POTETE SCRIVERE A: “RAIMONDOMARIADOPRAHO@GMAIL.COM”

Per chi volesse lasciare il suo commento, postare qualcosa, fare domande, può farlo scrivendo a RAIMONDOMARIADOPRAHO@GMAIL.COM

No volgarità

No offese

No foto porno

STORNELLI D’ESILIO, di PIETRO GORI, 1895

STORNELLI D’ESILIO di Pietro Gori

 

O profughi d’Italia

a la ventura

si va senza rimpianti

né paura.

 

Nostra patria è il mondo intero

nostra legge è la libertà

ed un pensiero

ribelle in cor ci sta.

 

Dei miseri le turbe

sollevando

fummo d’ogni nazione

messi al bando.

 

Nostra patria è il mondo intero

nostra legge è la libertà

ed un pensiero

ribelle in cor ci sta.

 

Dovunque uno sfruttato

si ribelli

noi troveremo

schiere di fratelli.

 

Nostra patria è il mondo intero

nostra legge è la libertà

ed un pensiero

ribelle in cor ci sta.

 

Raminghi per le terre

e per i mari

per un’Idea lasciamo

i nostri cari.

 

Nostra patria è il mondo intero

nostra legge è la libertà

ed un pensiero

ribelle in cor ci sta.

 

Passiam di plebi varie

tra i dolori

de la nazione umana

precursori.

 

Nostra patria è il mondo intero

nostra legge è la libertà

ed un pensiero

ribelle in cor ci sta.

 

Ma torneranno Italia

i tuoi proscritti

ad agitar la face

dei diritti.

 

Nostra patria è il mondo intero

nostra legge è la libertà

ed un pensiero

ribelle in cor ci sta.

15 – Bene comune dello Stato vs bene comune dell’anarchia

N 15

«Ho detto che l’anarchia ha come fine il bene comune. Ma attenzione, anche lo Stato dichiara di voler realizzare il bene comune. E lo fa avvalendosi dei suoi mestieranti più agguerriti. Quando i vari politici, giornalisti, burocrati, scosciate, scrittori, artisti, prostituiti vari e tutti coloro che altrimenti dovrebbero lavorare evocano il bene pubblico come fine perseguito dallo Stato, mentono sapendo di mentire.»

«Ora non mi faccia la solita morale!»

«È un rischio che si corre sempre quando si disprezza!» replicai. «L’esempio è il legalismo imperante: fatua adorazione del sacro paganizzato! Peccato che lo Stato di divino abbia ben poco, visto che con la legge fa il proprio interesse, realizza il proprio profitto, legittima il proprio bene. E non mi riferisco solo allo Stato dei gentiluomini che lo governano, dei burocrati che ne consentono la conservazione o delle canaglie che se ne servono, ma a quello proprio dell’ordinamento stesso che si concretizza nell’assolutezza morale e materiale indispensabile alla perpetuazione di se stesso.»

«Molto qualunquista!»

«Il potere è reazionario per definizione. Lo dimostra il fatto che tanti di quei dei diritti civili che attribuiamo alla politica illuminata sono stati conquistati attraverso una massiccia contestazione extra-istituzionale sotto forma di sommosse, attacchi alla proprietà, dimostrazioni violente, espropri, incendi, sfide aperte, minaccia ai poteri costituiti1. Quando la politica legifera simulando un qualche interesse verso il popolo è solo per circoscrivere il malessere sociale che pregiudicherebbe la sua stabilità, oppure per riattizzare il capitalismo, che altrimenti stagnerebbe o regredirebbe. Sempre la stessa storia: captato il disagio, la politica lo argina aumentando o definendo nuove forme di controllo sociale!». Feci una pausa per ripartire con slancio: «Ditemi una cosa che lo Stato fa per i cittadini di sua iniziativa?».

Mentre il PM si lisciava la barba, «Le strade!» esclamò il maresciallo.

«Ma se l’altro giorno è venuto a prendermi perché un cratere mi aveva sfasciato la ruota dell’auto!» lo riprese Pottutto.

«Allora la sanità!»

