita a quell’alternativa che non solo cancelli l’ingerenza autoritaria, non solo abbia scopi e metodi autonomi, non solo favorisca le potenzialità individuali, ma si sviluppi come società altra attraverso la creazione di molteplici entità antigerarchiche coordinate fra loro. Un raggruppamento di individualità che operino sinergicamente sottraendo funzionalità al Potere. Ward ha quindi colto l’essenza della comunità anarchica. Ma non basta.»

«Non basta?»

«Non basta!»

«Certo che lei non è mai contento!» chiosò il pubblico ministero.

 

NOTE

 

– 3 Philippe Godard, Contro il lavoro, invi.

– 4 Emile Armand, Iniziazione individualistica anarchica, ivi.

– 5 Colin Ward, Anarchia come organizzazione, ivi.

 

Editing a cura di Costanza Ghezzi

Immagine: Alberto Gallerati, Una bombardatina,

39 – RIBELLIONE: LA DISOBBEDIENZA CIVILE

 

 

«E comunque non ha senso fare la rivoluzione. La democrazia ha dato a tutti una casa, un lavoro, strutture sanitarie dove curarsi, soldi da spendere come pare e piace…» rilevò il pubblico ministero.

«In effetti le persone preferiscono stordirsi con ciò che offre piuttosto che guardare in faccia la realtà. Ma ogni tanto qualcuno si sveglia e la sua irruenza è entusiasmante. In questi casi, più che di rivoluzione dobbiamo parlare di ribellione» dissi. «La rivoluzione origina da una necessità collettiva, come può essere reagire alla miseria. L’assalto alla Bastiglia avvenne perché il popolo aveva fame, non per abbattere la monarchia o per eliminare l’aristocrazia. Ma ogni rivoluzionario sarà sempre un reazionario perché impone nuovi idoli. La ribellione, invece, è uno stato d’animo che consiste nella resistenza a un’ingiustizia. Dalla violazione dell’armonia naturale segue una reazione spontanea, almeno inizialmente non premeditata e organizzata, difensiva o reattiva. Per questo il ribelle è sempre pronto ad agire: viola leggi che ritiene inique, scappa dalla famiglia oppressiva, incrocia le braccia davanti al sistema che lo sfrutta e così via fino al suicidio, il più potente e radicale atto di libertà individuale.»

«Aspetti!» Pottutto mi fermò. «Questa non l’ho capita!»

«Non c’è niente da capire».

«Non sarà favorevole al suicidio

«Non credo sia il momento di…»

«Le hanno mai detto che la vita è sacra?»

«Mi perdoni, ma sbaglia aggettivo. La vita non è sacra, è mia. È l’unica cosa di cui sono proprietario per natura. E di come ne dispongo non devo dare conto a nessuno!»

«Dimentica che siamo un esempio per i giovani… per gli altri!».

Sospirai. «Bell’esempio che siete, allora!». Sorrisi. «Nessuno deve imitare nessuno: la personalità si forgia con l’esperienza. L’emulazione non è ispirazione, ma conformismo. E il conformismo è tirannia». Aggiunsi: «L’esaltazione della vita in sé per sé è l’ennesima idea fissa da cui liberarsi per essere padroni di se stessi. Il corpo è uno strumento, mentre la volontà nasce, cresce, si dissolve nell’eterno divenire. Il puro non teme la morte perché non teme la propria natura.»

«E se le dico che la vita è un dono?»

«Un dono di chi? Di Dio? Dei genitori? Dello Stato? Donare significa dare senza niente in cambio. Qui invece tutti pretendono!»

«Eretico!» ragliò Manganello.

«È della Sacra Inquisizione?»

«Sevizia è molto più raffinato!».

Evitai di proseguire su quel crinale e tornai alla ribellione: «Quale reazione etica a un atto o a una condotta ingiusta, essa è il momento in cui il pensiero diventa azione. La ribellione ci porta a non lasciarci più organizzare, ma a organizzarci come vogliamo diceva Stirner. L’iniziato-refrattario si trova improvvisamente solo, fragile, ma è vivo e reattivo. Decidete di non servire più e sarete liberi sanciva Etienne De La Boétie per sottendere come la scelta fosse individuale. E consiste nel decidere di distruggere l’autorità in un antagonismo incessante fra potere e libertà, parafrasando Foucault.»

