“Resoconto Napadema” di Giuseppe Aiello

Pubblico il “Resoconto Napadema dell’amico Giuseppe Aiello, autore, fra gli altri dell’illuminante “Taoismo e anarchia”.

In foto il suo prossimo evento a Firenze:

 

“Non abbiamo paura delle macerie – NAPADEMA 17-19 marzo 2023
Parecchie cose cambiano in cinque anni e tanti ne sono passati rispetto all’ultima
organizzazione di “Non Abbiamo PAura DElle Macerie” – di qui in avanti Napadema –
così che il mondo quasi stenta a riconoscersi. Era questa un’iniziativa che ideammo (il
plurale non sta a indicare un collettivo, un gruppo o una comitiva, ma persone che
liberamente si accordavano senza necessità di strutturazione né di patti associativi) in
nome di una semplice constatazione: di fronte alla relativa imprevedibilità degli eventi che
portano periodicamente al bilico o al crollo delle strutture portanti delle società umane
l’unico modo che chi si propone un futuro di libera e pacifca convivenza ha, per provare
ad attrezzarsi, è quello di entrare in relazione con il saper fare, a tutto campo. A meno di
non credere nei partiti o in illuminate istituzioni, nel qual caso si può anche aderire con
fede e senza soverchie capacità critiche, caso che però non è il nostro. L’idea di separare la
distruzione dell’esistente da una pars construens rimandata a un futuro più o meno
remoto è macchinosa e poco realistica, visto che l’insofferenza concreta verso l’autorità e le
infnite coercizioni che il Dominio esercita sugli individui poco può se non si adopera al
tempo stesso alla realizzazione di una consapevolezza: bisogna avere i mezzi per
conquistarsi una libertà che così poco vale e niente dura quando è concessa dall’alto.
Primo passo: saper fare. Cosa? Qualunque cosa reputiamo vada nella direzione giusta,
nella massima corrispondenza tra fni e mezzi. Comuni, falegnamerie, cucine, case editrici,
non ha in fondo grande importanza dove va a concentrarsi il nostro intento, ma il metodo,
o più semplicemente – se la parola vi sembra opprimente – la ricerca di un percorso. Che
non è, meglio ribadire a scanso di equivoci, un ambito separato e neppure distinguibile da
quello della distruzione dell’esistente, e la soluzione non consiste nell’approntare prima
una squadra demolizioni per la società disciplinare e dopo un contesto in cui sia
fnalmente possibile edifcare qualcosa di decente; ma neppure il contrario, dove ci si può
convincere che disseminare il pianeta di esperienze libertarie sia non solo necessario ma
anche suffciente all’auspicato ribaltamento: la scissione dei due momenti è una scorciatoia
teorico-pratica umanamente comprensibile, magari utile per difendersi dal senso di
impotenza che a tratti ci assedia, ma di brevissimo respiro.
Era – è – essenziale ripartire dopo questi anni in cui ogni pensiero di autodeterminazione è
diventato un malinconica barzelletta al cospetto della suprema autorità dello scientismo
totalitario al quale si sono entusiasticamente piegati numerosi e insospettabili evangelisti
dell’anarchismo dopolavoristico che in nome della disciplina distanziatrice si sono trovati
a dare man forte alle direttive recepite ed emesse dal livello mediano della gerarchia
planetaria – Organizzazione mondiale della sanità, multinazionali farmaceutiche, potere
politico, gente così. C’è chi oggi dice che dovremmo passare oltre, dimenticare gli appelli a
chiudersi in casa mentre le macchine delle forze dell’ordine pattugliavano il territorio,
scordarci degli invasati della vaccinazione totale e della stigmatizzazione di ogni libera
scelta; degli zelanti che da una parte inseguivano i poveri – sperando che avessero fame
così da passare, portandogli una pillola di elemosina, per paladini dell’umanitarismo – e
dall’altra chiudevano due occhi sullo spaventoso dilagare dei danni da farmaci e sul
consolidarsi di una strategia a lungo termine della quale Pftzer e compagnia costituiscono
un pezzetto mica male. Dovremmo dunque tacere degli apologeti della carcerazione
planetaria, arresti domiciliari remunerati: tumichiudi tumipaghi?
Il Sistema ha vinto su tutta la linea, eppure gli scettici della narrazione psicopandemica
uniformata non sono scomparsi.