«Lasci perdere!». Stavolta Pottutto si strappò un ciuffo dalla basetta: «Piscio saette da tre settimane e quei bastardi mi hanno fissato l’urologo fra nove mesi!»

«Ha provato con gli ortaggi? Sono pieni di vitamine… E se dico la scuola?». Di nuovo il maresciallo.

«Sulla scuola, potrei anche darle ragione» dissi. «Come luogo di addestramento all’obbedienza è assai efficiente!»

«Faccia poco lo spiritoso!» mi redarguì Pottutto.

«Esatto. Faccia poco lo spiritoso!» ripeté Manganello.

«Non mi avete ancora risposto!» sogghignai.

Ci pensarono.

«La giustizia!». Pottutto si accese.

«Se i magistrati fossero tutti come lei!» ironizzai.

Mi dette ragione.

«Ci sono: il Papa!». Di nuovo Manganello.

«Sta in un altro Stato!» lo corresse Pottutto.

«Come dottore, hanno spostato Roma?»

«Manganello, mi faccia una cortesia: si limiti a prendere appunti!».

E a me: «Adesso basta!» ruggì. «Se volevo rispondere alle domande a trabocchetto andavo al Quiz Show!»

«Ha ragione» dissi. «L’importante è che sia chiaro che il bene pubblico di cui tutti si riempiono la bocca fa solo l’interesse di chi sta lassù…». Puntai il dito verso l’alto.

«Persecuzio?» chiese il pubblico ministero allarmato.

«Che c’entra il procurato capo?»

«È nell’ufficio proprio sopra di noi!»

«Il bene comune di cui parla l’anarchia, invece, tiene conto delle personalità, degli interessi, delle aspirazioni reali di ogni individuo. Sorge dal basso e si sviluppa con la condivisione, l’unione delle singole aspirazioni per uno scopo condiviso: la comunità di egoisti, o più semplicemente comune, gruppo, clan, associazione, agglomerato, soviet addirittura. Qualunque struttura organizzata in maniera autonoma, antigerarchica e autogestita2, dove le persone si uniscono per condividere un obiettivo. Ed è con questa comunità partecipata che l’anarchia realizza la sua etica».

Potutto emise una smorfia poco convinta. «Qualcosa non quadra». Inforcò gli occhiali e lesse gli appunti: «Parla prima di individualità, poi di comunità. Ma se io sto bene per conto mio perché devo condividere con gli altri?»

«Ciascuno è libero di fare quello che vuole e nessuno può e deve ostacolarlo. Se a lei piace vivere un’esistenza ascetica è una sua scelta. Posso non condividerla perché credo che l’isolamento sia pur sempre una condizione transitoria, se non estintiva. Anche quando è una fuga necessaria, arriva il momento in cui l’individuo deve relazionarsi e allora la questione si porrà nuovamente e forse in maniera più esasperata perché avrà perso l’abitudine alla convivialità. Ciò detto, se lo spirito comunitario fosse imposto dall’alto sarebbe l’ennesimo dispotismo. Le faccio l’esempio del Kibbuz, quel modello di società cooperativa ebraica i cui membri si impegnavano a realizzare pratiche anarchiche come limitare l’autorità, abolire le gerarchie, favorire la partecipazione diretta. La regola era che i bambini venissero sottratti alle famiglie biologiche fin da piccoli affinché la comunità provvedesse alla loro educazione. In questo modo crescevano come essa voleva, acquisendone i principi e i valori. Principi e valori che, a prescindere dalla loro giustezza, erano pur sempre imposti dal gruppo sociale, pertanto non scelti. Pur partendo da premesse libertarie quindi, i suoi seguaci utilizzavano un metodo che non aveva niente a che vedere con la naturalità e la spontaneità. E senza naturalità e spontaneità, cioè senza una scelta libera, dove per libera intendo che porti a una personalità cosciente, non si realizza l’etica anarchica. Per questo l’anarchia non impone modelli. Al massimo spiega e consiglia affinché ciascuno scelga consapevolmente la propria via. Come diceva Ghandi: “la morale non sta nel seguire una strada già battuta, ma nel scegliere la propria e percorrerla senza paura”».