«Questo Focolle è un altro dei suoi amici?» chiese Manganello.

«È un filosofo.»

«Anche lui? Ma qualcuno che lavori?»

«L’autonomia si conquista con una reazione che assume i connotati della resistenza. Dal latino resistentia: fermare respingendo qualcuno o qualcosa. Essa può essere attiva, cioè di contrasto, o passiva, come opposizione e non collaborazione. Sempre è disobbedienza: rifiuto e reagisco non accettando, non collaborando, non obbedendo al dominio. Disobbedienza che Bernard Shaw definiva la più rara e coraggiosa delle virtù

«Molto didascalico!»

«La forma classica è la disobbedienza civile. Consiste in una protesta, di solito non violenta, in reazione a un atto, fatto, decreto ingiusto. Lo Stato mi dice di pagare le tasse? Io non le pago perché non voglio contribuire al suo malaffare. Lo Stato mi ordina di fare la guerra? Io divento disertore perché uccidere è contro natura. Lo Stato mi impone il consumismo per favorire banche e capitale? Io sviluppo un’economia sostanziale con persone che la pensano come me. E così via. Thoreau sosteneva che essa nasce da una domanda: come deve comportarsi un uomo oggi nei confronti di questo governo? Si riferiva a quello degli Stati Uniti che imponeva i tributi per sostenere le guerre o la schiavitù, ma l’interrogativo vale sempre e per tutto. E rispondeva asserendo che il cittadino non può obbedire quando ciò gli reca disonore: tutti gli uomini riconoscono il diritto alla rivoluzione, cioè il diritto a rifiutare l’obbedienza, e di opporre resistenza a un governo, nel caso in cui la sua tirannia o la sua inefficienza siano gravi e intollerabili. Quindi ogni volta in cui il Potere è ingiusto è giusto non obbedire

«Ma lo Stato non sta certo a guardare!»

«Infatti, se nego l’autorità dello Stato, entro breve esso si prenderà e distruggerà tutti i miei beni tormentando in tal modo me e i miei figli all’infinito, asserisce ancora il filosofo americano. Tuttavia, aggiunge: mi costa meno, in ogni senso, incorrere nella pena precisa per la disobbedienza allo Stato, di quanto mi costerebbe obbedire. In questo caso mi sentirei come se valessi di meno. Ecco perché: desidero semplicemente rifiutare obbedienza allo Stato, ritirarmi e starne completamente alla larga.»

«Perché è emigrato all’estero?».

Sollevai uno sguardo sfatto: «Significa che è più dignitoso disobbedire che essere complice. Ma significa anche che la disobbedienza non si realizza con lo scontro frontale col Potere, ma vivendone alla larga. Agendo come se non esistesse. Ignorandolo.»

«Mi pare che il suo amico trascuri un’evidenza e cioè che lo Stato deve fare lo Stato e i cittadini devono fare i cittadini!»

«Ma i cittadini sono individui. Possono decidere per se stessi senza dover obbedire a leggi che li danneggiano, fatte da uomini che disprezzano, per un’autorità che non riconoscono!»

«Chiacchiere!». Il PM sbottò. «Sa meglio di me che le persone sono bastarde. Qualcuno dovrà pur impedire la loro bastarditudine!»

«Bastarditudine?» farfugliai. «La bastarditudine, come la chiama lei, si fonda sull’ideologia del dominio in cui il più forte domina il più debole per conseguire un interesse. Per questo l’anarchia nega la proprietà e la conseguente accumulazione. Esse sono l’antefatto di ogni male e soltanto un uomo libero dalla materialità può essere se stesso senza bisogno di sopraffare il prossimo e il mondo. Ribadisco: il cambiamento è culturale prima ancora che pratico!»

«Pensavo più ai serial killer!»

