IL SUICIDA E’ PADRONE DI SE’ MA NON E’ UN LIBERTARIO

La vita è la cosa più importante che abbiamo perché senza di essa mancherebbe il resto. Eppure rispetto coloro che si suicidano. Il loro gesto profuma di quell’intenso “vaffanculo” che solo un ribelle può gridare.

AL contrario disprezzo gli integralisti dell’esistenza ad ogni costo che lezzano di quell’artefatto tipico delle persone fragili e insicure, bisognose di omologarsi al gretto idealismo per trovare una propria identità. Si ergono sul trono e tronfi declamano il più classico dei luoghi comuni, la più banale delle falsità: “la vita è un dono!”

Ma quale dono! Siamo carne che nasce, muore e si ricrea nel ciclo continuo della vita. Siamo materia. Materia che evolve in materia, che perisce diventando altra materia. Adesso è corpo umano, poi sarà pianta, animale o roccia, comunque sempre involucro con cui la singola volontà si manifesta, muta, compie nella processualità naturale. “La verità di un essere è il suo stesso corpo” dice Michael Onfray1. Senza di esso gli abitanti del mondo non potrebbero definirsi e determinarsi, non potrebbero identificarsi nel divenire universale.

Ma se il corpo è mezzo della volontà in azione ed essa ne dispone a piacimento per realizzare la propria natura, ne consegue che può compierla fra gli infiniti modi consentiti dal creato. Compresa l’autodistruzione.

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Tale autonomia non piace a chi del prossimo ha bisogno per soddisfare il proprio interesse. E così sono nati gli artifici che ingabbiano la volontà. A partire dalle religioni, il più secolare strumento di usurpazione dell’io, che concepiscono la morte come un portale, anziché valutarla per quello che è: un comunissimo evento fisico. Con un dio, qualunque dio, proprietario e padrone della vita, all’individuo non rimane che maneggiarla con cura per non farlo arrabbiare. In quest’ottica è inevitabile che il suicidio diventi un affronto imperdonabile al suo dominio.

La Bibbia lo aborrisce perché “chi uccide se stesso uccide un uomo”2, cioè l’essere che Egli ha creato “a sua immagine e somiglianza”3. E quando domanderà conto “della vita dell’uomo all’uomo”4, sarà meglio che il suicida trovi una scusa credibile.

L’islamismo, il competitor monoteista più agguerrito, non è meno intransigente. Dice infatti il Profeta che Allah è colui che fa vivere o morire e guai a scalfirne l’autorità perché chi “si suicida strozzandosi continuerà a strozzarsi nel Fuoco dell’Inferno (per sempre) e chi si suicida pugnalandosi continuerà a pugnalarsi nel Fuoco dell’Inferno”5.

Laddove invece il senso di colpa non è un dogma, come avviene per gran parte dei sincretismi orientali, le persone hanno una visione più chiara della realtà e la consapevolezza di sé si scontra con i modelli innaturali imposti dalla contingenza creando un corto circuito. Ecco perché quando da quelle parti qualcuno dice “vado a fare due passi!”, i familiari lo fissano coi lucciconi non sapendo se tornerà o meno.

Comunque interpretate, studiate, proposte, le religioni sono una “catalessi mentale”, come dice Armand. Impediscono all’individuo di essere padrone di se stesso inducendolo all’obbedienza volontaria verso qualcosa di illusorio.

Per questo il disinibito uomo moderno le ha sostituite con teismi più pragmatici, capaci tuttavia di conseguenze assai più devastanti. Statolandia ci chiama cittadini, ma ci tratta da servi. La Scientocrazia ci battezza uomini, ma ci reclama cavie. La prima si impone in nome di un bene comune che realizza il tornaconto dei Grandi Affari. La seconda ci subordina al progresso. Progresso che è sempre profitto, profitto che ingrassa i Grandi affari. Sempre lì si torna! Entrambe non accettano che l’individuo disponga del proprio corpo, quindi della propria vita, come vuole: l’’una lo assoggetta alla sua autorità limitando la possibilità di dispone, l’altra ne riconosce il primato perché da morti non si può produrre e consumare.

Così il suicida diventa un povero disadattato affetto da terribili disturbi psichici o psicosociali che perde il senno, anziché accettare il sistema che gli viene imposto con serena rassegnazione o rampante entusiasmo. E mentre terapeuti, psicologi, psichiatri e altri si interrogano su come i media riescano a omologare meglio di loro, i sociologi solleticano la responsabilità collettiva asserendo che il desiderio di farla finita è causato dalla mancata integrazione nel gruppo di appartenenza6. In questo modo non solo viene impedito all’individuo di scegliere se vivere o morire, ma è costretto a sorbire il giudizio dei moralisti e l’invadenza degli intrepidi salvatori che, beffa nella beffa, diventano “eroi” perché non si sono fatti gli affari loro. In epoca di delatori è inevitabile che gli impiccioni vadano in Paradiso!

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Non sono interessato alle motivazioni che inducono al suicidio. Servono ai familiari e agli amici per non sentirsi in colpa. Prevenirle invece è il disperato tentativo di chi non accetta la possibilità che qualcuno si sottragga al suo controllo.

Il dolore fisico, il disagio sociale, le patologie psichiche, gli eventi nefasti, le esperienze traumatiche e quant’altro sono tutte scuse dietro cui si cela la vera causa: l’assenza di speranza nel futuro che certifica la natura mortale. L’uomo teme la fine più di ogni altra cosa e la esorcizza ideando soluzioni consolatorie e di facile consumo.

Quando Tomas Shelby va a trovare l’amico Barney in manicomio gli chiede: “Tu sei sepolto qui, con la camicia di forza e non vedi la luce del sole, non vuoi morire, cazzo?” Questi risponde: “No, non voglio. Perché le cose potrebbero cambiare!”7.