«Dopo Ghandi manca Einstein e poi li ha citati tutti!». Pottutto sghignazzò soddisfatto per la battuta. Poi cambiò intensità: «Le ricordo che ancora non mi ha dato un nome!»

«Non si agiti, abbiamo appena cominciato!».

 

NOTE:

 

1 – James Scott, Elogio dell’anarchismo, Elèuthera edizioni, 2014.

 

2 – Colin Ward, Anarchia un approccio essenziale, Elèuthera edizioni, 2014.

 

Editing a cura di Costanza Ghezzi– www.costanzaghezzi.com

Immagine: Giacomo Balla, Motocicletta, 1913.

14 – Cos’è il bene comune

Il pubblico ministero aggrottò le sopracciglia. Sguardo indagatore e denti che mordicchiavano il labbro. «Qualcosa non mi torna. Finora ha parlato di individualità. E l’individuo fa questo, e l’individuo fa quello, e l’individuo su e l’individuo giù. Ora parla di umanità. Mi sembra una contraddizione!»

«Una contraddizione?» chiesi.

«Manganello, lei non ci vede una contraddizione?»

«Dotto’». Il maresciallo si compresse. «Io so solo che devo andare in bagno!»

Lo seguimmo trotterellare verso la porta.

«Collega, devo passare!» si rivolse alla Sfinge davanti ad essa, che sembrava non avere alcuna intenzione di scansarsi. Gli batté la mano sulla spalla, gli pizzicò la guancia, gli tintinnò il pacco, gli puntò la pistola in un occhio. Niente.

«Bravo figliuolo, fossero tutti ligi come te!». Gli schiaffeggiò bonariamente la faccia. «Però adesso fammi il piacere…!»

«Maresciallo?». Pottutto lo richiamò.

«Sì, dottore?… Là, dottore?». Indicò la porticina che stava fra la segretaria e la parete. «Ma è alla turca!» eccepì. «Mi arrangio!». Si chiuse dentro. La riaprì. «Spiace se la tengo aperta? Manca la luce!»

«Torniamo a noi» bramì il PM. «Mi stava dicendo?»

«Mi ha chiesto perché sono passato dall’individuo all’umanità. La risposta è molto semplice: l’anarchico tiene alla libertà più di ogni altra cosa, dice Gaston Piger1. Ma è cosciente che se fosse finalizzata al sé, la vita sarebbe un vagare senza approdo. L’individuo, infatti, prova un senso di compiutezza solo quando si percepisce come parte di un tutto. Questo tutto è l’umanità, cioè la vita, che scorre e diviene insieme alle cose del mondo. In altre parole, egli coglie la propria essenza quando non agisce spinto dall’egoismo, ma dal desiderio di realizzare il bene comune. E il bene comune è l’interesse condiviso. Innanzi tutto condivisione dell’antiautoritarismo, principio supremo che accumuna i ribelli e salda il pluralismo fra comunità. Ma anche lo scopo che unisce i membri di una comunità, non necessariamente affine a quello di un’altra, benché accumunati dalla lotta contro ogni forma di dominio. Questa è la nostra idea di giustizia. Una concezione che, senza remore, si impregna di ottimismo antropologico, per cui l’uomo è cooperativo e capace di controllare la propria aggressività, come direbbe Alfie Kohn, e non aspetta altro che godere della propria essenza».

Sbatté la porta del bagno e il maresciallo trotterellò nella stanza: «Mi sono perso qualcosa?»

«Stavo per citare Bakunin».

Tornò dentro e chiuse a chiave. Qualche secondo e riaprì.

 «Scherzavo!» disse divertito.

«Dice il filosofo: “Noi crediamo nei diritti degli uomini, nella dignità e nella necessaria emancipazione della specie umana. Noi crediamo nella libertà e nella fraternità umana fondata sulla giustizia. In una parola, crediamo nel trionfo dell’umanità sulla terra”.»

«Che sarebbe?»