«La disubbidienza deve essere etica, mai utilitaristica. Chi non rompe le catene si rende complice dell’ingiustizia1. Non basta quindi ribellarsi all’iniquità, bisogna negare la causa. Se mi oppongo al capitalismo senza rifiutare l’ideologia del profitto i miei sforzi verranno dissolti dall’omologazione collettiva e inevitabilmente tornerò a essere un suo ingranaggio. Allo stesso modo, se violo la norma ma non rifiuto lo Stato, cioè non creo un sistema alternativo a esso, dopo aver trasgredito una volta dovrò farlo ancora e ancora e così all’infinito. È inutile tagliare le teste dell’Idra quando so che si rigenerano! La disobbedienza nelle sue infinite forme deve pertanto essere accompagnata da una vita fuori di esso, come diceva Tolstoj.»

«Dopraho, se arrivasse al punto magari…!»

«Ci sono!» dissi. «L’obiettivo è sviluppare nuove federazioni libere con caratteristiche diverse da quelle degli antichi Stati fondati sulla coercizione, che gradualmente esautorino il Potere. E la comunità anarchica, garanzia di orizzontalità, comunione e solidarietà, è l’unico strumento che consente di astenersi dall’opera del governo2 senza aggredire e combattere, ma reagendo con un’alternativa concreta che eroda risorse, strutture, potenzialità alla sua tirannia. A quel punto esso sarà un castello di carta e basterà un soffio perché si…»

«Ha finito?». Pottutto mi interruppe.

«No!» gli risposi.

 

NOTE

 

– 1 H. D. Thoureau, Disubbidienza civile, ivi.

– 2 Lev Tolstoj, Il rifiuto di obbedire, ivi.

 

Editing a cura di Costanza Ghezzi

Immagine: Edvard Munch, Amore e psiche, 1097

38 – RIBELLIONE: IL CAMBIAMENTO NON È RIVOLUZIONE (segue)

 

«Secondo voi» mi rivolsi ai miei interlocutori. «Meglio un’azione violenta o pacifica

«Violenta!» rispose Manganello. «Almeno ci divertiamo anche noi!»

«Invece è meglio pacifica.»

«Ma come?» esclamò deluso.

«Il cambiamento non si ottiene con qualche traliccio abbattuto o una vetrina imbrattata, né con le manifestazioni di piazza in cui lo scontro con la polizia alimenta la suggestione del faccia a faccia col Potere rafforzando lo stato-centrismo con i continui richiami alla Costituzione, ai diritti e alla cittadinanza. Perché la rivolta sia efficace deve creare un non-governo

«Ma deve essere anche violenta. Sennò che ci stiamo a fare?» insistette il maresciallo.

«Appunto. La violenza genera violenza e il Potere possiede risorse economiche, militari, tecnologiche, propagandistiche sia interne che esterne che nessuna rivoluzione può contrastare. E poi, ve l’ho detto, una volta conseguito con la violenza… Immaginate che noi tre domani occupiamo il Parlamento» improvvisai.

«Mi spiace, domani ho il dentista!» glissò Pottutto.

«Cosa accadrebbe? Pensate che la società si solleverebbe in massa per sostenerci? Credo proprio di no. Perché i media ci dipingerebbero come carnefici. L’uomo medio temerebbe di perdere quel poco che si illude di avere. I poveri si azzufferebbero con altri poveri per il primato della povertà. Alla fine la gente penserebbe che si stava meglio quando si stava peggio e… Se invece la rivoluzione riuscisse nel suo intento, il popolo sarebbe pronto a costituire una nuova società fondata sui principi libertari?»

«Lo chiede a noi?»

«No, a lui!» indicai la Sfinge davanti alla porta. «La risposta è no. L’estasi sovversiva lascerebbe il posto allo spaesamento, alla frustrazione, all’incapacità di realizzare obiettivi concreti. Come dice Goodman: l’energia ricca di passione delle persone oppresse ha tuttavia, come risultato, il fatto che, se rompono le loro catene, poi non sanno più cosa fare. Non essendo state autonome, non sanno cosa sia esserlo, e prima che lo imparino, hanno nuovi amministratori che non hanno alcuna fretta di mettersi da parte1. Come ho detto prima, è inutile realizzare il gran giorno se poi subentrano nuove forme di autorità.»