A qualcuno piace partire da lunghe e complesse trattazioni che affrontino presupposti,
analisi e dettagli, qui il suggerimento è chiedere conforto, in nome della sintesi, a uno che
di dotte disquisizioni poco si intendeva, ma di rivoluzioni sì:
Siamo noi lavoratori che facciamo funzionare le macchine nelle industrie, che estraiamo il carbone e
i minerali dalle miniere, che costruiamo le citta… Le macerie non ci fanno paura. Sappiamo che non
erediteremo che rovine, perche la borghesia cerchera di buttare giu il mondo nell’ultima fase della
sua storia. Ma, le ripeto, a noi non fanno paura le macerie, perche portiamo un mondo nuovo nei
nostri cuori. Questo mondo sta crescendo in questo istante…
Buenaventura Durruti, 1936
L’intento non era quello di un convegno, e convegno non è stato. Abbiamo chiesto a chi
veniva da fuori e a chi invece vive e opera a Napoli di raccontarci come vanno le cose.
Sono stati presenti progetti che hanno una lunga esperienza come le edizioni La Fiaccola,
che hanno più di mezzo secolo, e Urupìa che si avvia a compiere trent’anni di vita
comunitaria in alto Salento; gruppi costituitisi in tempi abbastanza recenti come la
Falegnameria Autonoma Libertaria, che per la prima volta si è espressa pubblicamente
sulle sue pratiche correnti e intenzioni future, e chi, come Usciamo dagli sche®mi, sentì tre
anni fa l’urgenza di un segno esplicito e plateale quando le strade erano vuote e i bambini
carcerati in casa dietro ai monitor.
La ricetta per ricostruire le comunità polverizzate dal rullo compressore degli apparati
tecnoindustriali non ce l’abbiamo, ma qualcosa da mettere in campo pare di sì.
***
Santa Fede Liberata è un antico edifcio che si trova nel cuore del centro storico di Napoli,
a un passo dalle nobili piazze sulle quali si distende Spaccanapoli, un tempo farraginosa
arteria del traffco centrocittadino e oggi condotta forzata in cui la fumana turistica
esercita la sua potenza omogeneizzatrice, qui come ovunque fuisca. Era il luogo migliore
dove organizzare Napadema, forse l’unico possibile. I secoli l’hanno un po’ usurata e porta
feramente i segni del tempo: per ristrutturarla completamente ci vorrebbero diversi
milioni di euro, ma non sembra questo un evento che sarà attuato a breve termine.
Decidiamo che l’intervento inaugurale, quello che il venerdì pomeriggio dà l’avvio
all’incontro, sarà destinato alla spiegazione del sentiero sinora seguito da Santa Fede
(qualcosa potete trovare in Quale deserto fegato, pubblicato da La Fiaccola tre anni fa) che da
un’occupazione simbolica da parte di un comitato radicato nel quartiere ha attraversato
fasi variegate che hanno condotto a una parziale separazione dagli altri cosiddetti “beni
comuni” napoletani e – lo scrivo senza voler attribuire etichette di alcun genere – ad
ospitare negli ultimi anni numerose iniziative di impronta libertaria che hanno diffcoltà a
trovare spazio altrove. Napadema rappresentava anche la volontà di richiamare l’attacco
disciplinare subito nel 2020-21, e il racconto per immagini e voce del periodo in cui
sfolgoravano le prestazioni del governatore campano a base di minacce di esser bruciati
con i lanciafamme, da parte di un gruppo composto in gran parte da donne (molte di loro
insegnanti e/o mamme) che scelse di chiamarsi Usciamo dagli sche®mi. Ci hanno restituito
la consapevolezza di una delle armi più importanti che abbiamo nei confronti del Sistema,
ovvero il saper dire no, facendolo – quando si può – attraverso l’ironia, la consapevolezza e
il gioco. Viste malissimo dal gregge restiamoacasa/tsopertutti, ci hanno raccontato con
garbo e senza melodrammi delle loro iniziative nel deserto urbano e del grande e
imprevisto impatto mediatico ottenuto («i giornalisti ci telefonavano per sapere cosa
avremmo fatto nei giorni a venire!»). Da quel gruppo, che decise a un certo punto di
dissolversi nel cosmo, sono nate diverse altre entità sparse, ad esempio la Jamm’ Band che
ha splendidamente suonato per noi la sera di venerdì.
Il sabato mattina ci siamo invece inoltrati nel settore dell’indissolubile rivoluzionario
amore tra materiale e immateriale, discorrendo di legno prima e di cibo poi. La
Falegnameria Autonoma Libertaria è una cooperativa di fondazione relativamente recente
che si è insediata in una bottega storica del centro con persone che cercano di concretizzare
quanto afferma la ragione sociale scelta attraverso la condivisione delle decisioni e del
lavoro. Parlando del rispetto del tempo proprio e altrui, della relazione con chi arriva per
riparare qualcosa (la psiche non è esclusa) e della semplice ed effciente organizzazione
interna i falegnami hanno fatto serpeggiare la malcelata invidia di chi impiega la propria
giornata in lavori più drasticamente concettuali. Più delicata è l’impresa nella quale si
cimentano da alcuni anni cuciniere e cucinieri di Cucina Clandestina che si ostinano a
diffondere una pratica che concili qualità dei prodotti e arte culinaria anche in luoghi dove
storicamente ciò che si mangia pare essere l’ultimissimo problema (e com’è? Prima la
sovversione e dopo l’alimentazione?). Se Napadema è andata bene è stato in grandissima
parte grazie alle due cucine (alla Cucina Clandestina si è infatti associata la Cucina
dell’Amore) che ci hanno sfamato e di Urupìa che ci ha dissetato con il suo vino.
