“Resoconto Napadema” di Giuseppe Aiello

Pubblico il “Resoconto Napadema dell’amico Giuseppe Aiello, autore, fra gli altri dell’illuminante “Taoismo e anarchia”.

In foto il suo prossimo evento a Firenze:

 

“Non abbiamo paura delle macerie – NAPADEMA 17-19 marzo 2023
Parecchie cose cambiano in cinque anni e tanti ne sono passati rispetto all’ultima
organizzazione di “Non Abbiamo PAura DElle Macerie” – di qui in avanti Napadema –
così che il mondo quasi stenta a riconoscersi. Era questa un’iniziativa che ideammo (il
plurale non sta a indicare un collettivo, un gruppo o una comitiva, ma persone che
liberamente si accordavano senza necessità di strutturazione né di patti associativi) in
nome di una semplice constatazione: di fronte alla relativa imprevedibilità degli eventi che
portano periodicamente al bilico o al crollo delle strutture portanti delle società umane
l’unico modo che chi si propone un futuro di libera e pacifca convivenza ha, per provare
ad attrezzarsi, è quello di entrare in relazione con il saper fare, a tutto campo. A meno di
non credere nei partiti o in illuminate istituzioni, nel qual caso si può anche aderire con
fede e senza soverchie capacità critiche, caso che però non è il nostro. L’idea di separare la
distruzione dell’esistente da una pars construens rimandata a un futuro più o meno
remoto è macchinosa e poco realistica, visto che l’insofferenza concreta verso l’autorità e le
infnite coercizioni che il Dominio esercita sugli individui poco può se non si adopera al
tempo stesso alla realizzazione di una consapevolezza: bisogna avere i mezzi per
conquistarsi una libertà che così poco vale e niente dura quando è concessa dall’alto.
Primo passo: saper fare. Cosa? Qualunque cosa reputiamo vada nella direzione giusta,
nella massima corrispondenza tra fni e mezzi. Comuni, falegnamerie, cucine, case editrici,
non ha in fondo grande importanza dove va a concentrarsi il nostro intento, ma il metodo,
o più semplicemente – se la parola vi sembra opprimente – la ricerca di un percorso. Che
non è, meglio ribadire a scanso di equivoci, un ambito separato e neppure distinguibile da
quello della distruzione dell’esistente, e la soluzione non consiste nell’approntare prima
una squadra demolizioni per la società disciplinare e dopo un contesto in cui sia
fnalmente possibile edifcare qualcosa di decente; ma neppure il contrario, dove ci si può
convincere che disseminare il pianeta di esperienze libertarie sia non solo necessario ma
anche suffciente all’auspicato ribaltamento: la scissione dei due momenti è una scorciatoia
teorico-pratica umanamente comprensibile, magari utile per difendersi dal senso di
impotenza che a tratti ci assedia, ma di brevissimo respiro.
Era – è – essenziale ripartire dopo questi anni in cui ogni pensiero di autodeterminazione è
diventato un malinconica barzelletta al cospetto della suprema autorità dello scientismo
totalitario al quale si sono entusiasticamente piegati numerosi e insospettabili evangelisti
dell’anarchismo dopolavoristico che in nome della disciplina distanziatrice si sono trovati
a dare man forte alle direttive recepite ed emesse dal livello mediano della gerarchia
planetaria – Organizzazione mondiale della sanità, multinazionali farmaceutiche, potere
politico, gente così. C’è chi oggi dice che dovremmo passare oltre, dimenticare gli appelli a
chiudersi in casa mentre le macchine delle forze dell’ordine pattugliavano il territorio,
scordarci degli invasati della vaccinazione totale e della stigmatizzazione di ogni libera
scelta; degli zelanti che da una parte inseguivano i poveri – sperando che avessero fame
così da passare, portandogli una pillola di elemosina, per paladini dell’umanitarismo – e
dall’altra chiudevano due occhi sullo spaventoso dilagare dei danni da farmaci e sul
consolidarsi di una strategia a lungo termine della quale Pftzer e compagnia costituiscono
un pezzetto mica male. Dovremmo dunque tacere degli apologeti della carcerazione
planetaria, arresti domiciliari remunerati: tumichiudi tumipaghi?
Il Sistema ha vinto su tutta la linea, eppure gli scettici della narrazione psicopandemica
uniformata non sono scomparsi.
A qualcuno piace partire da lunghe e complesse trattazioni che affrontino presupposti,
analisi e dettagli, qui il suggerimento è chiedere conforto, in nome della sintesi, a uno che
di dotte disquisizioni poco si intendeva, ma di rivoluzioni sì:
Siamo noi lavoratori che facciamo funzionare le macchine nelle industrie, che estraiamo il carbone e
i minerali dalle miniere, che costruiamo le citta… Le macerie non ci fanno paura. Sappiamo che non
erediteremo che rovine, perche la borghesia cerchera di buttare giu il mondo nell’ultima fase della
sua storia. Ma, le ripeto, a noi non fanno paura le macerie, perche portiamo un mondo nuovo nei
nostri cuori. Questo mondo sta crescendo in questo istante…
Buenaventura Durruti, 1936
L’intento non era quello di un convegno, e convegno non è stato. Abbiamo chiesto a chi
veniva da fuori e a chi invece vive e opera a Napoli di raccontarci come vanno le cose.
Sono stati presenti progetti che hanno una lunga esperienza come le edizioni La Fiaccola,
che hanno più di mezzo secolo, e Urupìa che si avvia a compiere trent’anni di vita
comunitaria in alto Salento; gruppi costituitisi in tempi abbastanza recenti come la
Falegnameria Autonoma Libertaria, che per la prima volta si è espressa pubblicamente
sulle sue pratiche correnti e intenzioni future, e chi, come Usciamo dagli sche®mi, sentì tre
anni fa l’urgenza di un segno esplicito e plateale quando le strade erano vuote e i bambini
carcerati in casa dietro ai monitor.
La ricetta per ricostruire le comunità polverizzate dal rullo compressore degli apparati
tecnoindustriali non ce l’abbiamo, ma qualcosa da mettere in campo pare di sì.
***
Santa Fede Liberata è un antico edifcio che si trova nel cuore del centro storico di Napoli,
a un passo dalle nobili piazze sulle quali si distende Spaccanapoli, un tempo farraginosa
arteria del traffco centrocittadino e oggi condotta forzata in cui la fumana turistica
esercita la sua potenza omogeneizzatrice, qui come ovunque fuisca. Era il luogo migliore
dove organizzare Napadema, forse l’unico possibile. I secoli l’hanno un po’ usurata e porta
feramente i segni del tempo: per ristrutturarla completamente ci vorrebbero diversi
milioni di euro, ma non sembra questo un evento che sarà attuato a breve termine.
Decidiamo che l’intervento inaugurale, quello che il venerdì pomeriggio dà l’avvio
all’incontro, sarà destinato alla spiegazione del sentiero sinora seguito da Santa Fede
(qualcosa potete trovare in Quale deserto fegato, pubblicato da La Fiaccola tre anni fa) che da
un’occupazione simbolica da parte di un comitato radicato nel quartiere ha attraversato