«Vigileremo perché non accada!» proferì entusiasta Manganello.

«Maresciallo, non si identifichi», Pottutto lo riprese. «Non sta parlando di un colpo di stato militare!»

«Le rivoluzioni violente sono inevitabilmente destinate al fallimento. Il Potere non può rinunciare alla pretesa di far valere come sacri i suoi ordinamenti e le sue leggi per i quali l’individuo è qualcosa di non sacro2. Per questo, prese le contromisure, compatta la fragile massa con il bisogno d’ordine e sfrutta l’emergenza come pretesto per nuove disposizioni liberticide. Inoltre il cambiamento ottenuto con la violenza possiede i semi dell’autoritarismo: Se la violenza può trovare giustificazione quando è l’unico mezzo per resistere o reagire alla ben maggiore violenza del potere e dello sfruttamento, essa però contiene i germi di un nuovo dominio ed è dunque essenziale ricorrervi solo se strettamente necessario3, diceva Tolstoj. Quante rivoluzioni si sono trasformate in macchine repressive e sanguinarie?»

«Vorrebbe convincerci che l’anarchia è pacifica?»

«L’anarchia è non violenta per definizione. La violenza è sempre prevalenza fisica o psicologica e noi anarchici neghiamo categoricamente che qualcuno prevalga sull’altro. Dice Malatesta: anarchia vuol dire non violenza, non dominio dell’uomo sull’uomo, non imposizione per forza della volontà di uno o di più su quella degli altri. È solo mediante l’armonizzazione degli interessi, mediante la cooperazione volontaria, con l’amore, il rispetto, la reciproca tolleranza, è solo colla persuasione, l’esempio, il contagio e il vantaggio mutuo della benevolenza che può e deve trionfare l’anarchia, cioè una società di fratelli liberamente solidali, che assicuri a tutti la massima libertà, il massimo sviluppo, il massimo benessere possibili

«Non mi cada nel melenso!»

«L’uso della violenza ha senso solo in due casi: il primo come reazione a un atto ingiusto: per conservare dignità di uomo e non essere ridotto alla più abbietta schiavitù, dice ancora il filosofo, malgrado tutto il suo amore per la pace e il buon accordo, sarà ben obbligato a resistere alla forza con mezzi adeguati4. Il secondo quando l’obiettivo è un bene, mai una persona, che rappresenta il dominio. Ad esempio hackerare dei sistemi di protezione, abbattere le infrastrutture, occupare o distruggere laboratori in cui si producono sieri non sperimentati. Tutte azioni di sicuro impatto, ma eliminano il mezzo, non la causa. Se non cambia il contesto, l’effetto finisce lì.»

«Mi perdoni, ma senza la rivoluzione che anarchici siete?»

«L’ordine costituito non si cancella utilizzando i suoi metodi e modificando i suoi propositi. In questo modo si passerebbe da un dominio all’altro. L’Anarchia sviluppa realtà che non hanno niente a che vedere col sistema da cui fugge. Ẻ antagonista e alternativa, non collaborativa. La storia è piena di movimenti che volevano sovvertire l’autorità sfruttando le sue strutture. A stringere troppe mani, però, prima o poi s’insozzano: il potere corrompe sempre! Vi invito a leggere le illuminanti parole di Bookchin nell’articolo del 1.1.24».

Attesi che il pubblico ministero lo trovasse.

«All’inizio della pagina… proprio lì!». Indicai il punto preciso. «Parla dell’ambientalismo politico della sinistra, ma il concetto è universale: ritengono che le cose possano essere cambiate solo attraverso l’esercizio del potere, vale a dire attraverso quel corpo professionale e corrotto di legislatori, burocrati e militari che chiamiamo Stato. Fare appello a questo potere inevitabilmente funge da legittimazione per lo Stato, e lo rafforza, mentre parallelamente espropria i popoli del loro potere. Salto qualche riga: Ogni aumento del potere statale avviene a spese del potere popolare perché legittimare il potere statale significa delegittimare il potere popolare, e viceversa. Vado ancora avanti: I movimenti ecologisti che si volgono al parlamentarismo non solo legittimano lo Stato a spese del popolo, ma sono anche obbligati a funzionare all’interno della logica statuale e finiscono per diventare sangue del suo stesso sangue. Devono cioè stare al gioco. Il che mette in moto anche un inarrestabile processo degenerativo che porta alla progressiva rinuncia degli ideali. Per cui: agire nell’ambito dello Stato significa scegliere fra mali minori o maggiori e non agire eticamente in funzione di ciò che è giusto o ingiusto5».