«Che sarebbe?» ripetei. «Cosa vuol dire essere uomini secondo voi?».

Pottutto liberò un’espressione tipo Franco Califano di fronte a una bella donna. «Glielo devo proprio dire?»

«E lei?» chiesi a Manganello.

«Ho sei figli… Non c’è bisogno di molte spiegazioni!»

«Bella visione maschio-centrica!» mi complimentai con entrambi. «L’uomo è un corpo». Mi sfiorai il braccio. «Dentro il corpo cosa c’è?»

«Ci sono gli organi» rispose Pottutto.

«Sicuramente. Oltre quelli?»

«Le vene?» ci provò Manganello.

«Siamo fatti di intelletto, istinto, sentimenti. In una parola: volontà. Siamo gli unici esseri viventi a possederlo?».

Entrambi finsero di non aver capito.

«Probabilmente no. Di sicuro però siamo la specie più evoluta, nel senso che può sfruttare la consapevolezza di sé per progredire. E come si progredisce?»

«Che lo chiede a noi?»

«È una domanda retorica» dissi. «Premendo un bottone dalla mattina alla sera e vegetando stremati il resto del tempo davanti a uno schermo per dimenticare, chi si è? Indebitandosi fino alla tomba per quattro mura? Bramando quell’ammorbidente di cui il comico sembra non possa fare a meno? Non scherziamo! La vita dell’uomo moderno, che lavora e consuma è una merda!»

«In effetti!». Pottutto sospirò. «Anch’io odio fare shopping la domenica con mia moglie!»

«In questo mondo in cui siamo meri ingranaggi, che fine fanno la ragione, l’istinto, il sentimento? Kaput! Arrivederci! Au revoir! Auf wiedersehen! Bye bye! Siamo stati educati a concepire la vita in funzione del lavoro, il lavoro in funzione del consumo, il consumo in funzione dell’esistenza. Ecco perché siamo infelici!»

«Non vedo molte alternative!»

«Le alternative sono due: o il meglio ubriachi che rotelle dell’ingranaggio2, o una rivoluzione culturale e pratica che ci restituisca la nostra umanità in armonia con l’equilibrio naturale delle cose, spogliandoci del superfluo, sottraendoci alla manipolazione dell’artificio. Basta poco per essere felici: relazioni umane faccia a faccia e un rapporto diretto con la natura. Tutto il resto è deturpazione del nostro essere, alterazione delle nostre attitudini, negazione della spontaneità. Quindi ansia, preoccupazione, infelicità.»

«Dove vuole arrivare, Dopraho?»

«Dove sono arrivato» dissi. «L’anarchia mira a costruire una società in cui le relazioni siano in armonia fra loro e si sviluppino in un ambiente che le aiuti a evolversi.»  

«Tutto qui?»

«Se le sembra poco!» dissi. «Sul primo punto tornerò. Sul secondo, invece, mi preme sottolineare che il rispetto dell’ambiente, cioè la sensibilità ai problemi ecologici, diversamente da quello che tanti credono, non è un fenomeno recente. Rousseau, Thoreau, Kropotkin e tanti altri ne parlavano secoli fa. Sul presupposto che l’individuo è parte di un tutto, molti di quei filosofi si opponevano alla tecnologia, all’industrializzazione, a tutti gli antropocentrismi che la mettono a rischio. Negli ultimi anni al dramma provocato dal progresso scientifico-tecnologico, l’anarco-ecologismo ha reagito realizzando molteplici azioni dimostrative contro il sistema, sempre più arrogante, aggressivo e distruttivo…»

«Più parla, più mi sembra Savonarola!3». Pottutto mi interruppe.

«Non farete bruciare sul rogo anche me?»

«Noi siamo civili. L’aspetta una bella cella d’isolamento per il resto dei giorni!»

«La ringrazio!»

«Non c’è di che!»