fasi variegate che hanno condotto a una parziale separazione dagli altri cosiddetti “beni
comuni” napoletani e – lo scrivo senza voler attribuire etichette di alcun genere – ad
ospitare negli ultimi anni numerose iniziative di impronta libertaria che hanno diffcoltà a
trovare spazio altrove. Napadema rappresentava anche la volontà di richiamare l’attacco
disciplinare subito nel 2020-21, e il racconto per immagini e voce del periodo in cui
sfolgoravano le prestazioni del governatore campano a base di minacce di esser bruciati
con i lanciafamme, da parte di un gruppo composto in gran parte da donne (molte di loro
insegnanti e/o mamme) che scelse di chiamarsi Usciamo dagli sche®mi. Ci hanno restituito
la consapevolezza di una delle armi più importanti che abbiamo nei confronti del Sistema,
ovvero il saper dire no, facendolo – quando si può – attraverso l’ironia, la consapevolezza e
il gioco. Viste malissimo dal gregge restiamoacasa/tsopertutti, ci hanno raccontato con
garbo e senza melodrammi delle loro iniziative nel deserto urbano e del grande e
imprevisto impatto mediatico ottenuto («i giornalisti ci telefonavano per sapere cosa
avremmo fatto nei giorni a venire!»). Da quel gruppo, che decise a un certo punto di
dissolversi nel cosmo, sono nate diverse altre entità sparse, ad esempio la Jamm’ Band che
ha splendidamente suonato per noi la sera di venerdì.
Il sabato mattina ci siamo invece inoltrati nel settore dell’indissolubile rivoluzionario
amore tra materiale e immateriale, discorrendo di legno prima e di cibo poi. La
Falegnameria Autonoma Libertaria è una cooperativa di fondazione relativamente recente
che si è insediata in una bottega storica del centro con persone che cercano di concretizzare
quanto afferma la ragione sociale scelta attraverso la condivisione delle decisioni e del
lavoro. Parlando del rispetto del tempo proprio e altrui, della relazione con chi arriva per
riparare qualcosa (la psiche non è esclusa) e della semplice ed effciente organizzazione
interna i falegnami hanno fatto serpeggiare la malcelata invidia di chi impiega la propria
giornata in lavori più drasticamente concettuali. Più delicata è l’impresa nella quale si
cimentano da alcuni anni cuciniere e cucinieri di Cucina Clandestina che si ostinano a
diffondere una pratica che concili qualità dei prodotti e arte culinaria anche in luoghi dove
storicamente ciò che si mangia pare essere l’ultimissimo problema (e com’è? Prima la
sovversione e dopo l’alimentazione?). Se Napadema è andata bene è stato in grandissima
parte grazie alle due cucine (alla Cucina Clandestina si è infatti associata la Cucina
dell’Amore) che ci hanno sfamato e di Urupìa che ci ha dissetato con il suo vino.
Sabato pomeriggio ci siamo dedicati innanzitutto all’editoria autogestita, con Malamente,
una delle piccole case editrici libertarie più attive negli ultimi anni, che pubblica dal 2015
una rivista arrivata al trentesimo numero, «Perché l’incertezza e la crisi di questi tempi
sono anche possibilità che si aprono, vecchie certezze che crollano». Visto che avevamo
deciso di dedicarci al centro sud la partecipazione marchigiana è stata il tocco
settentrionale (vabbeh’) all’iniziativa. Il fatto che non nasca in ambito metropolitano è una
buona indicazione per ribadire quanto dovrebbe essere ormai chiaro da due decadi
almeno: visto che centro non c’è, ogni luogo è adatto per cominciare a tirarsi su le maniche.
La massima suspense si è raggiunta con l’intervento di Marco Piracci, unico invitato
“singolo” in quanto autore di Cyborg (sempre La Fiaccola a pubblicarlo) per la particolare
attualità degli argomenti di cui tratta. Con il suo intervento che ha descritto con spietata
gentilezza il binario imboccato dall’ideologia transumanista, perfettamente consona agli
sviluppi della società digitalizzata, paradiso del controllo incessante sugli individui, con
risultati che vanno oltre l’immaginazione della maggior parte di noi.
Il resto della serata è stato dedicato invece a chi è venuto dalla Sicilia sia a illustrarci la
lunga storia di Sicilia Libertaria e La Fiaccola (Ragusa), sia rivolgendosi alla microeditoria
d’urgenza come Scirocco (Madonie), nata dall’impellenza di dire la propria nei momenti
più bui della coazione distanziatrice. L’invito includeva la specifca richiesta di un
sommario inquadramento sulle condizioni di vita in un’isola che ha la sorte – malasorte,
potremmo dire – di star piazzata al centro di uno dei luoghi strategicamente cruciali per il
potere militare-politico planetario (sì, lo so che qualcuno vorrebbe ch’io scriva
“capitalismo”, ma rassegnatevi: per il Sistema il capitalismo, ammesso che esista, non è né
motore né carrozzeria, e manco pneumatici: al massimo fa da specchietto retrovisore per le
allodole). Si è parlato di basi militari che infestano il nostro sud e di MUOS, con diversi
approcci per provare a contrastarlo, e con modalità che possono anche causare episodi di
scarsa sintonia; ma tant’è, se volevamo l’assoluto accordo facevamo un partito marxista,
non certo un’adunata di insofferenti alla servitù volontaria.
Abbiamo chiuso (al sole, che è stato sempre dalla nostra parte senza esitazione alcuna per
tutti e tre i giorni) con Panchovilla in Sabina, una realtà abbastanza giovane formata da
persone che si dedica alla campagna – perché «Con la fne della metropoli c’è bisogno di
concepire un altrove» – senza rinunciare alla città (Roma-Pigneto), anzi attivandosi per
intense e profcue sinergie, e con la comune Urupia, che invece la terra l’ha scelta
integralmente da quasi sei lustri. Eppure mai uscita dalla fase sperimentale, cosa che la fa
mantenere giovane e vitale: chi c’è stato dieci o venti anni fa e volesse tornarci troverà lo
stesso posto (modifcato), alcune delle stesse persone (un po’ cambiate, manco tanto), altre
comunarde che prima non c’erano e un’aria diversa. Migliore? Peggiore? Potrei dire più
aperta e forse meno visionaria e sognatrice; in ogni caso tutto fuorché un posto che «dopo
tanti anni ancora resiste», come spesso ho sentito dire, ma che continua a sperimentare e a
reinventarsi.
Non voleva, dicevamo, essere un convegno e non lo è stato, e neppure una rassicurante
rassegna per gli amanti della libertà ormai orfani di tutto. Casomai un principio di messa a
punto per cominciare a capire dove metter mano per l’avvenire.
In margine, vanno ringraziati i sostenitori del nazionalismo ucraino, quelli
dell’imperialismo russo e gli esponenti della lega scientista “in Pftzer we trust” per averci
fatto la grazia di non manifestarsi in alcun modo. Possiamo ben sperare che in qualche
modo la nostra minuscola opera di ricostruzione sia ricominciata. Pazientissimamente e
festina lente perché, come disse quel meccanico di León tanti anni fa, ancora non abbiamo
paura delle macerie.
Giuseppe Aiello, aprile 2023″