Appoggiai il foglio sul tavolo.

«Pensate alla controcultura e ai movimenti sessantottini, che inizialmente si forgiavano di illuminanti tematiche di ispirazione anarchica. Quando poi vennero raccolte dal sindacalismo e trasformate nei consigli di fabbrica e nello Statuto dei Lavoratori, la ribellione si trasformò in un palese tentativo di imbalsamare ciò che le lotte avevano conquistato6. L’anarchia non dialoga col sistema. Non deve!».

Mi fermai perché Manganello faceva delle strane smorfie con la bocca. Gli chiesi cosa avesse, mi invitò ad attendere con un eloquente gesto della mano.

Starnutì facendo volare i fogli sul tavolo.

«Ora li raccoglie!» ruggì Pottutto infastidito.

Il maresciallo ci provò, ma il pancione gli impediva di piegarsi. Lo feci io e non mi ringraziò neanche.

NOTE

 

– 1 Paul Goodman, Anarchia come autonomia, ivi.

– 2 Stirner, L’unico e la sua proprietà, ivi.

– 3 Tolstoj, Il rifiuto di obbedire, ivi.

– 4 Errico Malatesta citato in Giuseppe Aiello, Taoismo e anarchia, 2017.

– 5 Murray Bookchin, Per una società ecologica, ivi.

– 6 Umanità Nova, Statuto dei lavoratori, 24.1.76.

 

Immagine: Domenico Gnoli, Apple, 1968

Editing a cura di Costanza Ghezzi

37- RIBELLIONE: AZIONE DIRETTA

«A proposito di criminali…». Il pubblico ministero riprese a parlare. «Ho qui un fascicolo…». Lo estrasse dalla borsetta. «Pieno di attentati, furti, rapine, reati cybernetici e chi più ne ha più ne metta». Esibì la foto di un traliccio abbattuto. «Guardi questa?». Quella di una camionata di letame su un auto blu. «E questa?». Due mastini in divisa legati nella posizione del sessantanove. «Che gliene pare?». La mostrò a Manganello, che la respinse disgustato.

«Mi state accusando?»

«Non faccia il furbo con noi. C’è la sua firma!». Indicò la A di anarchia disegnata sul sedere di quello che stava sopra.

«Già, c’è la sua firma!» echeggiò il maresciallo.

«C’è la mia firma?» replicai. «Ma io mica mi chiamo A!» rilevai placido.

Le arterie del pubblico ministero esplosero: «È stato lei o non è stato lei?»

«Per caso fa riferimento a quella volta in cui due di loro…», indicai la divisa del maresciallo, «hanno inseguito dei ragazzini e sono entrati nella casa abbandonata a Seano dove hanno trovato un laboratorio e poi è successo che… Non ne so niente!». La avvicinai: «Comunque sono venuti bene!»

«Chi?»

«Gli agenti. Guardi che facce buffe!». E a Manganello: «Non le piacciono?»

«È stato o non è stato lei?»

«No!»

«Sta mentendo!»

«Sì!»

«Allora è stato lei!»

«No!»

«Ma ha appena detto di sì!»

«Era interrogativo: sì?» ripetei.

«Questo è terrorismo!». Pottutto avvampò. «Ci dica chi è stato o…!»

«Si chiama azione diretta» lo corressi. «Per il terrorismo dovete chiedere ai servizi segreti e ai fascisti. Sono i numeri uno!»

«Perché, dar fuoco a una scuola è da…?»

«Era vuota.»

«Stavano entrando gli agenti!»

«Appunto!»