«Posso?» chiesi se potevo chiudere il concetto: «John Zerzan, ad esempio, partendo dalla critica alla civilizzazione, al consumismo e alla sofisticazione tecnologica, propone una provocatoria teoria primitivista in cui auspica il ritorno a una società di raccoglitori-cacciatori dove le relazioni umane siano improntate sul faccia a faccia, dove non ci sia divisione del lavoro, dove si creino spazi vitali radicalmente decentrati e non la realtà globalizzante e standardizzante della società di massa, in cui tutta la sfolgorante tecnologia si fonda sulla schiavitù di milioni di persone e sull’eccidio sistematico della terra4… Come soluzione è forse un po’ ardita: probabilmente le persone non sono ancora disposte a rinunciare alla comodità della vita moderna. Ma è solo questione di tempo perché capiscano che non ne posseggono più una!»

«Una società di raccoglitori-cacciatori?». Pottutto si ravvivò. «Raccogliere bacche e cacciare animali tutto il giorno? Non credo faccia per me. Con questo mal di schiena!».

NOTE

1 – Gaston Piger, Signorina anarchia, Ortica edizioni,2021.

2 – Così Aiello parlando del poeta Tao Yuanming che faceva uso di alcol “per lasciarsi alle spalle le costrizioni di una vita serrata negli obblighi del meccanismo sociale”. In Giuseppe Aiello, Taoismo e anarchia, La Fiaccola edizioni, 2017.

3 – Girolamo Savonarola, 1452-1498, fu un predicatore popolare che venne scomunicato e bruciato sul rogo come eretico.

4 – John Zerzan, Enrico Manicardi, Nostra nemica civiltà, Mimesis editore, 2018.

 

Editing a cura di Costanza Ghezzi. WWW.costanzaghezzi.com

dipinto: Pieter Claesz, Natura morta con prosciutto, 1870

 

N 13 – Riappropriarsi dell’umanesimo

«Okay, lo ammetto. Un po’ ridacchiavo!». E soprattutto non smettevo di farlo. Perché dopo aver immaginato il magistrato citare Proudhon, ho visto il procuratore capo…»

«Ma chi, il dottor Persecuzio?». Pottutto pigolò terrorizzato.

«Dov’è?». Manganello scattò in piedi e guardandosi intorno: «Quando l’ha visto?»

«Non l’ho visto. L’ho immaginato!»

«Perché?». Il PM in apnea. «Manganello, Dopraho sta impazzendo!»

«Non sono pazzo!»

«Infatti ho detto sta. Conosce l’italiano? Sta impazzendo: voce del verbo stare impazzendo!»

«Se non vi calmate, me ne vado!» gridai.

Fu sufficiente perché l’uno ritrovasse il suo equilibrio psicofisico manipolando la pallina di pongo e l’altro ricominciasse a disegnare sul foglio.

«E che faceva?»

«Persecuzio? Ma niente… la rimbrottava da dietro la scrivania, poi cominciava a rimpicciolirsi e rimpicciolirsi e rimpicciolirsi fino a diventare una specie di lillipuziano che lei schiacciava con la punta della scarpa. Al che lei si voltava, stringeva la mano a Serge Latouche e Michael Foucault, entrambi vestiti da paggetti, e se ne andava.»

«Allora mi prende in giro?» sbuffò il magistrato.

«Assolutamente!»

«Manganello, secondo lei mi sta prendendo in giro?».

Il commissario si arrotolò dietro l’orecchio un lembo di doppio mento: «Non saprei» disse. «Però l’agente scelto Sevizia lo farei venire lo stesso!»

«E cosa c’entra Persecuzio coi suoi amici Latorre e… Focollo?»

«Latouche e Foucault» lo corressi. «Ma niente… gliel’ho detto, la mente va per associazioni, connessioni, molto per i fatti suoi… Sa che Latouche è uno dei maggiori filosofi della decrescita?». Provai a cambiare discorso.

