28- STATO: DEMOCRAZIA DIRETTA CONSENSUALE – SEGUE

 

Feci il punto della situazione: «Ho sottolineato che lo Stato è illegittimo in quanto espropria la sovranità individuale. Ho spiegato perché la democrazia rappresentativa e la regola della maggioranza sono panzane. Aggiungo che l’anarchia non è acrazia poiché una società spogliata da ogni forma gerarchica si sviluppa mediante la partecipazione condivisa al bene comune. Riprenderò l’argomento quando parlerò della comunità. Qui voglio ribadire che l’unico sistema che garantisca il faccia a faccia, l’orizzontalità e la condivisione è la democrazia diretta consensuale. Riunirsi insieme, partecipare, discutere, decidere ricorrendo a organismi decentralizzati come le assemblee, i consigli, i comuni, chiamateli come volete, in cui le determinazioni siano prese all’unanimità.»

«Mi faccia capire: sta parlando di quando vi ritrovate tutti insieme?»

«Esatto!»

«E discutete…?»

«Preciso!»

«E quando discutete indossate una tunica bianca con la medaglia e un cappuccio? Ma non sarete anche voi…?»

«Non siamo massoni!»

«Vabbè, lasciamo perdere i dettagli. Una domanda: ma se tutti decidete, chi decide?»

«Tutti, ovviamente!»

«Suvvia, non scherzi!»

«Nella democrazia diretta unanime tutti partecipano alla deliberazione, tutti votano e non c’è decisione finché l’accordo non è unanime

«Figuriamoci!»

«Anche quando essa richiede maggiori conoscenze tecniche, il parere e il voto dello specialista valgono quanto quelli del manovale. Solo così si può escludere che la maggioranza prevalga sulla minoranza o che si formino pericolose posizioni di dominio all’interno delle assemblee

«Cosa di fatto impossibile!»

«Invece è possibilissimo in un contesto in cui chiunque è consapevole che l’interesse personale si realizza quando si compie quello comune. Vi faccio un esempio: supponiamo che gli abitanti di un quartiere vogliano trasformare una piazza in un bel giardino. Convocano l’assemblea a cui partecipano tutti gli interessati. In fase di discussione parlano i tecnici, i cittadini, ognuno dice la sua. Quando si vota tutti tranne uno sono d’accordo nel realizzare l’opera. Che fare? Tenga presente che se non viene raggiunta l’unanimità la decisione non passa. Tre le soluzioni: la prima è convincere l’oppositore che vivere a contatto con la natura è una scelta estetica, salutare, spirituale che può solo migliorare la sua esistenza. In subordine la comunità può aiutarlo a trovare una dimora alternativa a quella in cui vive…»

«Lo sfrattate?» chiese Manganello sospettoso.

«Nessuno sfratta nessuno!»

«Allora gli espropriate la casa come fanno i comunisti?» intervenne Manganello.

«Non si espropria se non c’è niente da espropriare!»

Mi fissarono come Monna Lisa e non riuscii a fare a meno di sorridere: «Avete ragione!» esitai. «Mi sono dimenticato di informarvi che nella comunità anarchica non c’è proprietà!». E aggiunsi quasi imbarazzato: «E questo vale anche per la casa!»

Pottutto ebbe un mancamento.

Manganello rimase a bocca aperta.

Ebbi come la sensazione che anche la signorina Servile si fosse mossa.

La Sfinge, Sfinge era, Sfinge rimase.

«Poi c’è una terza soluzione» proseguii. «Per conciliare gli interessi della collettività con quelli dell’individuo occorre creare un tipo di comunità flessibile1 in cui sia consentito il diritto di astensione. Non viene quasi mai praticata, ma è una possibilità. Colui che non concorda, infatti, può dichiarare di astenersi dal deliberare. La comunità accetta la sua decisione e la risoluzione non sarà vincolante nei suoi confronti. Peraltro, posto che può sempre cambiare opinione, il suo dissenso non avrà ripercussioni morali o sociali e la sua complicità nell’attività comunitaria non subirà alterazioni» chiosai. «In questo modo, cioè favorendo la continua adesione individuale e applicando le decisioni unanimi, ciascuno è – non viene illuso che sia – attore della vita politica. La partecipazione è attuazione della libertà e dell’eguaglianza. Libertà ed eguaglianza che esistono se l’individuo è autonomo, cioè sceglie ed è responsabile della scelta verso se stesso e gli altri.»

«Anche le elezioni però sono una forma di partecipazione!»

«Il proprio dovere si realizza impegnandosi personalmente. Si compie quotidianamente attraverso la convivenza, la comunità, la solidarietà, la convivialità. Pensate forse che i governanti vi avrebbero lasciato le elezioni se potessero essere utili a fare una rivoluzione?2, diceva Louise Michell. Il cambiamento non si ottiene delegando un partito anziché un altro, ma curando da soli i propri interessi come sosteneva Gustav Landauer, che aggiungeva: il popolo si illude ancora, malgrado secoli di esperienza, che tutto andrebbe meglio se al governo ci fossero altre persone o altri partiti. Invece no, andrebbe peggio, in quanto il popolo si disabitua ulteriormente a intervenire in prima persona e non sa neppure che forma dovrebbero assumere le istituzioni dell’autodeterminazione3

«Mi scoppia la testa con tutte queste citazioni!» grugnì Pottutto.

«Quando sono troppe, sono troppe!» echeggiò Manganello.

«Capisco!» dissi. «Allora ve ne faccio un’altra: la partecipazione diretta è un confronto continuo, un faccia a faccia entusiasmante in cui ciascuno esprime il proprio interesse nel solco del bene comune. È il trionfo della bellezza, di una società di individui liberi di godere della bellezza dell’altro liberamente espressa in una società il cui obbiettivo è il mantenimento di quella condizione essenziale, diceva Piger4. Ma perché ciò avvenga occorre eliminare lo Stato

«Si rende conto che sta vaneggiando?»

«Perché pensa che senza non sarebbero garantiti i servizi sanitari o l’istruzione o che nessuno riparerebbe le strade?»

«Per la verità pensavo a me. Che ne sarà dei dipendenti pubblici?»

«E delle forze dell’ordine?». Anche Manganello sembrò preoccupato.

«Non so come sarà la società anarchica e che fine faranno i numerosi vampiri attaccati alle istituzioni. Di sicuro non esisterà una soluzione unica e le scelte dipenderanno da un insieme di variabili spazio-temporali, sociali, ambientali che dovranno essere analizzate al momento opportuno. Posso dire però che se domattina ci svegliassimo con lo Stato che si è dissolto, la varietà di anarchismi offrirebbe una pluralità di opportunità. Per cui, state sicuri, una sistemazione verrebbe trovata anche a voi!»

«Meno male!». Pottutto e Manganello si alzarono per sancire l’accordo con una stretta di mano.

«Sarà divertente scoprire quale!» aggiunsi sarcastico mentre la sfilavo. «Detto questo» ripresi, «per conseguire un reale cambiamento è imprescindibile l’abbattimento dello Stato. Perché esso è il principale strumento, benché non l’unico, con cui il Potere esercita il suo dominio sull’individuo. Sapete cosa diceva Bakunin a proposito?»

«Non è che me ne freghi tutto sto…!»

«Vuole una confessione completa o no?». Ottenuta la loro attenzione: «Bakunin diceva che Nessuno Stato, per quanto democratiche siano le sue forme, sarà mai in grado di dare al popolo quello che vuole… perché ogni Stato, sia pure il più repubblicano e il più democratico, anche lo Stato pseudo popolare creato dal signor Marx, non rappresenta in sostanza nient’altro che il governo della massa dall’alto in basso da parte di una minoranza intellettuale… per le classi proprietarie e di governo è quindi assolutamente impossibile soddisfare le rivendicazioni del popolo, per cui resta solo un mezzo, la violenza di Stato, in una parola, lo Stato perché lo Stato significa precisamente violenza. La dominazione mediante la violenza, quanto possibile mascherata, se assolutamente indispensabile sfrontata e pura5».