«E frantumare le vetrine dei negozi?». Il PM mostrò le foto del centro commerciale.

«Belle. Sembrano le esplorazioni artistiche a colpi di martello di Simon Berger!1»

«Rapinare le banche?»

«Non sarà un peccato rubare in casa del ladro!». Mi protesi verso di loro e sussurrai: «Non è mia, ma ha sempre il suo perché!»

«Siete dei criminali!»

«Su questo ha ragione» dissi. «E non potrebbe essere altrimenti. Come diceva Kropotkin: tutto è buono per noi quello che non è legalità, perché il Potere si fa le leggi per fare quello che vuole e chi non vuole cosa dovrebbe fare? Gli anarchici rifiutano l’ipocrisia legalista e profanano i suoi idoli con l’azione diretta…»

«Perché c’è anche un’azione curva?»

«Essa è quel complesso di attività realizzate in antagonismo e senza bisogno dell’autorità. Sono i così detti semi sotto la neve che possono crescere e germogliare, come Ward definiva i tentativi antiautoritarii.»

«A me sembra solo violenza!»

«Mentre lo Stato che pretende il monopolio del potere e lo ingiunge con la forza, invece…?» ironizzai. «L’anarchia è stata violenta nel periodo che va dalla fine della Prima Internazionale all’inizio della Prima Guerra Mondiale. Si chiama propaganda del fatto. Numerosi furono gli attentati contro sovrani o importanti personalità politiche come il re di Spagna Alfonso II, il primo ministro francese, l’imperatore tedesco Guglielmo I, lo zar Alessandro II, il re d’Italia Umberto I e così via. Ma era un’epoca in cui si credeva che il fatto insurrezionale potesse penetrare nei più profondi strati sociali e attrarre le forze vive dell’umanità nella lotta che l’Internazionale sostiene, come affermavano il giovane Errico Malatesta e Carlo Cafiero al Congresso di Berna dell’Internazionale Autorititaria2. Non deve stupire: era l’Ottocento e il romanticismo esplodeva esaltando ogni passione sfrenata.»

«Uccidere un re le sembra una cosa passionale?»

«Le garantisco che ci mettevano tanto amore!». Sorrisi. «Sono dovuti passare anni di persecuzioni per capire che il popolo è una categoria sopravvalutata. Lo stesso Malatesta, infatti, ripiegò dalla rivoluzione in modo permanente al più imparziale gradualismo rivoluzionario da attuare pezzetto dopo pezzetto.»

«A proposito di pezzetto, Manganello non è che ha un altro snack?». Il pubblico ministero mi interruppe. «No?». Guardò me. Guardò lui. Guardò me e ancora lui. «Giuri!».

Ripresi: «Oggi è tutto diverso. Ci sono state le guerre mondiali, il capitalismo si è tecnicizzato, l’ipocrisia omologante si è impadronita del buon senso annichilendo la ragione. L’obbedienza volontaria è ormai virtù. Ẻ ingenuo sperare di risvegliare la massa dalla narrazione che identifica l’anarchico con il terrorista…»

«Mi sa che ora spara la stronzata!» sussurrò Pottutto a Maganello.

«Dottore!» esclamai.

«Mi perdoni!» si scusò. «Quando mi cala la glicemia…!». E al maresciallo: «Non ha neanche una caramella?»

«L’anarchico non se la prende più con i re, i primi ministri, i politici. Sa che sono uno strumento. Preferisce costruire realtà autonome e clandestine. E se proprio gli scappa di tornare alle origini, mira le infrastrutture piuttosto che i governanti. Come dice il Comitato Invisibile, il Potere non è più rappresentativo: nessuno lo vede perché tutti ce l’hanno in ogni momento sotto gli occhi: sotto forma di traliccio della tensione, di un’autostrada, di una rotatoria, di un supermercato o di un programma informativo, in quanto è l’organizzazione stessa di questo mondo, questo mondo modellato che ha l’apparenza neutra di una struttura abitativa o della pagina bianca di Google3. Esso opera attraverso meccanismi che non sono più centralizzati, ma frammentati in ogni pratica sociale. Ed essendo più difficile da individuare, da scalzare, da sfidare, bisogna mirare i suoi centri nevralgici. Ma non distruggendoli, cosa impossibile perché sono infiniti, bensì erodendone lentamente la funzionalità. Non si tratta quindi di tracciare un limite in continuazione come sosteneva Goodman, ma di sottrarre controllo mediante azioni mirate, incisive e disgreganti che si organizzino dal basso in alto per mezzo di associazioni indipendenti e assolutamente libere4, di comunità impalpabili, clandestine, intangibili e inconoscibili, che operino nell’oscurità, nell’underground appunto, dove esso non potrà mai accedere.»