12- L’anarchia non è un partito e non vuole governare

Il pubblico ministero guardò gli appunti sul libretto.

«Mi sono perso» disse. «Com’è che siamo passati a parlare della legge?»

«Mi aveva domandato quale fosse la nostra idea di giustizia e ho escluso che sia la legge e Dio.»

«Allora, vediamo di concludere!»

«Subito!» dissi. «Noi anarchici siamo convinti che qualunque condotta sia giusta se realizza la volontà personale in armonia con la volontà degli altri. Per questo vogliamo una società libera, egualitaria, orizzontale, in cui non sia possibile il dominio dell’uomo sull’uomo, della società sull’uomo, delle istituzioni sull’uomo.»

«E che c’entra lo Stato?»

«C’entra per due motivi: in primo luogo perché rappresenta la sublimazione della coercizione arbitraria. In secondo luogo, perché è la longa mano del Potere, cioè il mezzo attraverso il quale esso definisce e impone regole di condotta e convoglia la volontà collettiva in maniera da soddisfare gli interessi propri e di chi lo sostiene.»

«Quindi vorreste una società senza Stato per colpa di due leggiucole?» chiese Pottutto col tono di un vecchio amico. «Che esagerazione! Se il sistema non vi piace, create un partito e governate!»

«Ma chi, noi?»

«Di voi stiamo parlando!» disse Pottutto.

«Proprio di voi stiamo parlando!» gli fece eco il maresciallo. «Perché non governate se siete tanto bravi?».

Il PM lo guardò irritato: «lasci perdere le provocazioni maresciallo, che quando ci avete provato è sempre andata a schifio!»