«A proposito di violenza…» Manganello a Pottutto. «Una telefonatina al nostro Sevizia la farei!»

«Non dica sciocchezze!», gli rispose il PM. «Se non ha fatto un nome fino ad adesso, si figuri quando non sarà in grado di parlare!».

NOTE

 

– 1 Z. Bauman, Voglia di comunità, Laterza, 2001.

– 2 Louise Michel, Presa di possesso, ivi.

– 3 Gustav Landauer, La comunità anarchica, ivi.

– 4 Gaston Piger, Signorina anarchia, ivi.

– 5 Michael Bakunin, Stato e anarchia, Feltrinelli, 1873.

 

Editing a Cura di Costanza Ghezzi

Disegno: Martin Zanollo, Intuition, 2023

 

 

27 STATO: CRITICA ALLA DELEGA ELETTORALE – SEGUE

 

«La democrazia non è la sola cosa che non ci piace dell’ordine costituito. Prima però di rimpinguare la lista, vorrei fossero chiari i motivi.»

«Li serbi per l’interrogatorio di garanzia!»

«Ma come?» esclamai. «Preferisce che sia un altro giudice a prendersi i meriti della confessione?». Mi rivolsi anche a Manganello: «Immagini la soddisfazione del suo nome scritto sul giornale!»

Si guardarono senza parlare.

«Va bene!» disse Pottutto. «Ma sia breve. E poi voglio dei nomi!»

«Quali nomi?»

Batté il pugno sul tavolo: «Tutti. A partire da quando andava all’asilo!».

Non avevo ricordi di quella fase embrionale, così gli raccontai di come sabotavo il registro di classe. Poi ripresi a parlare: «Ho criticato il concetto di sovranità popolare e ho affermato che le elezioni sono una farsa perché rappresentano l’abdicazione alla sovranità individuale.»

«Brevemente!»

«Brevemente!» ripetei. «Delegare significa essere servi di qualcuno, per pigrizia, interesse, abitudine, comodità, paura, ecc1, quindi rinchiusi in quella gabbia di bisogni gestita da esperti, nello specifico quei mestieranti della manipolazione che sono i politici, in cui è impossibile l’esercizio dell’autonomia. Per questo gli anarchici ne rifiutano ogni forma, compresa la delega politica. Come dice Enrico Manicardi, forse il più importante teorizzatore italiano dell’anti-civilizzazione, o gli uomini non sono considerati capaci di autodeterminarsi, allora non si spiega come uno solo possa farlo per gli altri, oppure si ammette che lo sono, ma allora non c’è bisogno che qualcuno li comandi.»

«Tutto qui?»

«Mi ha chiesto brevemente!»

«Scommetto che non è finita!»

«Lei è una volpe!» lo adulai. «Un’altra obiezione, infatti, prende spunto dalle argomentazioni di Lisander Spooner. Egli sostiene l’immoralità che la delega politica escluda la responsabilità del governante per le sue azioni. In effetti se la prassi e il Codice civile prevedono che il mandatario sia responsabile verso il mandante, perché la Costituzione sancisce che ogni membro del Parlamento esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato2

«Perché?» chiese Manganello a Pottutto.

«Perché?», Pottutto chiese a me.

«Perché ha ragione Spooner quando afferma che il governo esercita secondo diritto e ragione, un dominio puramente personale, arbitrario, irresponsabile e usurpato dai legislatori stessi, e non un potere delegato loro da qualcuno3. Basti pensare che nel diritto comune il mandato generico si applica solo ai minori e gli interdetti per ribadire che la rappresentanza è il congegno mediante il quale il popolo sovrano viene con il proprio consenso interdetto e sottoposto alla tutela delle classi privilegiate4».

«Solita esagerazione!»

«Che non sia un’esagerazione lo conferma Bakunin quando sostiene che il principio di autorità dello Stato si fonda sull’idea eminentemente teologica, metafisica e politica secondo cui le masse, sempre incapaci di governarsi da sole, devono sottomettersi al benefico giogo di una saggezza e di una giustizia loro imposte. Per cui se per il Potere il popolo è una bestia5, il governo può costringerlo all’obbedienza con ogni mezzo repressivo che si autolegittima a usare. Ne consegue che, e torno a Bakunin, persino nell’imporre il bene lo Stato è nocivo e corruttore proprio perché opera un’imposizione!6».

Afferrai il bicchiere di plastica. Era vuoto. Finsi di bere per non dare soddisfazione ai mei interlocutori.

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«Altra favoletta è che in democrazia tutti possano partecipare all’attività politica. Niente di più falso!» dissi. «Intanto per candidarsi, fare campagna elettorale, svolgere attività serve denaro. Molto denaro. Talmente tanto che il parlamento straripa di ricchi affaristi che non hanno la minima idea di cosa sia la vita reale. In secondo luogo, per partecipare all’attività politica occorre avere conoscenza. Una conoscenza culturale, delle tradizioni, della collettività, delle relazioni, della pratica che persino nelle società policefale conferisce competenze sull’uso del potere nei processi decisionali partecipativi7. Una conoscenza che manca alla massa di elettori costretta a vivere in una dimensione marginalizzata, dominata da dinamiche tecnologiche padroneggiate solo da pochi eletti. Ciò comporta che le stesse scelte politiche, economiche, sociali vengono affidate a uomini di scienza, con l’effetto di creare una dittatura di saggi onnipotenti, ma in realtà incoscienti, su cittadini incapaci di misurare la portata della posta in gioco8. Non siete d’accordo?»

«Su cosa?». Manganello sollevò mollemente il testone.

«Almeno faccia finta di ascoltarmi!» lo ripresi.

«Ma la sto ascoltando!»

«Allora si sforzi di capire!»

«Si sforzi un pochino, maresciallo. Non mi faccia fare queste figure!», lo rimproverò anche Pottutto.

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«Altro paradigma della democrazia rappresentativa è il principio della maggioranza con cui si stabilisce che la decisione prevalente è quella che raccoglie più consensi. Fondata sull’assunto rousseauiano che la sua decisione realizza sempre la volontà generale9, di cui però non dà dimostrazione, essa porta all’inevitabile schiavitù volontaria. Di fatto la maggioranza è il più subdolo mezzo per annientare le divergenze. Inconcepibile per chi, come noi anarchici, fa del pluralismo un principio unificatore».

«E quindi?»

«Quindi vi invito ancora a leggere Spencer. Trovate le sue parole nell’articolo del 1.10.23. Asserisce il filosofo: forse si dirà che questo consenso non è specifico ma generale e che è inteso che il cittadino abbia dato il suo assenso a ogni cosa che il suo rappresentante possa fare quando egli ha votato per lui. Ma supponiamo che egli non abbia votato per lui e, al contrario, abbia fatto tutto ciò che era in suo potere per eleggere qualcuno che sostiene idee opposte. Cosa diciamo allora? La risposta, probabilmente, sarebbe che, prendendo parte alle elezioni, egli ha tacitamente consentito ad attenersi alla decisione della maggioranza. E come la mettiamo con chi non ha votato affatto? Ebbene, in questo caso, non può giustamente lamentarsi, visto che non ha protestato contro la sua imposizione. In questo modo, abbastanza curiosamente, sembra che egli abbia dato il suo consenso in qualunque modo abbia agito: sia che abbia detto sì, sia che abbia detto no, sia che sia rimasto neutrale! Una dottrina piuttosto imbarazzante questa10». Pausa. «E così si ritorna a Stirner, per cui il principio della maggioranza e delle elezioni in generale non è altro che l’ennesimo strumento con cui il Potere concede diritti per creare schiavitù».

«Vorrebbe decidere con la monetina?» disse sarcastico Pottutto.

«Avete presente l’esempio della scatola di fagioli?» chiesi.

«A quest’ora ci sta più uno snack al cioccolato!»