«Finito?»

«Direi di no!»

«Allora aspetti che sta glicemia…». Pottutto tirò fuori dalla tasca della giacca una coscia di pollo arrosto e la azzannò. Poi mi sollecitò a riprendere.

«La rivolta può essere individuale o collettiva. Tuttavia non credo nel popolo e tantomeno nella lotta di classe. Il primo è un concetto astratto, la seconda è una fregatura. La rivoluzione presuppone infatti un mutamento, un passaggio repentino, per lo più violento, da qui a là. Oggi siamo una repubblica, domani siamo anarchia. E poi cosa accade se le persone non hanno consapevolezza? Perché la libertà non è una festa, non è un gioco, non è una manifestazione di piazza, come ammoniva Bertolo. Se dietro l’impazienza generosa c’è solo il vuoto culturale e organizzativo, se la fiammata sovversiva che l’esca ha acceso si alimenta solo di confuso malcontento, allora il risultato non è solo negativo, è disastroso, perché il fuoco si spegne con la stessa rapidità e facilità con cui si è acceso5. Quando le masse provano a sovvertire l’ordine costituito, prevale sempre la controrivoluzione. Pensate ai sogni infranti della primavera araba del 2011, oppure Occupy Wall Street sempre nel 2011, o alla rivoluzione greca del 2012, Istanbul l’anno dopo, la Catalogna del 2019, i Gilet gialli nello stesso anno.»

«I tifosi che hanno costretto il governo a riaprire gli stadi durante il covid però…?» eccepì il magistrato.

«Quelle sono le vittorie che contano!» replicai. «E poi quale classe dovrebbe guidare la rivoluzione se gli operai scimmiottano il padrone?»

«Gli intellettuali non hanno niente da fare. Potrebbero…?»

«Sono occupati a celebrare il Potere. Non mi fraintenda: non ho detto che esso li corrompe. Non è che va dal tale scrittore o editore o attore e così via e gli dice: “Ti do i soldi se racconti ciò che voglio!”. Si venisse a sapere, che figura ci farebbe? Semplicemente consente di pubblicare il libro, di distribuire il giornale, di recitare e così via!»

«Sulla scienza scommetto però che…?»

«Già, la scienza!». Glissai con espressione amareggiata. «Sa che una volta essa era sinonimo di progresso? Una volta. Prima che diventasse la Zecca dei Grandi affari

«Suvvia, non sia così pessimista!»

«Non lo sono. Infatti confido negli individui. Individui liberi che si uniscono ad altri individui liberi e tutti insieme creano comunità autogestite che operano in clandestinità lacerando il dominio dal suo interno. Non servono eroi, ma la fratellanza. Soltanto la convergenza delle volontà libere può eludere il sistema replicando modelli di comportamento che lo disgreghino. Siamo pirati. Siamo carbonari…».

Manganello sobbalzò sulla sedia: «Anch’io la voglio!»

«Cosa?»

«La carbonara!». Avvinazzò. «Non parlavate di quella?»

NOTE

 

– 1 Simon Berger, artista svizzero nato nel 1976 che crea opere d’arte sul vetro a colpi di martello.

– 2 Congresso di Berna, 1876.

– 3 Comitato invisibile, ivi.

– 4 Paul Goodman, Individuo e comunità, 1995.

– 5 Amedeo Bertolo, Anarchici e orgogliosi di esserlo, ivi.

 

Editing a cura di Costanza Ghezzi

Immagine: Antonio Ligabue, Leopardo, 1955