«Non vorrei sembrare presuntuoso, ma l’anarchia non ha mai detto che vuole governare!» dissi.

«Ah, no? E che vuol fare, casino e basta?»

«Fate casino e basta, eh!» ripeté Manganello.

«Non siamo e non saremo mai un partito e non vogliamo o vorremo governare. Ho appena detto che ambiamo a una società senza dominio e lei mi invita a creare il nostro?».

Pottutto si incassò nelle spalle: «Potreste fare come quelli… come si chiamano quelli che anni fa volevano difendere le balene? Mi aiuti, Manganello!»

«Non so, dottore. Ho un po’ di confusione in testa!». Il doppio mento del maresciallo vibrò minacciosamente. «Balene, balene, balene…» ripeté. «Per caso voleva dire Pinocchio?»

«Che c’entra Pinocchio?»

«Quand’è stato mangiato dalla balena!»

«Gli ecologisti?» lo aiutai.

«Gli ecologisti, esatto!». Il PM batté le mani. «Se ne venivano fuori ora con le balene, ora gli orsi polari, ora con il nucleare… che poi, quante volte sarà scoppiato Chernobyl?». Allargò le braccia. «Dopo di che sono diventati un partito e…»

«E che fine hanno fatto?» chiesi. «Louise Michel affermava che: “Al potere gli uomini possono solo commettere delitti su delitti, senza distinzione di colore: basta che siano deboli ed egoisti. E anche se fossero devoti e forti, finirebbero comunque schiacciati”1. Questa è l’inevitabile realtà. Anche le persone più pure e idealiste, una volta entrate nei ranghi, vengono annientate!»

«È tutto un magna-magna!»

«E voi magnate?». Osservai prima l’uno poi l’altro. «Magnate, magnate!». Sorrisi. «Tolstoj rincarava la dose: chi si “unisce ai ranghi del governo” alla fine “diventa uno strumento nelle sue mani”.2»

«Il vecchio barbuto Tolstoj!». Pottutto sospirò ispirato.

«Ha letto i suoi libri?»

«Ci mancherebbe! Però ricordo la foto nel sussidiario… O era Socrate? O Marx? Sono tutti barbuti quei fanatici!».

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«Noi anarchici siamo contro i partiti e siamo contro ogni forma di governo. I partiti sono associazioni verticistiche di potere, dotati di organizzazione rigida e gerarchica. Di fatto l’antitesi della spontaneità di cui ci nutriamo. Quanto al governo, non avrebbe senso guidare il popolo dal momento che siamo i primi a non voler essere governati. Le persone non hanno bisogno di tutori, di custodi, di garanti, di responsabili, di politici che dicano cosa fare o, peggio ancora, che agiscano al posto loro. Sarebbe una contraddizione rispetto all’etica dell’autonomia. Se cedessimo alle tentazioni commetteremmo lo stesso errore di Andrea Costa, quando nel 1882 abbandonò l’Internazionalismo facendosi eleggere nel collegio di Ravenna. Voleva fare il riformista, mentre per molti fu solo un traditore.»

«Colgo dell’astio nelle sue parole!» rilevò il PM.

«Ma no!» mi difesi. «Forse!» cedetti. «Che non si confonda, però, la nostra avversione alle istituzioni col rifiuto aprioristico della politica. Aborriamo coloro che “cadono fatalmente al di sotto del livello generale”, credendosi “essi stessi superiori alla gente comune”, come Reclus definiva i galantuomini al governo, ma non la gestione della cosa pubblica. Essa è vitale e in quanto tale desiderabile. La concepiamo, però, non come un’imposizione verticistica, bensì come naturale sviluppo di relazioni attraverso cui ogni individuo partecipa personalmente e consapevolmente alla condivisione del bene comune. Oggi la politica “è il governo dello Stato”, diceva Bookchin…»

«Chi?»

«Buk-chin!» sillabai.

«È cinese?» domandò Manganello.

«Americano!» precisai.

«Ma di origine cinese?» insistette.

«Per il filosofo il governo “è professionismo” e “monopolio del potere da parte dei ricchi, non potere dei molti”. Dice anche che i politici, pur giurando di agire nell’interesse del popolo, “sono e diventano eletti formando in tal senso una precisa élite gerarchica” che “vuole obbedienza, non impegno”». Indicai la pila di fogli. «Lo trovate nelle pagine in cui spiego la sua teoria del municipalismo libertario e dell’ecologia sociale. Descrive esattamente il governo contro cui lottiamo. Perché, e riprendo ancora le sue parole, il senso di responsabilità verso la comunità nasce “da un’educazione politica formatasi nel corso di una partecipazione, non di un’obbedienza istituzionalizzata”3. Auspichiamo, infatti, un coinvolgimento diretto, orizzontale, che parta dal basso. Sbaglia chi ci definisce apolitici. Siamo antipolitici, ma nel senso che lottiamo contro la politica del dominio, della plutocrazia, della soggezione e dello sfruttamento. Perché una società funziona se edificata conoscendo il terreno, scavando solide fondamenta, con mura compatte e un tetto resistente alle intemperie. E soprattutto, se chi vi abiterà partecipa alla costruzione con entusiasmo. Immaginate che meraviglia sarebbe una casa costruita con le nostre mani, in cui lei, pubblico ministero…»

«Chi io?»