«Immaginate che il vostro commerciante preferito un giorno smetta di vendere la marca di fagioli che vi piace tanto perché, per risparmiare, decide di trattare esclusivamente quella che va per la maggiore. A quel punto o cambiate alimentari, oppure dovete adattarvi. In ogni caso subite la sua volontà11. Cosa spiega questo esempio?»

«Io so solo che i fagioli mi fanno scorr…!»

«Manganello!». Pottutto lo interruppe prima che finisse la volgarità.

«Dimostra che la maggioranza è sempre autoritaria in quanto chi è in minoranza deve obbedire alla sua volontà anche se ciò va contro i suoi interessi» rilevai. «Esiste unicamente un sistema che mette tutti d’accordo: la democrazia diretta, che consente la partecipazione personale alle decisioni, e che sia unanime, cioè condivisa.»

«Ma figurati!»

«Occorre cambiare la mentalità. Concepire la società non come un ostacolo ma come una sintesi delle singole individualità. Liberi accordi stabiliti tra gruppi liberamente costituiti per soddisfare l’infinita varietà di bisogni e di aspirazioni degli uomini civili, diceva Kropotkin12

«Embè, se lo diceva Kropotkin!»

 

NOTE

 

– 1 Francesco Codello, Né obbedire né comandare, lessico libertario, ivi.

– 2 Art 67 della Costituzione Italiana.

– 3 Lisander Spooner, Contro il potere legislativo, in La società senza Stato, a cura di Nicola Ianmnello, 2004.

– 4 Max Sartin, Il sistema rappresentativo e l’ideale anarchico, in Perché gli anarchici non votano, Ortica Editore, 2017.

– 5 D. Graeber, Dialoghi sull’anarchia, 2022.

– 6 M. Bakunin, Federalismo socialismo antiteologismo,1868.

– 7 Herman Amborn, Il diritto anarchico dei popoli senza stato, Eleuthera, 2021.

– 8 Philippe Godard, Contro il lavoro, 2011.

– 9 J. J. Rouseau, Il contratto sociale, 1762.

– 10 Herbert Spencer, Il diritto di ignorare lo Stato, ivi.

– 11 Gian Piero de Bellis, Panarchia, D-Editore, 2017.

– 12 Estratto della definizione di Anarchismo di P. Kropotkin nell’edizione del 1910 dell’Encyclopedia Britannica.

 

Editing a cura di Costanza Ghezzi

 

 

26 – STATO – LA FARSA DELL’AGIRE IN NOME DEL POPOLO SOVRANO

 

«Probabilmente ha ragione: non fossimo in democrazia il boia avrebbe già raccatto la mia testa. L’ipocrisia si manifesta sempre con un’apparente moralità! Tuttavia, ciò non cambia l’evidenza che lo Stato sia dispotico perché si impone attraverso la sottomissione e costringe all’obbedienza con la coartazione. Né può valere a suo favore, cioè a garanzia della democraticità del sistema, la presenza delle elezioni.»

«Vuole negare anche quelle?»

«Che il sistema sia elettorale proporzionale, maggioritario, uninominale, plurinominale, a turno doppio, unico, o con pescaggio dei numeri tipo tombola, le elezioni sono una farsa. L’elettore non decide niente perché i candidati sono imposti dai partiti. Una volta eletti, essi dispongono di un mandato in bianco in virtù del quale possono fare quello che vogliono. Una libertà assoluta e incontrollata, dimostrata dalle infinite volte in cui ne abusano o violano impunemente il programma elettorale. Il loro obiettivo non è il bene del cittadino, a cui solo in prossimità delle elezioni fingono di interessarsi, ma il proprio, cioè conservare più a lungo possibile i privilegi, e quello delle caste che devono proteggere, cioè delle forze economico-finanziarie che ne legittimano la sopravvivenza.»

«Che qualunquismo!»

«Qualunquismo e complottismo sono termini utilizzati da chi non sa come replicare alle critiche!» rilevai.

«Ma certo che so replicare!»

«Prego!».

Pottutto manipolò così violentemente la pallina che gli schizzò via.

 «Come si permette. Mica sono io l’interrogato!» sbottò.

Proseguii: «Sulle elezioni torno a breve. Adesso mi interessa parlare dell’altra illusione su cui si fonda la democrazia: che il potere sia esercitato in nome del popolo. In realtà popolo è una parola retorica dal contenuto inconsistente. Chi è il popolo? Dove sta il popolo? Cosa fa il popolo? Il popolo è quello che acclamava Mussolini affacciato al balcone di Piazza Venezia o il corteo bersagliato da lacrimogeni e caricato in via Tolemaide? Il popolo è quello che accoglie gli immigrati o quello inneggia sui social all’inabissamento delle carrette? Il popolo è quello che tace e acconsente o che si ribella? Il popolo è quello manipolato dai media o la massa che dubita? Il popolo non esiste! È un concetto manipolatorio che uccide l’individuo, l’unico vero titolare di sovranità in quanto dotato di pensiero e azione.»

«Il popolo siamo noi!» cinguettò Pottutto roteando il dito.

«Noi?» chiesi.

«Noi, noi!» indicò anche me.

«Adesso è lei che si prende troppe confidenze!» replicai. «Il termine popolo unisce i sempliciotti nell’identità del branco che obbedisce al maschio alfa. È una regola vecchia come il creato di cui il potere ha sempre fatto buon uso, qualunque fosse la forma di governo. Democrazia e tirannia rappresentano la stessa autorità con la differenza che quest’ultima opera in maniera esplicita, senza bisogno di nascondere la violenza e inorgogliendosi del suo abuso, la prima è più infida in quanto sfrutta l’illusione del benessere e la veemenza della manipolazione e del conformismo, riservando la prepotenza bruta alle sole situazioni emergenziali. Per avere un’idea di come subdolamente ottiene l’adesione, basta leggere l’arguta opera di Etienne de La Boétie… Lo facciamo insieme?»

«Adesso?»

«No, fra un paio d’anni!» ironizzai. «Non sono dunque gli squadroni di cavalieri, non sono le schiere di fanti, non sono le armi a difendere il tiranno. A prima vista non ci si crede, ma è davvero così: sono sempre quattro o cinque che mantengono il tiranno, quattro o cinque che gli tengono l’intero paese in servitù… perché si erano fatti avanti da sé, o perché era stato lui a chiamarli, per farne i complici delle sue crudeltà, i compagni dei suoi piaceri, i ruffiani delle sue voluttà, i soci nello spartirsi il frutto delle sue rapine… Quei sei hanno poi sotto di loro seicento approfittatori, e questi seicento fanno ai sei quel che i sei fanno al tiranno. Questi seicento ne tengono poi sotto seimila, a cui hanno fatto fare carriera, affidandogli il governo delle province, o l’amministrazione ella spesa pubblica, per avere mano libera, al momento opportuno, in avarizia e crudeltà, compiendo nefandezze tali da poter resistere soltanto nella loro ombra, riuscendo cioè solo grazie a costoro a sfuggire leggi e sentenze».

Ripresi dopo una pausa: «Grande è poi la schiera che viene dopo, e chi volesse divertirsi a districare questa rete non ne vedrà seimila, bensì centomila, milioni, stare attaccati al tiranno con questa corda… si arriva insomma al punto che il numero di persone a cui la tirannia sembra vantaggiosa risulta uguale a quello di chi preferirebbe la libertà… Così, non appena un re si proclama tiranno, tutto il peggio, tutta la feccia del regno… gli si ammassa intorno e lo sostiene per avere la propria parte di bottino e per diventare così, sotto il grande tiranno, a loro volta dei piccoli tiranni1».

Restituii il foglio.

«Questa è la strategia con cui il Potere mantiene l’ordine secondo il giovanissimo Etienne. Tale è il metodo col quale ancora oggi esso accresce i propri profitti avvalendosi dei ruffiani della voluttà, quella schiera di malvagi approfittatori che si nascondono nella legalità per consolidare la gerarchia. Benpensanti biasimevoli e vili disposti a danzare sulle ceneri dell’umanità pur di poggiare la testa su guanciali pieni di soldi.»