«Decrescita?… come Messi?1»

«Non proprio!» dissi scoraggiato. «La decrescita più che un difetto ormonale è un’economia che si limita a soddisfare i reali bisogni delle persone. E dell’anarchia dice che il suo obiettivo consiste nel condizionare le decisioni pubbliche, non nel prendere il potere. Fa l’esempio zapatista, un movimento politico e non elettivo…2 E Foucault, invece…». Mi fermai perché, sempre per quel discorso di associazioni, connessioni e così via, per un attimo desiderai esporre ai miei interlocutori la relazione fra le sue governamentalità miste e le teorie post-anarchiche di Todd May, Lewis Call, Saul Newman e tanti altri. Solo per un attimo. Quello dopo realizzai che non le avrebbero comprese neanche se avessi presentato delle mappe concettuali.

«Che è successo?» domandò il PM sorpreso dal mio improvviso incupimento.

Come se fossi stato catapultato davanti al Benefattore dello Stato Unico di Zamjatin3 e avessi dovuto spiegargli chi sono gli umani: «Vi ho detto che non condivido l’approccio collaborazionista del post-anarchismo?»

«No, eh? Sapesse noi!»

«Lo conosce?»

«Assolutamente. Ma già dal nome…!»

«Per farla breve: i pensatori post-anarchici sostengono che la società sia un reticolo di modelli che induce all’acquiescenza. L’unica possibilità di reagire al dominio è che l’azione del singolo crei una breccia di libertà che poi diventi principio condiviso che cambia il mondo.»

«E questa cosa non le piace?»

«Non è che non mi piace, trovo che insistere sulla suggestione dell’azione individuale che demolisce i muri sia alquanto retorica. I muri saltano in aria o si abbattono a picconate o franano da soli o, più sagacemente, si aggirano. Riconosco al post-anarchismo il merito di aver invalidato e abbandonato ogni fideismo nella legge morale per concentrarsi sul reale, cioè su condotte non dogmatiche ma funzionali a un determinato contesto: quello che Onfray chiama nominalismo4. Riconosco altresì che concetti come l’anarchia della quotidianità di Paul Goodman, gli atti di quotidiana resistenza di Scott, le rivoluzioni silenziose di Colin Ward offrono spunti interessanti alla coscienza e alla crescita del movimento anarchico. Dubito però, anzi sono certo, che la soluzione contro il dominio consista nello sviluppare monadi isolate prive di animus rivoluzionario.»

«Si appunti la parola monadi. Deve essere un termine in codice!» bisbigliò Pottutto a Manganello.

«Le monadi sono…». Lasciai perdere. «Quando leggo autori post anarchici, ho come la sensazione che abbiano interiorizzato l’irreversibilità. Il che, peraltro, è più che possibile dal momento che il capitalismo ha cristallizzato la cultura. Sperare che l’azione individuale cambi la realtà è illusorio quanto l’attesa del Gran Giorno. Senza considerare che la condotta isolata, anche quando parte da propositi meritori, spesso viene ingabbiata nel solipsismo, nella misantropia, nell’alienazione.»

«Non mi piacciono tutte queste parole straniere!» bisbigliò Manganello al PM.

«Gliel’ho detto maresciallo: sta parlando in codice per metterci alla prova.»

«Dice?»

«Dico, dico. Sorrida come se capisse!». Poi mi invitò a concludere.

«Concludendo, l’azione individuale è il punto di partenza, ma occorre superare il settarismo, riappropriarsi dell’umanesimo berneriano attraverso cui trasformare la consapevolezza di sé in condivisione sostanziale. Credo sia indispensabile tornare a parlare di umanità!».

Pottutto fece un’espressione da esticazzi!

Manganello scoppiò una risata tutta sputacchi e carne danzante.

«Forse è meglio se approfondisco l’argomento!»

«Anche no. Grazie!».

 

NOTE

1 – Lionel Messi, campione argentino da bambino affetto dalla Sindrome di Asperger, una malattia   ormonale che blocca la crescita.

2 – Serge Latouche, Stato e rivoluzione, in Aavv, L’anarchismo oggi un pensiero necessario, 2014.

3 – E. I. Zamjatin, Noi, Fanucci editore, 1921.

4 – Michel Onfray, Il post-anarchismo spiegato a mia nonna, edizioni Elèuthera, 2011.

Editing a cura di COstanza Ghezzi

Immagine: la Primavera di Botticelli 1480