«Sì, lei!». Sorrisi. «In cui lei è orgoglioso del parquet che ha posto con tanta perizia». Guardai Manganello: «E lei maresciallo, non si commuove a pensare a quella mensola che ha messo con tanto amore?».

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«E se per gli anarchici è inconcepibile un partito, figuriamoci governare un popolo!»

«Suvvia, non faccia l’ipocrita. A chi non piace il potere? Lusso, donne, soldi, droga… soprattutto droga!»

«Non so di cosa parla!».

Il pubblico ministero guardò il maresciallo che, capito fosse arrivato il suo momento, puntò il dito: «E quegli otto chili di pasticche che abbiamo trovato nel bagagliaio della sua auto?»

«Che esagerazione!». Senza scompormi. «Non ho mai fumato neanche una canna. Ce l’ha messe lei?».

Si contrasse come un riccio: «Non ancora!» bisbigliò.

«L’obiettivo dell’anarchia non sarà mai la presa del potere. Governare significa dirigere l’andamento politico ed economico di uno Stato. Il che è impossibile visto che ne vogliamo la dissoluzione. Dice Errico Malatesta: “Per comprendere come una società possa vivere senza governo, basta osservare un po’ a fondo nella stessa società attuale, e si vedrà che in realtà la più gran parte, la parte essenziale della vita sociale, si compie anche oggi al di fuori dell’intervento governativo, e come il governo non interviene che per sfruttare le masse, per difendere i privilegiati, e per il resto viene a sanzionare, ben inutilmente, tutto quello che s’è fatto senza di lui e, spesso malgrado e contro di lui”. Poi prosegue con argomentazioni sempre dello stesso tenore e conclude…», girai la pagina, «”Sono appunto quelle cose in cui il governo non ha ingerenza, che camminano meglio e si accomodano, per volontà di tutti, in modo che tutti ci trovino utile e piacere”4». Restituii il foglio. «È più chiaro adesso cosa intendo quando dico che l’anarchia rifiuta il governo perché lo considera inutile?».

Pottutto fermò Manganello: «Lasci perdere, maresciallo. È sicuramente una domanda a trabocchetto!»

«Noi anarchici non vogliamo governare, né essere governati. Non vogliamo governare perché l’essere umano, possiede una dimensione etica naturale che gli consente di decidere personalmente cosa è giusto e cosa è sbagliato. Per fare ciò, però, occorre eliminare gli ostacoli artificiali che gli impediscono di essere libero: economia, Stato, religione, morale, tradizioni e così via. E il solo modo per conseguire questo obiettivo è creare un sistema di valori fondato sul piacere della condivisione attraverso il quale giungere al bene di tutti.»

«Essere governati?» mi sollecitò Pottutto.

«Rispondo nell’unico modo possibile e cioè citando Proudhon: “Essere governato significa essere guardato a vista, ispezionato, spiato, diretto, legiferato, regolamentato, incasellato, catechizzato, controllato, stimato, valutato, censurato, comandato, da parte di esseri che non hanno né il titolo, né la scienza, né la virtù. Essere governato vuol dire essere, a ogni azione, a ogni transazione, a ogni movimento, quotato, riformato, raddrizzato, corretto, tassato, addestrato, taglieggiato, sfruttato, monopolizzato, concusso, spremuto, mistificato, derubato”5».

Non mi aspettavo che Pottutto esclamasse un mamma mia! così tormentato. «Ha descritto esattamente il mio rapporto col dottor Persecuzio!».

Al solo udire quel nome Manganello sbiancò. Per la prima volta la segretaria si girò di un ventidue gradi. La Sfinge sulla porta ebbe un leggero tremolio della palpebra.

«Sarebbe?»

«Il procuratore capo!» bisbigliò a testa bassa.

Sogghignai immaginando che gli gridava: “Chiunque osi mettermi le mani addosso è un usurpatore o un tiranno e io lo proclamo mio nemico”6 e balbettava «E lei… e lei è… e lei è il mio…». Senza riuscire a concludere la frase.

«Perché ridacchia?»

«No, non ridacchio!»

«Ma certo che ridacchia. Vero Manganello che ridacchia?»

«Casomai ridacchiavo!» precisai. «Perché ora non sto ridacchiando!»

«Chiamo l’agente scelto Sevizia per farlo smettere di ridacchiare?» proferì il maresciallo condiscendente.

«Suvvia Manganello, un ridacchiamento non ha mai fatto male a nessuno!». Poi guardò me: «Ma se lo rifà…».

NOTE

1 – Louise Michel, Presa di possesso, 1890.

2 – Lev Tolstoj, Il rifiuto di obbedire, raccolta di riflessioni, 2019.

3 – Murrai Bookchin, Democrazia diretta, 2001.

4 – Errico Malatesta, L’Anarchia, 1891.

5 – Pierre Josepf Proudhon, L’idea Generale di Rivoluzione nel XIX secolo, Edizioni Centro Editoriale Toscano.

6 – Massima di P. J. Proudhon.

 

Editing a cura di Costanza Ghezzi: www.costanzaghezzi.com, costanzaghezzi@gmail.com

Immagine: Otto Dix, Trittico della guerra, 1928

 

 

 

11- La giustizia non è la legge

«Dico solo che per dare un senso alle cose non c’è bisogno di inventarsi chissà che. Come non è necessario Dio, non occorre una legge per stabilire cosa è bene cosa è male.»

«Ah, no?» Pottutto esclamò.