«Mi perdoni» intervenne Pottutto. «Prima ha detto che lo stato è violento, ora sembra negarlo. Si decida!»

«Prima ho detto che crea ordine con l’oppressione e lo mantiene con l’intimidazione. Adesso ho aggiunto che è un dissimulatore corruttore e corrotto… Niente di nuovo!» precisai. «Tutti lo sanno e tutti lo accettano perché sperano prima o poi di essere invitati al banchetto.»

«Prego, maresciallo!» disse il magistrato a Manganello che aveva sollevato la mano per fare una domanda.

«Ecco… sì, volevo sapere se può…» farfugliò. «Non ho mica capito!»

«Allora le cito qualcosa di più moderno che, grosso modo, afferma le solite cose» ripresi. «Presente il discorso di Totò allo psichiatra nel film Siamo uomini o caporali

«Si stava meglio quando si stava peggio?»

«Esatto, proprio quello!» confermai sollevando il pollice. «Totò dice che l’umanità si divide in due categorie di persone: gli uomini e i caporali. Gli uomini sono la maggioranza, i caporali la minoranza. Cito a memoria: Gli uomini sono quegli esseri costretti a lavorare tutta la vita come bestie, senza vedere mai un raggio di sole, senza la minima soddisfazione, sempre nell’ombra grigia di un’esistenza grama. I caporali sono appunto coloro che sfruttano, che tiranneggiano, che maltrattano, che umiliano. Questi esseri invasati dalla loro bramosia di guadagno li troviamo sempre a galla, sempre al posto di comando, spesso senza avere l’autorità, l’abilità o l’intelligenza, ma con la sola bravura delle loro facce toste, della loro prepotenza, pronti a vessare il pover’uomo qualunque”. Perché “caporali si nasce non si diventa!”3».

Guardai Pottutto negli occhi: «Dopo le parole del maestro, cos’altro potrei aggiungere?».

NOTE

– 1 Piero Calamandrei, Lo Stato siamo noi, 1955: “desistenza” è un termine usato da Calamandrei in opposizione a resistenza. Mentre quest’ultima è impegno e attivismo, la prima è passività e rassegnazione.

– 2 Etienne De La Boétie, Discorsi sulla servitù volontaria, 1576.

– 3 Siamo uomini o caporali, film, 1955.

 

Editing a cura di Costanza Ghezzi

Disegno: Pippo Rizzo, In Marcia, 1920

 

25- STATO – CONTRATTO SOCIALE

 

«Facciamo un break?» disse Pottutto dopo essersi stirato come uno scimpanzé.

«Non vedevo l’ora!». Manganello si alzò trionfante.

«Parlavo di me. Lei controlli gli appunti!»

«Non si preoccupi dottore, Non scappano!». Il maresciallo batté vigorosamente la mano sul blocco.

Il PM lo fulminò. Poi con disincanto tirò fuori dalla tasca della giacca una tazzina di caffè fumante. Lo sorseggiò lentamente chiudendo gli occhi. Si rimise a sedere. Pulì le lenti degli occhiali. «Splendido!» proruppe. «Dov’eravamo rimasti?»

«Allo Stato» dissi.

«Quale stato?»

«Lo Stato!»

«Sì, ho capito, ma quale stato: solido, liquido, aeriforme… Scherzo!». Evidentemente la pausa gli aveva risollevato l’umore. «Come sempre mi raccomando…»

«Dieci minuti?»

«Cinque!»

«Nove!»

«Sei!»

«Sette e accordo fatto!». Sputai nella mano e gliela porsi.

Sputò nella sua e me la strinse.

«Il più grande impedimento all’essere se stessi è lo Stato. Ma cos’è lo Stato?» domandai enfaticamente. «Per Benjamin Tucker Stato è “una parola sulla bocca di tutti, ma quanti di coloro che la usano hanno un’idea di quel che intendono?” Ve lo dico io. Nessuno. E sapete perché? Perché lo Stato non esiste

«Come non esiste?» gorgogliò Manganello. «E chi ci paga lo stipendio?»

«Forse ha ragione». Pottutto tergiversò. «Ha mai visto il signor Stato?»

«Esso infatti è un’entità astratta, impersonale e invisibile che agisce attraverso le istituzioni, gli apparati, l’amministrazione e ogni forma di potere con cui ci interfacciamo e contro cui sovente ci scontriamo. Non c’è una definizione giuridica precisa. Si può però dire che un consesso sociale può autogestirsi, prevendendo l’etica partecipazione di tutti alle sue decisioni, oppure crea strutture che lo disciplinino dall’alto perché chi è in basso è stato educato a pensare di non esserne capace. Lo Stato si può pertanto definire come la forma politico-organizzativa che un gruppo sociale stabilisce per la gestione della cosa comune.»

«E fin qui non mi pare abbia fornito un contributo rilevante alla scienza giuridica!» obiettò Pottutto.

Ignorai il sarcasmo: «Individuata la forma politica, compito di giuristi e filosofi cortigiani è darne una parvenza di ragionevolezza. E se al tempo del monarca assoluto si evocava l’intercessione divina, con lo Stato-nazione il razionalismo illuminista ha giustificato la sua assolutezza attraverso forse il più bell’esempio di fantasia applicata al potere: la teoria del contratto sociale. Una credenza ormai talmente radicata nella coscienza collettiva che ancora oggi viene menzionata dalla dottrina come principio supremo dei sistemi giuridici moderni.»

«La conosco!». Pottutto si esaltò.

«Ottimo. Allora non c’è bisogno che la spieghi!»

«Però non la ricordo!». E a Manganello: «Immagino non sappia neanche di cosa stiamo parlando, vero?»

«E invece sì!». Il maresciallo replicò infastidito. «È quella teoria in cui si stabilisce che le persone si mettono d’accordo per creare un qualcosa…». Qui esitò, «un qualcosa in cui tutti siano d’accordo. Perché è meglio andare d’accordo che litigare. No?».

Il magistrato lo fissò in attesa che si smaterializzasse.

«La teoria del contratto sociale sembra una barzelletta perché tutti, anche i più sempliciotti, soprattutto i più sempliciotti, devono interiorizzarla: l’uomo se abbandonato a se stesso è una bestia stupida e cattiva, quindi ha bisogno di qualcuno che gli dica cosa fare. Questo il principio che si articola in due principali orientamenti: da una parte abbiamo Hobbes, per il quale gli uomini sono brutti, sporchi e cattivi e, se liberi di agire, sanno solo divorarsi gli uni con gli altri. Per cui è necessario che rinuncino alla libertà individuale per conferire al Leviatano il potere di mantenere l’ordine.»

«Esatto. Proprio come ricordavo!». Pottutto proferì convinto. «Poi c’è… Cok o qualcosa di simile, vero?»

«Esatto» dissi. «Il famoso uovo alla coque!» lo dileggiai. «Si chiama Locke. Ricorda?»

«Assolutamente!»

«Vuole parlarcene?»

«È lei il divulgatore, io sono il PM. Rispettiamo i ruoli, per cortesia!»

«Locke sostiene che gli uomini senza legge non sono così male. Sono liberi, uguali, vivono in armonia con la natura e, addirittura, riconoscono, rispettano e tutelano i diritti inviolabili in maniera spontanea. Peccato non siano affidabili. E così anche Locke, che tanto bene era partito, regredisce a sua volta sulla necessità che gli individui si uniscano in una società e che essa deleghi al Principe il potere di imporre e mantenere l’ordine.»

«Un altro Leviatano?»

«Non proprio. Se per Hobbes esso implica un dominio verticistico, dall’alto verso il basso, come può essere il potere di un re, Locke afferma che la società permane anche quando il Principe diventa tiranno o si dissolve. Quindi il Potere è orizzontale.»

«Orizzontale, verticale… in diagonale non c’è niente?» crocchiò Manganello sfrontato.