Alla morte il detenuto oppone la speranza. Ma la speranza è uno slancio emozionale che proietta il sé in una suggestione, l’eventualità favorevole idealizzata, subordinando l’empirico all’immaginifico, il reale all’illusione, irragionevole e arbitraria per definizione. Detta diversamente, è un atto di fede. Una dissonanza cognitiva che il suicida, esattamente come il libertario, non può accettare. Lo spirito di entrambi è, infatti, completamente immerso nella realtà. Disprezzano i vagheggiamenti e ne irridono i praticanti. Per loro vale quello che dice il saggio: “ieri è storia, domani è mistero, ma oggi è un dono. Per questo si chiama presente”8. Con la peculiarità che, invece di prendere il dono, si donano.

Esattamente come il libertario, chi si toglie la vita possiede, consapevolmente o meno, la profonda percezione di essere atomo imprigionato nella roccia che, una volta liberato dalla radice di quercia, viene “gettato nel mondo delle creature viventi” e “aiuta a costruire un fiore, che diventa una ghianda, che ingrassa un cervo, che nutre un indiano”9, in un ciclo continuo inesorabile, ma esaltante. Esattamente come il libertario si fa beffe dei pregiudizi, delle imposizioni, dei personalismi per tornare al tutto.

Si fa beffe della legge. Benché, suppongo a malincuore, lo Stato non consideri più il suicidio un illecito, il suicida trasgredisce la regola che lo vuole sottomesso alla sua autorità onnipotente.

Si fa beffe della morale. Sia di quella religiosa, solo dopo il Concilio Vaticano II del 1962 la Chiesa ha consentito le esequie per chi si uccide, sia di quella sociale, che impone l’uniformazione e si concreta nella riprovazione con cui viene giudicato il divergente.

Si fa pure beffa degli affetti. Perché non esiste che uno passeggi per strada e improvvisamente dica: “sai che faccio, mi butto dal ponte!” e poi si butta davvero. Infiniti sono i segnali lanciati e non colti da coloro che, dopo la sua scelta, convivranno col senso di colpa. E ipocrite sono le obiezioni deresponsabilizzanti tipo quella per cui il suicidio è una forma di egoismo perché l’autore ignora i sentimenti dei cari e le conseguenze causate dalla sua morte, oppure quella che ciascuno deve essere portatore di valori positivi in quanto esempio per il prossimo.

La prima costringe a vivere per colmare le mancanze di chi non è riuscito a compensarle personalmente. Non mi sembra molto altruistico!

La seconda eticizzando la “guida” che l’interdetto, cioè l’individuo che si ritiene non sappia pensare e agire, deve imitare, replica in salsa laica del dio incarnatosi in Cristo “lasciandoci un esempio, affinché seguiate le sue orme”10. Suggestione talmente perversa che, guarda caso, viene impiegata ogni volta in cui bisogna sottomettere senza perdere tempo in azioni violente.

Entrambe ignorano non solo che la morte è un evento certo e imprevedibile con cui prima o poi bisogna aver a che fare e che non è l’antitesi della vita ma una sua dinamica ma, soprattutto, che quando il bene e il male sono trasmessi o imposti anziché ispirati da ciò che si è diventano prigioni della volontà. Chiunque deve essere libero di cercare la propria strada. Anche di perdersi. E se poi alla fine del lungo e periglioso cammino si ritrova davanti all’infinito, sarà il suo istinto, magari corroborato da qualche buon consiglio, a decidere da che parte andare.

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Chi si toglie la vita rompe con l’ordine esistente perché è padrone di se stesso. La sua volontà è pura, proprio come quella del libertario. E proprio come per il libertario essa trova nel ritorno alla natura il perfezionamento.

Con una differenza sostanziale, però. Per il primo, il processo non si compie attraverso l’identificazione con le molteplicità. Concepisce l’esistenza non come via per l’unione ma come oppressione da cui liberarsi. Nel momento in cui la volontà si reprime interferisce sul divenire. Crea una disarmonia. Anticipando i tempi dell’inevitabile, impedisce la partecipazione cosciente alla processualità naturale che può compiersi solo in vita. La sua è pertanto una scelta passiva dettata dal bisogno di evitamento che sorge dopo aver ignorato, rinunciato o, addirittura, fallito il tentativo di unirsi ad essa. Perché non basta desiderare l’estasi, perché le distrazioni ne ostacolano il compimento, perché determinarsi lasciandosi andare richiede comunque un’elevata e possente dose di audacia. E intuire la pienezza dell’amore senza riuscire a viverla è lacerante.

Il suicida è quindi un anarchico che non ce l’ha fatta.

Ẻ l’uccellino fuori dalla gabbia che non riesce a volare. Indietro non torna e davanti ha il pavimento. Ma sa che non sarà mai tanto libero come nel momento in cui perderà contatto con la superficie.

NOTE

1-Michael Onfray, La politica del ribelle, 2008.

2- Sant’Agostino, De Civitate Dei, 1,20.

3- Genesi 1,26, 27.

4- “dal sangue vostro anzi, ossia della vostra vita, io domanderò conto; ne domanderò conto ad ogni essere vivente e domanderò conto della vita dell’uomo all’uomo, a ognuno di suo fratello” (Genesi 9,5).

5- Sahih Al Bukhar 1365, libro 23, Hadith 117.

6- Emile Durkheim, Il suicidio, 1897.

7- Peaky Blinders, serie televisiva.

8- Frase del Maestro Oogway in “Kung Fu Panda”, film di animazione, 2008.

9- Aldo Leopold, Pensare come una montagna, Piano B editore, 1949.

10- Bibbia, 1Pietro 2:21.

Immagine: Repin, Ivan Il Terribile e suo figlio, 1581