«Eh, no!». Ne imitai il tono. «Tanto perché la legge è emanazione dello Stato, “l’equivalente laico della Chiesa” come lo definiva Bakunin, il cui fondamento contrattualistico ha la stessa valenza di una Madonna che piange. In secondo luogo perché la legge definisce dall’esterno le condotte degli individui». Recuperai la loro attenzione con una pausa. «La legge, statale o morale che sia, non produce mai vera libertà. Quando la nostra condotta è ingabbiata nelle regole, si ha solo subordinazione a una volontà esterna. Con la legge, infatti, io non scelgo, sono libero solamente di obbedire a essa, direbbe Stirner. Se vuole…». Indicai la pila di fogli.

Pottutto cercò l’articolo con fare scocciato.

Lessi: «”Lo Stato restringe la libertà dei singoli solo per assicurare loro la parte restante. Ma ciò che resta può essere sicurezza, non è mai libertà”, perché, “la libertà è indivisibile; non si può toglierne una parte senza ucciderla tutta. Questa piccola parte che si toglie è l’essenza fondamentale della mia libertà”1.» Non li vidi convinti: «tutto chiaro?»

«Preso appunti, Manganello?». Il pubblico ministero colse in fallo il maresciallo a cui si era rotta la punta del lapis.

«Solo se incondizionatamente libero, ossia non determinato dai preconcetti, dalle superstizioni, dai dogmi, l’individuo può sviluppare una propria, esclusiva coscienza di sé, cioè una personalità, ed essere nel mondo, non essere del mondo. A quel punto potrà determinarsi come, uso le parole di Proudhon, “autocrate di se stesso”. Al contrario, senza consapevolezza non c’è personalità, quindi niente autonomia. E senza autonomia addio etica. Quando Stirner diceva che “La libertà deve essere totale, un pezzetto di libertà non è libertà” è perché aveva capito che la libertà è la condizione necessaria per il compimento della volontà, senza la quale ci scordiamo l’autodeterminazione».

Il pubblico ministero mi guardò storto.

«Perché mi fissa in quel modo?»

«Secondo me sta dicendo un sacco di fregnacce per nascondere la verità!»

Un «Cioè?» grosso come una casa penzolò dalle mie labbra.

«E cioè che volete fare quello che vi pare!»

«Dice? Se mi permette, faccio l’esempio della Scuola di Little Commonwealth fondata da Homer Lane.»

«Conosciamo questo Homer Lane?». Il magistrato domandò a Manganello che, in fretta e furia, sfogliò le prime due pagine di un blocchetto su cui erano appuntati alcuni nomi: «Non c’è!» gli rispose.

«Allora segni!» ordinò il primo.

«È morto anche lui!» dissi.

Ci rimasero molto male.

«Little Commonwealth era un esempio di scuola comunitaria autogestita che accoglieva giovani disadattati, in gran parte poveri o delinquenti. All’interno della struttura essi erano liberi di fare quello che volevano, compreso sfogare la spontaneità ribelle. Lane, invece di rimproverarli o punirli, li lasciava fare o partecipava al gioco. In quel modo lo scontro perdeva di significato e i ragazzi non solo si calmavano, ma cominciavano ad autoregolamentarsi.2»

Feci una pausa impressionato dalle loro espressioni da cernie nel congelatore. «Questa esperienza di educazione libertaria ci insegna due cose: la prima è che è possibile passare dalla legge del più forte all’auto-responsabilità. La seconda è che qualunque gruppo sociale, anche se costituito da “rifiuti della società”, può creare spontaneamente e armonicamente una comunità fondata sulla condivisione delle regole senza bisogno di imposizioni dall’alto. Da ciò consegue un’altra sacrosanta verità, ovverosia che le leggi servono solo a chi le fa, per perpetuare i propri privilegi.»

«Non può convincere un uomo di legge che la legge sia inutile!» esclamò Pottutto con sufficienza.

«Quindi, fosse un uomo d’agricoltura, ci riuscirei?» lo sferzai. «Se volete, possiamo leggere un altro estratto. Stavolta di Kropotkin.»

«Ancora questo Kropotkin?»

«Ha una prosa sublime!»

Il magistrato lesse: «“L’anarchia non è sinonimo di caos, ma corrisponde a una situazione armoniosa risultante dall’abolizione dello Stato e di tutte le forme di dominio e di sfruttamento dell’uomo. Si fonda sull’eguaglianza degli individui, la libera associazione, la federazione, l’autogestione e talvolta il collettivismo. L’anarchia, dunque, è strutturata e organizzata senza che vi sia una qualsiasi preminenza dell’organizzazione sull’individuo…”». S’interruppe un attimo. «Scommetto tre giorni senza rancio che vi siete messi d’accordo!»

«Emma Goldman invece aggiungeva che lo Stato “crea ordine con la sottomissione e lo conserva grazie al terrore”3».

«Ma io mica la sto terrorizzando?» il pubblico ministero s’inalberò.

«No, ma le piacerebbe!»

Lo ammise con una fugace oscillazione di quell’orribile capoccia a forma di pera.

++++

«Quasi quasi leggerei anche Malatesta. Che ne dite?»

Silenzio polare.