«Di fatto la teoria del contratto sociale che cementa i nostri sistemi giuridici è puro catechismo, di cui ha il tono e il linguaggio dogmatico, come asseriva Camus2. Si fonda, infatti, su una delega che non esiste. Nessuno ha mai trasferito la propria autodeterminazione al popolo o al governo, nessuno ha mai accettato di rinunciare alla propria identità. Per questo, come diceva Spooner, lo Stato è illegittimo e opera come un bandito di strada che intima alle persone o la borsa o la vita

«Bella questa!»

«Rende l’idea, vero?» dissi. «La teoria del contratto sociale è una superstizione di cui la Costituzione è il simbolo sacro a cui tutti devono prostrarsi. Un dio dei filosofi e degli avvocati surrogato del dio dei sacerdoti, rispetto al quale, però, è molto più autoritario. Infatti, se all’Assoluto si può rifiutare devozione e poi si starà a vedere cosa succede, allo Stato si obbedisce necessariamente per dovere di nascita. È quindi un tiranno con il quale dobbiamo difenderci quotidianamente per salvaguardare la nostra identità. A tal proposito non concordo con Spencer1 quando diceva…»

«Bud Spencer?». Manganello si illuminò.

«No!» dissi. «Benché entrambi detestino gli arroganti!»

«Quello del darwinismo sociale, maresciallo!» notò Pottutto con aria sapiente.

«Proprio lui!» confermai. «Anche se, dopo anni trascorsi a smascherare le vergogne del potere, credo odierebbe chi lo ricorda per una teoria sviluppata in età senile!» sorrisi. «Anche Spencer3 criticava l’imperio statalista, ma non lo escludeva. Proponeva, infatti, di limitare le sue funzioni alla sola sicurezza interna ed esterna e all’amministrazione della giustizia» dissi. «A mio giudizio, neanche la minarchia gli compete. Perché nessuno gli ha conferito l’autorità. Se l’è presa. Ce l’ha estorta e la impone con strafottenza. La verità è che lo Stato è una menzogna spregevole che fa leva sulla buona fede dei sempliciotti: si professa etico in sé pur fondando il suo dominio su un presupposto ingannevole, la delega appunto, peraltro antitetico alla nostra essenza primigenia, che è quella di decidere personalmente. E poiché la legge umana non ha alcuna validità se contraria alla legge di natura, come diceva Blackstone4, è corretto affermare che sia un diritto universale non rispettarla

«Però è grazie alle leggi se lei può parlare anziché essere su un patibolo!»

«Il patibolo ci vorrebbe per questi… il patibolo!» echeggiò Manganello.

NOTE

– 1 Spencer era un giornalista politico dell’Economist quando nel 1853 riceve l’eredità per la morte dello zio che gli consentì di dedicarsi a tempo pieno allo studio che lo porterà a scrivere i volumi di A System of synthetic philosophy.

– 2 Albert Camus, L’uomo in rivolta, Adelphi, 1951.

– 3 Herbert Spencer, The man versus the states, 1884.

– 4 William Blackstone, Commentaries on the laws of England, 1765.

 

Editing a cura di Costanza Ghezzi

 

Le vent nous portera Brano di Noir Désir

Je n’ai pas peur de la route
Faudrait voir, faut qu’on y goûte
Des méandres au creux des reins
Et tout ira bien là
Le vent nous portera

Ton message à la Grande Ourse
Et la trajectoire de la course
Un instantané de velours
Même s’il ne sert à rien va
Le vent l’emportera

Tout disparaîtra mais
Le vent nous portera

La caresse et la mitraille
Et cette plaie qui nous tiraille
Le palais des autres jours
D’hier et demain
Le vent les portera

Génétique en bandoulière
Des chromosomes dans l’atmosphère
Des taxis pour les galaxies
Et mon tapis volant, dis?
Le vent l’emportera
Tout disparaîtra mais
Le vent nous portera

Ce parfum de nos années mortes
Ce qui peut frapper à ta porte
Infinité de destins
On en pose un et qu’est-ce qu’on en retient?
Le vent l’emportera

Pendant que la marée monte
Et que chacun refait ses comptes
J’emmène au creux de mon ombre
Des poussières de toi
Le vent les portera
Tout disparaîtra mais
Le vent nous portera

 

 

 

TRADUZIONE:

Non ho paura della strada

Dobbiamo vedere, dobbiamo assaggiarlo

Meandri nella cavità dei reni

E lì andrà tutto bene

Il vento ci porterà

 

Il tuo messaggio all’Orsa Maggiore

E la traiettoria della gara

Uno scatto di velluto

Anche se è inutile andarci

Il vento prevarrà

 

Tutto scomparirà ma

Il vento ci porterà

 

La carezza e il mitra

E questa ferita che ci strattona

Il Palazzo degli altri giorni

Da ieri e domani

Il vento li porterà

 

Genetica alle spalle

Cromosomi nell’atmosfera

Taxi per le galassie

E il mio tappeto magico, diciamo?

Il vento prevarrà

Tutto scomparirà ma

Il vento ci porterà

 

Questo profumo dei nostri anni morti

Cosa può bussare alla tua porta

Infinità di destini

Ce lo chiediamo e cosa ricordiamo?

Il vento prevarrà

 

Mentre la marea sale

E che ognuno rifai i conti

Mi ritrovo nella cavità della mia ombra

Polvere di te

Il vento li porterà

Tutto scomparirà ma

Il vento ci porterà

24- INGRANAGGI MENTALI: LA SOCIETÀ

24- INGRANAGGI MENTALI: LA SOCIETÀ

«Altro ostacolo alla coscienza di sé è la società» dissi. «Essa è l’insieme di soggetti, solitamente affini per abitudini, cultura, identità, che instaurano relazioni reciproche in maniera organizzata, condividendo scambi, linguaggi, funzioni sociali, regole comportamentali, attività economiche. Può svilupparsi in un dato territorio, oppure, se si tratta di popolazioni nomadi, può mutare di volta in volta. Appena costituita è un’entità viva e fibrillante. Presto però, perde l’effervescenza iniziale e il suo dinamismo si cristallizza in consuetudini e condotte che, nel tempo, attraverso la memoria, le leggende, i rituali, spesso in simbiosi con la religione, diventano un giogo: una costante soggezione che costringe l’individuo nel chiuso di convenzioni morali e di servitù economiche dice Armand.»

«Mi sembra inevitabile, se la società vuole conservarsi!»

«La marmellata si conserva. L’uomo deve evolversi!» rilevo. «Conservare significa salvaguardare, cioè difendere un ordine acquisito in opposizione al naturale divenire delle cose. Che nella società del dominio implica che il più forte padroneggi e spadroneggi all’infinito la massa passiva o beneficiando della sua assuefazione o reprimendola con la coercizione legale o plasmandola attraverso norme interiorizzate come necessarie: la morale sociale. Quest’ultime posso essere regole di buon senso mischiate alle tradizioni, solitamente con funzioni pratiche che sussistono a prescindere dall’egemonia imperante, ma prevalentemente si tratta di regole che richiamano principi, valori e ideologie il cui scopo è difendere l’assetto costituito». Scrollai la testa: «Faccio un esempio banale di come la morale sociale sia ineluttabilmente reazionaria: quando negli anni sessanta le donne cominciarono a indossare la minigonna, dovettero difendersi dall’accusa d’immoralità. Ovviamente in quell’indumento non c’era niente di pericoloso o perverso, ma gli uomini intuivano i rischi che avrebbe corso la società patriarcale se esse avessero rivendicato la libertà di poter scegliere».

«Figuratevi che l’altro giorno mia moglie ha chiesto se poteva prendere l’auto!» Manganello inframezzò.

«Sono gli inconvenienti del progresso!» lo canzonai. «La morale sociale quindi, come la religione e la legge, è uno strumento di controllo volto a conservare lo status quo che fa leva sulla remissività, sull’ignoranza e sull’oscurantismo. In sintesi sul conformismo omologante.»