Sabato pomeriggio ci siamo dedicati innanzitutto all’editoria autogestita, con Malamente,
una delle piccole case editrici libertarie più attive negli ultimi anni, che pubblica dal 2015
una rivista arrivata al trentesimo numero, «Perché l’incertezza e la crisi di questi tempi
sono anche possibilità che si aprono, vecchie certezze che crollano». Visto che avevamo
deciso di dedicarci al centro sud la partecipazione marchigiana è stata il tocco
settentrionale (vabbeh’) all’iniziativa. Il fatto che non nasca in ambito metropolitano è una
buona indicazione per ribadire quanto dovrebbe essere ormai chiaro da due decadi
almeno: visto che centro non c’è, ogni luogo è adatto per cominciare a tirarsi su le maniche.
La massima suspense si è raggiunta con l’intervento di Marco Piracci, unico invitato
“singolo” in quanto autore di Cyborg (sempre La Fiaccola a pubblicarlo) per la particolare
attualità degli argomenti di cui tratta. Con il suo intervento che ha descritto con spietata
gentilezza il binario imboccato dall’ideologia transumanista, perfettamente consona agli
sviluppi della società digitalizzata, paradiso del controllo incessante sugli individui, con
risultati che vanno oltre l’immaginazione della maggior parte di noi.
Il resto della serata è stato dedicato invece a chi è venuto dalla Sicilia sia a illustrarci la
lunga storia di Sicilia Libertaria e La Fiaccola (Ragusa), sia rivolgendosi alla microeditoria
d’urgenza come Scirocco (Madonie), nata dall’impellenza di dire la propria nei momenti
più bui della coazione distanziatrice. L’invito includeva la specifca richiesta di un
sommario inquadramento sulle condizioni di vita in un’isola che ha la sorte – malasorte,
potremmo dire – di star piazzata al centro di uno dei luoghi strategicamente cruciali per il
potere militare-politico planetario (sì, lo so che qualcuno vorrebbe ch’io scriva
“capitalismo”, ma rassegnatevi: per il Sistema il capitalismo, ammesso che esista, non è né
motore né carrozzeria, e manco pneumatici: al massimo fa da specchietto retrovisore per le
allodole). Si è parlato di basi militari che infestano il nostro sud e di MUOS, con diversi
approcci per provare a contrastarlo, e con modalità che possono anche causare episodi di
scarsa sintonia; ma tant’è, se volevamo l’assoluto accordo facevamo un partito marxista,
non certo un’adunata di insofferenti alla servitù volontaria.
Abbiamo chiuso (al sole, che è stato sempre dalla nostra parte senza esitazione alcuna per
tutti e tre i giorni) con Panchovilla in Sabina, una realtà abbastanza giovane formata da
persone che si dedica alla campagna – perché «Con la fne della metropoli c’è bisogno di
concepire un altrove» – senza rinunciare alla città (Roma-Pigneto), anzi attivandosi per
intense e profcue sinergie, e con la comune Urupia, che invece la terra l’ha scelta
integralmente da quasi sei lustri. Eppure mai uscita dalla fase sperimentale, cosa che la fa
mantenere giovane e vitale: chi c’è stato dieci o venti anni fa e volesse tornarci troverà lo
stesso posto (modifcato), alcune delle stesse persone (un po’ cambiate, manco tanto), altre
comunarde che prima non c’erano e un’aria diversa. Migliore? Peggiore? Potrei dire più
aperta e forse meno visionaria e sognatrice; in ogni caso tutto fuorché un posto che «dopo
tanti anni ancora resiste», come spesso ho sentito dire, ma che continua a sperimentare e a
reinventarsi.
Non voleva, dicevamo, essere un convegno e non lo è stato, e neppure una rassicurante
rassegna per gli amanti della libertà ormai orfani di tutto. Casomai un principio di messa a
punto per cominciare a capire dove metter mano per l’avvenire.
In margine, vanno ringraziati i sostenitori del nazionalismo ucraino, quelli
dell’imperialismo russo e gli esponenti della lega scientista “in Pftzer we trust” per averci
fatto la grazia di non manifestarsi in alcun modo. Possiamo ben sperare che in qualche
modo la nostra minuscola opera di ricostruzione sia ricominciata. Pazientissimamente e
festina lente perché, come disse quel meccanico di León tanti anni fa, ancora non abbiamo
paura delle macerie.
Giuseppe Aiello, aprile 2023″