Poi il PM cercò la pagina: «”Il governo infatti si piglia la briga di proteggere, più o meno, la vita dei cittadini contro gli attacchi diretti e brutali; riconosce e legalizza un certo numero di diritti e doveri primordiali e di usi e costumi senza di cui è impossibile vivere in società; organizza e dirige certi esercizi pubblici, come posta, strade, igiene pubblica, regime delle acque, bonifiche, protezione delle foreste, ecc…”»

«Ora viene il bello. Legga, legga!»

«”Apre orfanotrofi e ospedali e si compiace spesso di atteggiarsi, solo in apparenza s’intende, a protettore e benefattore dei poveri e deboli. Ma basta osservare come e perché esso compie queste funzioni, per riscontrarvi la prova sperimentale, pratica, che tutto quello che il governo fa è sempre ispirato allo spirito di dominazione, ed è ordinato dal difendere, allargare e perpetuare i privilegi propri e quelli della classe di cui egli è il rappresentante e il difensore”». Il magistrato appoggiò il foglio sul tavolo.

«Non è finito!» dissi.

«Ah, no?»

«Un altro pezzettino!»

«Ma sono stanco!». Il PM brontolò. «”Un governo non può reggersi a lungo senza nascondere la sua natura dietro un pretesto di utilità generale, esso non può far rispettare la vita dei privilegiati senza darsi l’aria di volerla rispettata in tutti; non può far accettare i privilegi di alcuni senza fingersi custode del diritto di tutti”4».

«Bel paraculo lo Stato, eh?» dissi sornione. «Ma in tutto questo, sapete qual è la cosa buffa?»

«Ora mi fa anche gli indovinelli?»

«La cosa buffa è che le persone credono davvero che agisca per il bene pubblico. Sono talmente plagiate da essere convinte che la legge rappresenti la loro volontà. ”Ipnosi collettiva”, la chiamava Tolstoj». Sospirai. «Più prosaicamente, è semplice stupidità!»

NOTE

1 – M. Bakunin, Federalismo, Socialismo, Antiteologismo, incluso nel volume Libertà, eguaglianza, rivoluzione, 1976.

2 – Filippo Trasatti, Lessico minimo di pedagogia libertaria, 2020.

3 – Femminismo e Anarchia, Emma Goldman, Raccolta di scritti di Emma la rossa, pubblicata nel 2009.

4 – E. Malatesta, L’Anarchia, 1891.

Editing a cura di Costanza Ghezzi: www.costanzaghezzi.com, costanza ghezzi@gmail.com

Immagine: Avvocati e giudici del ritrattista Honoré Daumier

10- La giustizia non è Dio

«Okay!» dissi. «Tanto per cominciare la nostra idea di giustizia non è data da un’entità intangibile. Per intenderci: non ci sono comandamenti a cui obbedire per conquistare il Paradiso. Non c’è Dio, nessun Dio che impone cosa è bene e cosa è male.»

«Lo sapevo. È ateo!» gorgoglio sprezzante Manganello.

«Maresciallo, si calmi Forse ha capito male!» osservò il PM. «Sarà mica ateo?» chiese rivolto a me.

«Solo durante la settimana. Il weekend mi dedico all’orto!»

«Ha visto?». Pottutto tranquillizzò l’ufficiale. «Il weekend si dedica all’orto… Che c’entra l’orto?» di nuovo a me.

«Un uomo che non ama la natura, che non apprezza la sua bellezza, che non prova tenerezza per gli animali è un uomo senza spiritualità, un automa incapace di cogliere che nel continuo divenire della vita, seppur per un attimo insignificante dell’infinito, è parte di una meraviglia. “Deus sive Natura” diceva Spinoza». E sospirando: «Non avete idea di quanta trascendenza c’è in una gallina!»

«Una gallina?»

«In un fiore che sboccia o in un ciliegio che fruttifera!»

«In un ciliegio?»

«Ha mai colto un frutto dall’albero e poi lo ha mangiato?»

«Una volta. Una mela.»

«E cosa ha provato quando l’ha morsa?»

«C’era il baco dentro!»

«La mela col baco… sublime!» recitai. «A parte questa personalissima visione eracliteo-panteistica, gli anarchici non credono in una vita a venire. Non possono concepire un’entità che guarda da chissà dove o giocherella con le esistenze come facevamo da bambini con i Playmobil

«Ma la mia mammina dice che la fede spiega il mondo!»

«Se lo dice la sua mammina!». Alzai le braccia in senso di resa. «La fede, come lo spiritualismo, nasce da un bisogno di risposte. Ma se quest’ultimo non si stanca mai di cercarle, la prima ricorre a costrutti suggestivi che intontiscono le menti: è una “fantasia dell’immaginazione vestita di onnipotenza”, diceva Elisee Reclus.»

«Dio non intontisce nulla: c’è il libero arbitro.»

«Quindi osserva e giudica? E siamo più tipo film, serie televisiva o reality show? In ogni caso non mi sembra molto consolante! Se gli uomini hanno bisogno di guardare oltre per dare un senso alla cose, confidare nell’irreale è il metodo più sbrigativo per rendere tutto accettabile!»

«Quanto cinismo! La fede è… la fede è un atto d’amore!»

«Non la facevo così sentimentale!»

«E si sbagliava perché metto amore in tutto quello che faccio!»

«Anch’io ci metto tanto amore!» intervenne Manganello che, evidentemente, si sentiva emarginato dalla discussione.

«Come potrei mandare in prigione le persone se non mettessi amore nel mio lavoro?» precisò il PM.