«Ho capito». Pottutto mi interruppe. «Ma se uno nasce in una società e quella società ha determinate regole…?»

«Avrebbe senso rispettarle se le avesse scelte. Ma qui nessuno sceglie niente. L’individuo subisce le abitudini, le memorie, i cicli, la disciplina e il convenzionalismo del contesto in cui è nato, senza alternative e senza che gli sia consentita la possibilità di aderire, creare e godere di un ordine che gli si confaccia. La domanda allora è: chi ha interesse a mantenere queste regole morali?… Ve lo dico io. Anzi, l’ho già detto: la fonte è la solita della religione e dello Stato: ovverosia il Potere.»

«Lo sapevo. È sempre colpa sua!» obiettò Pottutto.

«È più forte di lui!» scherzai. «Pensate alla favoletta lockiana secondo cui le persone sentono il bisogno di associarsi per dare vita a un governo che difenda la proprietà1. A forza di ripetere che essa è un diritto assoluto, la sua preservazione è diventata un dovere morale. Eppure è sotto gli occhi di tutti che provoca sofferenza, odio, diseguaglianza, dividendo gli uomini fra ricchi e poveri e fra chi possiede di più e chi meno. Non vi pare?»

«Ha ragione!» gorgogliò Manganello. «Non è giusto che i miei figli vivano in cinquanta metri quadrati mentre qualcuno tiene una villa tutta per sé!» ammiccò verso Pottutto.

«E lei come fa a saperlo?» questi replicò stizzito.

«Non gliel’ho mai detto?». Il maresciallo esitò. «Un paio d’anni fa il dottor Persecuzio mi ha chiesto di pedinarla e…»

«Pedinarmi?»

«Pensava fosse omosessuale!»

«Omosessuale? Ma che…?»

«Non si preoccupi. Appena ho visto la sua signora, ho riferito subito che era una persona perbene!»

«Anche la morale sociale quindi è sempre ingiusta in quanto obbedire a una norma non condivisa annienta l’identità personale. E di fronte a un’identità violata, l’anarchico non può rimanere indifferente!» dissi.

«No? E che fa?»

«Si ribella ovviamente!»

«E che palle con questo ribellamento!» esclamò Pottutto.

Senza sottolineare l’errore lessicale: «Come che palle?»

«Mi perdoni, mi sono lasciato andare!». Il magistrato roteò il collo e sottovoce: «Comunque un po’ che palle lo è davvero!» confessò. «Sembra che per lei sia importante solo quello. Ma, dico io, non si stanca mai?» 

«Se mi stanco? Mi stanca l’ingiustizia. Mi stanca l’indifferenza. Mi stanca l’assuefazione. Mi stancano la devozione e la disciplina. Mi stancano l’apatia e la passività. Non mi stanca la reazione. Che sia critica o lotta. Dobbiamo dissolvere gli ingranaggi mentali affinché una volta snebbiato il cervello la ragione e il sentimento vivano la propria natura e gli individui siano in grado di evolvere e vibrare a loro agio, a ciascuno il compito di edificare la propria concezione della vita, di completarsi, di fabbricare la propria Città interiore. A ciascuno il compito di dirigere la propria vita, d’orientare la propria attività secondo le tendenze proprie, il proprio temperamento, il proprio carattere, le proprie aspirazioni2».

Il pubblico ministero fissò la pila di fogli come se temesse il momento della lettura.

«Lo trova scritto nel blog. Vuole sapere quale articolo?» lo provocai.

«Devo…?»

Ghignai malvagiamente per tenerlo sulle spine. Poi conclusi: «Ricapitolando, la società impone principi, valori, linee guida, modelli utili alla sua perpetuazione, cioè alla sua organizzazione funzionale al mantenimento dei privilegi. Ed esattamente come la religione, la legge, l’economia, la sua forza centripeta schiaccia l’individuo. L’alternativa è la coscienza di sé, cioè affrancarsi dall’oppressione per essere liberi di scegliere. E per scegliere liberamente occorre distruggere le catene che dalla tradizione autoritaria all’odierna omologazione annullano la personalità.»

«Ma l’uomo ha bisogno di chi gli dice cosa fare!»

«E che è un cane?» replico. «Capisco il bisogno di una stella polare. Ma che derivi dalla conoscenza empirica, cioè sia personale, non imposta!»

«Finito?» chiese Pottutto approfittando della mia pausa.

«Quasi» dissi. «Perché ciò avvenga risolutivamente occorre una cosa…»

«Che è?» chiese annoiato.

«Ma la lotta allo Stato, naturalmente!»

«Sentivo che non dovevo chiederglielo!».

 

NOTE

 

– 1 John Locke, Il secondo trattato del governo (The treatises of government), 1690.

– 2 Emile Durkheim, 1858-1917, considerato il padre della sociologia.

– 3 Emile Armand, L’iniziazione individualista anarchica, 1923.

– 4 Ferdinand Tönnies, Comunità e società, 1887.

In foto: Keith Haring, L’Universo, 2007

Editing a cura di Costanza Ghezzi

 

 

23- INGRANAGGI MENTALI: LA RELIGIONE

23- INGRANAGGI MENTALI: LA RELIGIONE

«Il primo ostacolo è la religione. Non mi riferisco soltanto alla venerazione di Dio, Allah o Odino, eccetera, ma a ogni dottrina che inebetisce la ragione e il sentimento proiettando il sé fuori dall’esperienza. La religione nasce da un bisogno di risposte alle domande su cosa accade dopo la morte e, di conseguenza, quale è il senso della vita. Alla prima ribatte con fantasie più o meno bizzarre in cui divinità mattacchione si prendono gioco di noi ma noi le amiamo lo stesso perché siamo masochisti. Alla seconda replica concependo regole di condotta la cui osservanza favorisce un miglior soggiorno eterno. Facile comprendere come la definizione delle medesime sia ambita dal Potere quale strumento di controllo sociale. Ovviamente non è il luogo per analizzare come le religioni ottenebrino la ragione e deformino l’emozione…»

«Bravo!». Pottutto e Manganello applaudirono.

«Ma non posso ignorare che anche la religione sia l’antitesi dell’autodeterminazione» decretai. «Il credente, infatti, non opera per se stesso o per gli altri, ma per ingraziarsi la benevolenza dell’entità venerata. Si comporta secondo la sua volontà e la invoca sia affinché interceda negli affari mondani, sia per assicurarsi un posticino temperato per l’eternità…»

«Dovrebbe far ridere?» chiese Pottutto irritato.

«In realtà dovrebbe far piangere!» lo provocai.

 «Il fedele è una persona fragile a cui non basta la vita per trovare risposte. Ha talmente bisogno di rassicurazioni che, potesse, tornerebbe nell’utero materno!»

«Questa invece mi fa impressione!» esclamò Pottutto.

 «All’opposto l’anarchico, diciamo il negatore in generale, trova nell’esperienza la propria ragione. C’è una bellissima frase di Severino de Giovanni a riguardo. Parla del ribelle e fa suppergiù così: vivere in monotonia – si riferisce all’esistenza ordinaria – non è vivere, è solo vegetare e trasportare in forma deambulante una massa di carne e ossa. Alla vita è necessario dare l’elevazione squisita, la ribellione del braccio e della mente1

«Che esagerazione!» gorgogliò Manganello.

«Non le piace?»

«Mi sembra una stupidaggine: il braccio e la mente che si ribellano… cos’è un malato di Parkinson?»

«Non intendeva in quel senso!». Pottutto lo corresse. «Prego, prosegua!» a me.

«Detto che è nella natura umana il bisogno di conforto, sapete perché esso deve essere realizzato da un’entità trascendente

«No!» disse il magistrato.

«Io non so neanche che vuol dire trascendente!» aggiunse il maresciallo.

«La risposta è semplice: pur non ammettendolo per orgoglio e perché è meglio tacere si sa mai portasse male, l’uomo disprezza talmente ciò che è e come vive che si deresponsabilizza delegando la propria sorte all’immaginazione. Chiude gli occhi e se qui è caos, di là è pace; se qui è odio, di là è amore; se qui è niente, di là è tutto. Ma perché il sogno si realizzi occorre che l’artefice sia onnipotente, onnisciente, indefettibile, intellegibile, intangibile… insomma, tutto ciò che l’uomo non è2! Non a caso, infatti, i paradigmi della religione sono sempre stati gli dei che guardano dall’alto, gli uomini che ne subiscono i capricci, il culto per mantenerli tranquilli e sereni. Le religioni monoteiste hanno prodotto un salto di qualità: anziché tante divinità, ce n’è una sola creatrice e imperante. Si è passati dal politeismo, che possiamo immaginare come una moderna famiglia allargata, paternalistica ma tollerante, al patriarcato in cui il padre burbero ordina e i figli obbediscono per evitare gli schiaffoni. Monoteista è il cristianesimo, ma anche l’ebraismo, l’islamismo e compagnia cantante.»

«E l’Induismo?»

«Più che una religione, direi che è un insieme di credenze.»

«Il Buddismo?»

«Forse più una filosofia!»

«E tifare il Napoli? Quella sì che è una religione!» si interpose Manganello.

 «Questo passaggio ha sancito anche il mutamento del rapporto col sacro: se una volta bastava un banalissimo sacrificio per amicarsi quella o quell’altra divinità, per alimentare la concordia ed evitare che gli dei riversassero i loro capricci sulla terra, con il dio unico e assoluto l’uomo ha subordinato la propria volontà alla sua rinunciando a ogni possibilità di determinarsi».

«Ma c’è il libero arbitrio!» obbiettò Pottutto.

«Che giustifica la responsabilità, quindi il senso di colpa e la conseguente sanzione divina!» chiarii. «Infatti Dio ci dice che si è liberi di fare una cosa anziché un’altra. Ma se facciamo l’altra ci punisce. Geniale! Così geniale che tutte le manifestazioni di potere che nei secoli si sono succedute hanno scimmiottato questo principio!» dissi. «La verità è che la religione è il più potente dei costrutti in quanto agisce sulla fragilità umana creando regole, dogmi, imposizioni a cui è impossibile sottrarsi. Si chiama morale. Ogni religione ha la sua. Inderogabile!»

«E cos’altro si aspetta da una religione?»

«Dalla religione niente. Dalle persone, invece, che si guardino intorno e cerchino la propria essenza. Poi sollevino gli occhi e godano dell’essere parte del tutto. Vivere armonicamente con ciò che ci circonda è l’unico scopo della vita. Si è liberi nella consapevolezza di ciò, si è eguali nella sua pratica. Pur essendo una banale verità, invece, l’uomo preferisce obbedire. Con l’effetto che c’è sempre qualcuno che si appropria dell’autorità e ne approfitta per il proprio tornaconto.»

«Dimentica però che credere è un atto di fede

«Non c’è dubbio. Poiché se la logica dimostra tutto e il suo contrario, non rimane che appellarsi all’emotività, la più democratica e distinguibile delle esperienze umane. Dio esiste per chi ha un cuore grande: chi lo ignora è una persona arida e malvagia! E così, zitta zitta, la religione ci rifila la più pervicace delle gerarchie: quella fra buoni e cattivi.»

«Non mi piace questo sarcasmo!» obiettò Pottutto.

«Perché, lei crede in Dio?» gli domandai.

«Certamente!»

«E lei?» chiesi a Manganello.

Il maresciallo aprì con disinvoltura il bottone della divisa e da sotto un quintale di pelo esibì una croce dorata avvolta da una schiera di ciondoli: «Questa è la Madonna di Lourdes, questo è San Bernardo da Aosta protettore degli alpinisti, questo è San Ignazio di Loyola protettore dei militari, poi c’è San Vincenzo Ferrer protettore dei muratori, San Pasquale protettore dei cuochi, San Erasmo che protegge dall’acidità di stomaco, San Dionigi per il mal di testa, oltre a…»

«E quello?»

«Questo? Questo è il cornetto che mi ha regalato la mia nonnina!»

«I suoi amici, invece?» mi sferzò Pottutto. «Sono con o contro Dio?»

«Con o contro… Mica siamo nell’arena a decidere le sorti di un gladiatore!» esclamai. «Posso dire che gli anarchici non la pensano tutti allo stesso modo. Il che può suonare strano, ma in realtà è conforme al nostro pluralismo. C’è chi crede e chi no. L’importante è che nessuno imponga all’altro la propria concezione del mondo. Godwin, ad esempio, il padre dell’anarchia moderna, ma anche Tolstoj e Berneri, criticavano l’ateismo anarchico. Il primo sosteneva che la ragione fonda la religione; lo scrittore russo, invece, che il regno di Dio fosse immanente; l’agnostico Berneri, infine, sottolineava come l’ateismo intransigente rischiasse di diventare un dispotismo totalitario. In senso contrario, la maggior parte degli anarchici è convinta che della religione se ne possa fare a meno in quanto alimenta le gerarchie divine e terrene, mantiene gli esseri umani nella soggezione e nella superstizione, quindi nell’ignoranza e nella subalternità, oltre a fomentare discordie, guerre, confini, muri di incomprensione e discriminazione3».

Poiché ormai mi guardavano con espressioni tipo Giuditta di Klimt4, conclusi: «L’Assoluto è sempre una violenza poiché è il più potente strumento di manipolazione che fa leva sulla debolezza umana mascherata da senso di colpa. Per questo gli anarchici collocano il loro paradiso e la loro felicità sulla terra e vogliono godere pienamente e sanamente della vita, cioè vivere l’esperienza quotidiana con tutta la passione, la forza, l’altruismo, il coraggio, la determinazione, l’amore possibile, come dice Emile Armand. E come dargli torto? Non vedo che senso abbia agognare l’immortalità quando è noto a tutti che le cose belle finiscono sempre!».

 

 

NOTE

– 1 Severino De Giovanni da articolo su Filosofia antiautoritaria del 2.8.22.

– 2 Così parlava Lidwig Feuerbach in L’Essenza del Cristianesimo del 1843.

– 3 Pippo Guerrieri, L’Anarchia spiegata a mia figlia, BSF Edizioni, 2018.

– 4 Gustav Klimt, Giuditta, olio su tela, 1901.

In foto Marc Chagall, Crocifissione Bianca, 1938

Editing a cura di Costanza Ghezzi

22- INGRANAGGI MENTALI

Bussarono alla porta.

Il volto paffutello di una ragazzina in divisa si affacciò timidamente per avvisare Pottutto che c’era una telefonata per lui.

«Per me?»

«Per lei!»

«Dica che sono impegnato!»

«È urgente!»

«Chi sarà mai?» rifletté imbarazzato. «Deve essere mia moglie. Stamani è stata a parlare con i professori di nostro figlio… Tutte le volte è una tragedia!» aggiunse con ghigno crepuscolare.

«Non è sua moglie!».

Il pubblico ministero lisciò il baffo con la penna. «Sarà mica la pizzeria… magari hanno visto le luci accese?»

«Non è la pizzeria, dottore!»

«Manganello, ha pagato la tintoria?»

«È il dottor Persecuzio» tuonò la novellina.

La segretaria smise di battere a macchina.

Manganello scivolò sulla sedia fino a nascondersi sotto il tavolo.

Avrei giurato che la sfinge sulla porta avesse chiuso gli occhi.

O forse fu solo una mia impressione.

Il magistrato oscillò tremolante. Sbiancò, avvampò, sbiancò ancora per assestarsi su un livido cadaverico.

«Persecuzio?» chiese terrorizzato. Per non cadere afferrò il riporto del maresciallo. Ma i capelli erano unti e gli sgusciarono di mano.

«Il procuratore capo!» la giovane ribadì.

«Manganello, risponde lei per favore?»

«E che gli dico?»