«Perché io nell’estorcerle la confessione?» disse Manganello.

«Perdonate. Mi ero lasciato fuorviare dal pregiudizio!»

«E quando ci metto amore è come se sentissi Dio che mi parla e mi dice: continua così, sono fiero di te!»

«Sicuro non sia il diavolo?» scherzai. «Pensi, però, come siamo diversi: io quando ho bisogno di trascendenza mi dedico all’orto.»

«Ancora quest’orto?»

«Cosa è più mistico di una pianta che cresce dopo averla innaffiata o di un albero che torna a sorridere dopo averlo potato? E poi prendersi cura della natura non è solo spirituale, ma anche piacevole. La sua bellezza, l’armonia, quel senso di essere parte di un tutto… Le piace passeggiare nei boschi?» chiesi al pubblico ministero.

«A volte!» Pottutto rimase vago. «Ma quegli alberi uno accanto all’altro, le chiome che coprono il cielo, quei fruscii misteriosi… non so come spiegarle: mi mettono ansia!»

«Mai camminato a piedi nudi?»

«A piedi nudi? Con tutti i sassi, la mota, le formiche…?»

«Preferisco pensare che Dio zampetti fra loro piuttosto che immaginarlo lassù!»

«Si chiama fede proprio per questo!»

«Si chiama fantasia proprio per questo!» replicai. «Emile Armand diceva che la fede è “un fenomeno di catalessi interiore e sentimentalità mistica”1. Credere nell’ignoto, infatti, sarà molto consolatorio e suggestivo, ma non è meno illusorio dell’idolatrare una sedia, un foglio di carta, una ciabatta, oppure il Quelo2. Capisco chi ha bisogno di conforto e apprezzo le persone spirituali. Ma se cercassero nel fango anziché in cielo, sicuramente l’uomo sarebbe più consapevole. Per non parlare degli effetti devastanti che la religione ha prodotto nella storia… leggiamo Bakunin?»

«Non è che ne senta tutto questo bisogno!»

«Mi creda, è illuminante!»

«A casa lo farò sicuramente!». Pottutto provò a eludere.

Presi il foglio dalla pila. «“È necessario ricordare quanto e come le religioni intorpidiscano e corrompano i popoli? Esse uccidono in loro la ragione, il principale strumento di emancipazione umana, e li riducono all’imbecillità, condizione essenziale della loro schiavitù. Esse disonorano il lavoro umano e ne fanno un contrassegno e una fonte di servitù. Esse uccidono la cognizione e il sentimento dell’umana giustizia, facendo pendere sempre la bilancia dalla parte dei bricconi trionfanti che godono del privilegio della grazia divina. Esse uccidono la fierezza e la dignità umane, proteggendo solo gli esseri servili e gli umili. Esse soffocano nel cuore dei popoli ogni sentimento di fratellanza umana, colmandolo di crudeltà divina”». E prosegue: «”Tutte le religioni sono crudeli, tutte sono fondate sul sangue; perché tutte si adagiano principalmente sull’idea del sacrificio, cioè sul sacrificio perpetuo dell’Umanità all’insaziabile vendetta della Divinità. In questo sanguinante mistero, l’uomo è sempre la vittima, e il prete, uomo anch’esso ma uomo privilegiato dalla grazia, è il divino carnefice. Questo ci spiega perché i preti di tutte le religioni, i migliori, i più umani, i più comprensivi, hanno sempre nel fondo del loro cuore, hanno sempre nei loro sentimenti qualcosa di crudele e sanguinario”.3»

«Non sarei così categorico, la Chiesa fa anche cose buone. Prenda, ad esempio, la mensa per i senzatetto che sta alla fine della strada!»

«Quella è solidarietà» precisai. «Crede davvero che l’uomo non sarebbe solidale col prossimo se non ci fosse la religione? Certo che lo sarebbe! Tutti proviamo pietà e desiderio, quasi un bisogno fisico, di aiutare chi sta peggio. Prima ho citato Malatesta per il quale essa è un principio assoluto, ma Proudhon parla di mutualismo, Kropotkin di mutuo appoggio. La solidarietà è innata in ciascuno di noi. Non ha bisogno di imposizione divina, casomai di un ambiente che la valorizzi». Mi interruppi perché Manganello scuoteva la testa vistosamente. «Non è d’accordo, maresciallo?»

«Pensavo alla pietà…»

«E…?»

«Quando l’arrestato nega l’evidenza… vi giuro, è più forte di me!»

«Non se ne faccia un cruccio. Negli psicopatici è consueto il deficit affettivo!» lo consolai. E perché non replicasse: «Per il momento, comunque, preferirei non dilungarmi sull’argomento.»

«Eviterei di tornarci anche più tardi!» sottolineò Pottutto.

«Come vuole, dottore. Ma se deve essere una confessione, sarebbe meglio fosse completa. Non le pare?».

NOTE

1 – Emile Armand, Vivere l’anarchia, raccolta di articoli del filosofo pubblicata nel 1983.

2 – Culto di un pezzo di legno inventato dal genio comico di Corrado Guzzanti.

3 – M. Bakunin, Dio e lo Stato, 1882.

editing a cura di costanza Gezzi -www.costanzaghezzi.com, costanzaghezzi@gmail.com

Immagine: Pierre Paul Proud’hon, La giustizia e la vendetta divina, 1804