«Non so. Come s’inventa le prove, s’inventi una scusa!»

«Non mi faccia questo!» supplicò il maresciallo.

«Vuole che ci parli io?» proposi.

«Lo farebbe per me?»

«Per gli amici questo e altro!».

Alla fine, Pottutto si arrese al destino: «Va bene, me lo passi!» proferì.

Attendemmo in apnea che trillasse il vecchio telefono Sip color grigio topo poggiato sulla cassettiera alle spalle dei miei inquisitori.

«Pronto, chi parla?» farfugliò Pottutto. «Buongiorno, dottor Persecuzio… Certo che sapevo che era lei, dottor Persecuzio… Perché allora ho chiesto chi parla? Non saprei dottor Persecuzio. Per abitudine, forse?… No dottor Persecuzio, non faccio il cretino! A proposito dottor Persecuzio, volevo complimentarmi perché la foto sul giornale le risalta il profilo egizio!… No, dottor Persecuzio, non faccio neanche il leccaculo!… Immaginavo volesse parlarmi dottor Persecuzio… L’interrogatorio? Abbiamo cominciato giustappunto a conoscerci, dottor Persecuzio. L’indagato è affabile e collaborativo e sta spiegando con dovizia cos’è l’anarchia… Come dottor Persecuzio? Non gliene frega di sapere cos’è l’anarchia e vuole solo i nomi per la stampa?». Pottutto coprì la cornetta e a me: «Dice che vuole solo i nomi per la stampa!»

«Quali nomi?» replicai di labiale.

«Sicuramente, dottor Persecuzio. Le prometto che l’indagato non ne tralascerà uno!». E a me: «Mi informa che vi impiccherebbe tutti voi anarchici!». Quasi a giustificarsi: «Non si preoccupi, gli piace esagerare!». Tornò ad ascoltare il procuratore capo e poi coprì di nuovo la cornetta: «Sostiene che a quest’ora col dottor Comma avrebbe già confessato!».

Lo rassicurai negando con un gesto della testa.

«Le prometto dottor Persecuzio che parlerà così tanto che alla fine dovrà fare i fumenti perché gli torni la voce!… Allora ci sentiamo più tardi, dottor Persecuzio… Buona serata. Saluti la signora. È ancora in ufficio? Allora saluti la segretaria. Grazie della telefonata. A presto e buon lavoro. Buon inizio e buon principio. Ad meliora et at maiora semper… Ha buttato giù!» Il magistrato fissò il vuoto. «Gli sarà piaciuta la citazione latina?». I suoi occhi spauriti scivolarono dal faccione del maresciallo, alla scrivania, a me. Si morse il labbro.

«È stato bravo»!» lo rassicurai.

«Dice?»

«Molto determinato e conciso. Adesso però possiamo proseguire l’interrogatorio?».

+++++

Per recuperare la sua attenzione riassunsi su un foglio alcune parole chiave della socialità anarchica:

             Liberarsi dagli ingranaggi mentali

                                                                   ↓

        Coscienza di sé → Padrone di se stesso

                                    ↓

                                                       Autonomia = libertà-eguaglianza

 

Sintetizzai: «Affinché gli uomini manifestinola propria personalità in maniera libera ed eguale, occorre che siano coscienti di sé, ovverosia neghino i condizionamenti esterni e vivano seguendo la propria natura. Emancipati così dagli ingranaggi mentali, diventano padroni di se stessi, quindi capaci di determinarsi senza assoggettamenti. Che non significa fare quello che pare, poiché il mero perseguimento dei desideri e piaceri è un ciclo senza fine che porta a sofferenza, bensì fondersi nell’unità del mondo».

Pottutto e Manganello si fissarono come se il peggio dovesse ancora venire.

«In un articolo spiego tale evoluzione con le parole di Stirner. Sarà pure delirante, egoista ed esaltato come sostengono i suoi detrattori, ma usa immagini così ficcanti, paradossi, bizzarrie ed è così al confine fra genio e follia che ogni volta che lo leggo mi illumino d’immenso!» scomodai Ungaretti1. «Il suo pensiero, infatti, coglie in pieno la necessità che la volontà si emancipi dalla contingenza per sprigionare tutta la sua potenza. Nietzsche non ammetterà mai di essersi ispirato a lui, ma senza l’Unico, il Superuomo sarebbe stato più uomo che super!»

«Sta dicendo che lo ha plagiato?»

«Lascio a voi giudicare!»

«Signorina Servile, terminato l’interrogatorio prepari subito un bell’avviso di garanzia nei confronti di questo falsificatore da strapazzo!» paupulò Pottutto.

«Ben fatto!» seguì Manganello.

«Il filosofo…» ripresi.

«Chi, quel Shiller?» domandò il PM.

«Si chiama Stirner» precisai. «Anche se I Masnadieri sono una bella botta di ribellione!2». Proseguii: «Il filosofo parte dal presupposto che l’individuo non sia l’io è tutto idealizzato da Fichte, né l’io del popolo che è una potenza impersonale, spirituale, è la legge quindi uno spettro, non un io, né quello regolamentato dallo Stato in quanto esso non è pensabile senza il dominio e la schiavitù, tantomeno quello contemplato dalla religione per cui la persona viene soggiogata dalla promessa del bene sommo e non presta più attenzione ai propri desideri, o l’homo oeconomicus, poiché nell’avere, ossia negli averi, gli uomini sono diseguali…»

«Non è che ci rimanga granché!» rilevò Manganello.

«Per Stirner, infatti, idealismo, società, Stato, religione, capitale sono forme di autorità che includono sempre la prospettiva di un nuovo dominio e realizzano schiavitù, servitù, rinnegamento di sé. Occorre pertanto che l’Unico si ribelli e non sia più schiavo di Dio o della legge ma diventi padrone di sé, cioè individuo capace di determinarsi secondo la propria volontà senza subire le pressioni, le suggestioni, i fantasmi che da sempre la soggiogano. Solo quando il mondo sarà nostro, il suo potere non sarà più contro di noi ma con noi, afferma3».

«Lo diceva anche mia nonna che bisogna essere se stessi!» squittì il maresciallo.

«Le nonne sono sempre molto sagge!» convenni.

«L’urgenza di diventare padroni di se stessi è un concetto trasversale all’anarchia. Kropotkin, ad esempio, pur avendo una concezione del mondo, della società, dell’anarchia stessa completamente opposta dall’individualista, sostiene a sua volta che il capitalismo, la religione, la giustizia, il governo sono grandi cause di depravazione. Lo afferma per dimostrare la potenza del mutuo appoggio, ma la sostanza non varia: noi non chiediamo che una cosa, ovverosia eliminare tutto ciò che nella società umana impedisce il libero sviluppo, cioè tutto ciò che falsa il nostro giudizio: lo Stato, la Chiesa, lo sfruttamento; il giudice, il prete, il governo, lo sfruttatore, poiché in una società basata sullo sfruttamento e la servitù, la natura umana si degrada4».

Feci un’altra pausa perché la loro espressione da perioftalmo mi inquietava.

«Ho citato questi due filosofi così diversi ma così eguali perché entrambi parlano degli ingranaggi mentali da cui dobbiamo affrancarci per essere padroni di noi stessi: religione, società, Stato, capitale». Guardai il pubblico ministero: «Adesso li vediamo uno alla volta.»

«Non basta citarli?» chiese.

«Dottore, mi dia un po’ di soddisfazione!».

 

NOTE

– 1 Mi illumino d’immenso è una poesia di Giuseppe Ungaretti, 1888, 1970.

– 2 I Masnadieri sono un’opera che critica le convenzioni sociali e l’autorità del poeta tedesco Friedrich Shiller 1759-1805.

– 3 Max Stirner, L’Unico e la sua proprietà, 1844.

– 4 Peter Kropotkin, La morale anarchica, 1890.

IN foto: Andre Martin De Barros, EArotic Illusion, 2009

Editing a cura di Costanza Ghezzi