L’ANARCHICO NELLA SOCIETA’ DEL DOMINIO

 

L’ANARCHICO NELLA SOCIETA’ DEL DOMINIO

L’anarchia è un’attitudine, un sentimento che nasce nel momento in cui, di fronte all’ingiustizia, l’individuo decide di rimuoverne la causa e ristabilire l’ordine armonico naturale. Ma questo anelito libertario come può realizzarsi in un contesto prevaricatorio capitalista?

Non è un’iperbole definirlo il più nocivo assetto sociale emerso nel corso della storia umana1. Quale evoluzione moderna della logica del dominio in cui il più forte soggioga il più debole per il proprio interesse, a differenza dei precedenti non ha bisogno di ricorrere a dio, al retaggio, a qualunque astrazione metafisica per giustificare il suo arbitrio: approfittare degli altri per un tornaconto è semplicemente giusto. Che si tratti di governo e sudditi, di datore di lavoro e operai, di capo e collaboratori, di uomini e donne, di bianchi e neri, eccetera, il denaro, la proprietà e l’accumulazione definiscono il rango, cioè l’autorità da cui deriva il potere, che diventa arbitrio. Inevitabile che l’anarchico lo osteggi per non essere complice. Cosciente infatti che schiavizza le menti, deforma le coscienze e distrugge il mondo, nega gli inganni, i fanatismi, le perversioni comandate che lo eternano e si autodetermina creando una nuova prospettiva della realtà, delle relazioni, delle cose.

La tecnologia, ad esempio. Viviamo un’epoca in cui il benessere è sinonimo di comodità. E ci può stare visto che faticare non ha mai migliorato l’esistenza di nessuno. Non fosse che per realizzare prodotti tecnologici bisogna distruggere l’ambiente e sfruttare l’uomo. Al che l’anarchico si fa una semplice domanda: la sofisticazione giustifica i danni? Questione che in termini morali diventa: le compensazioni effimere scusano le sofferenze degli esseri umani e non umani? E si dà una risposta secca e decisa: no! No perché la dipendenza da pixel non è un motivo sufficiente per colonizzare e devastare ecosistemi, sterminare e schiavizzare popolazioni. Così come un autoveicolo non giustifica l’inquinamento o una cura sperimentale non motiva il sacrificio delle cavie. Vero che l’uno porta da un luogo a un altro in breve tempo e con i vestiti puliti, mentre la seconda può salvare vite umane, ma in cambio di quanta morte si ottengono questi privilegi?

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Le persone non sono merce da consumare e poi gettare quando non servono più. E la natura non è un ambiente da contemplare solo nella scampagnata domenicale. La realtà è il tutto e il tutto è composto dalle infinite molteplicità connesse fra loro. Un’armonia condivisa in cui i beni non sono più ossessioni capricciose che compensano la precarietà esistenziale generando falsa autostima, bensì ausili con cui soddisfare i bisogni primari affinché mente e corpo siano liberi di cercare la felicità nel mondo circostante. Se non assolvono questa funzione sono semplicemente inutili e dannosi.

Tale rivolgimento etico è possibile pensando e agendo in maniera divergente. Quando il profitto è la giustificazione logico-teleologica del dominio, l’antropocentrismo è il presupposto ideologico. Razionalizzato da Aristotele, elaborato dalle varie correnti cristiane e cristallizzato dalla scienza, la religione moderna, esso pensa il mondo come un’organizzazione gerarchica capeggiata dall’uomo che, in virtù del suo primato, può saccheggiare a piacimento e senza rimorso. L’anarchico sovverte questa prospettiva tassonomica e definisce una nuova eguaglianza fra umano e non umano. Attraverso l’esperienza sensoriale, emotiva, spirituale con la natura, si fonde con l’indistinto per partecipare al suo divenire. In questo modo l’equilibrio è connessione incessante, scambio reciproco e condivisione consapevole. Una rivoluzione che abbandona gli egotismi antropici e crea una dinamica caratterizzata da relazioni affettuose ed egualitarie fra intersoggettività attraverso cui fondersi nel tutto.

Cionondimeno finché risiede nella società del dominio è un dissidente, non un rivoluzionario che cambia l’ordine delle cose. E poiché il suo afflato libertario viene anestetizzato dal sistema, compensa la mortificazione con la lotta. Tre i suoi obbiettivi principali: il mercato che crea diseguaglianza, l’omologazione che sopprime l’individualità e il governo che protegge l’uno e incentiva l’altra.

Quanto al primo, il suo slancio disertore e sovversivo aspira a sviluppare un’economia clandestina fondata sui principi autarchici della volontarietà, autogestione, solidarietà, eguaglianza, cooperazione, equa partecipazione alla produzione e distribuzione, eccetera. Al contempo, però, realizza azioni continuative e selvagge, reattive e destabilizzanti, pianificate, coordinate, condivise, volte a destabilizzarlo per conquistare spazi di autonomia.

Fra le principali condotte si rilevano:

-Lo sciopero permanente e senza trattativa.

Se nessuno lavora, non c’è produzione. Se non c’è produzione, addio profitto dei Signori. E a cascata dei meschini opportunisti. Massima soddisfazione col minimo sforzo.

-Il boicottaggio, sabotaggio e contrabbando delle merci.

Vale quanto appena detto. Con l’aggiunta che, oltre al danno da mancato guadagno, l’impresa deve sopportare anche i costi di fabbricazione. Inoltre favorisce l’artigianato, l’orticoltura e altre forme di produzione personale e comunitarie in luogo della massificazione globalizzata. Il mercato deve essere dell’individuo e per la comunità, non di tutti nell’interesse di pochi.

-La rinuncia all’acquisto.

Da esercitare quando i beni sono prodotti con attività immorali come lo sfruttamento umano e ambientale. Penso all’agricoltura massificata, che usa senza scrupoli sostanze tossiche e lesive delle biodiversità. Penso all’allevamento intensivo, in cui gli animali vengono impudentemente torturati per tutta la loro esistenza. Penso alle merci fabbricate schiavizzando la manodopera o alla già citata tecnologia per cui si colonizzano e depauperano persone ed ecosistemi. Penso alla produzione industriale e globalizzata, dove la singola impresa inquina e danneggia quanto l’insieme degli abitanti di intere metropoli. Penso allo sfruttamento mentale, tipo quello che genera ipocondriaci disposti a vendersi per una pasticca. Che poi fosse di quelle buone!

-Gli assalti e aggressioni alle istituzioni, l’abbattimento di infrastrutture, gli attacchi informatici, il furto e la distruzione di beni, di attrezzature, di kwow how, e tutte quelle azioni brillanti ispirate al codice penale.

Si tratta di dimostrazioni efficaci, ma non per tutti. Oltre a una buona dose di intraprendenza, infatti, bisogna saper reagire ai mastini che non vedono l’ora di mordere e ai farisei che trepidano per avere l’occasione di mostrare la propria intransigenza.

-Cessare i rapporti con quegli istituti che alimentano il mercato e approfittano di esso per arricchirsi.

Chissà perché mi vengono in mente le banche!

Chiudere i conti, non usare carte di credito, non chiedere o interrompere i finanziamenti. Una volta destabilizzate, sparirà la finanza, l’industria non reggerà l’impatto e l’economia tornerà ad essere scambio faccia a faccia. Affrancarsi da questi strozzini è un atto liberatorio come un gesto dell’ombrello fatto di cuore.

-Senza dimenticare l’occupazione o squatting.

Occupare significa prendere possesso e disporre di ciò che per legge non appartiene. Iniziativa che, oltre agli evidenti riflessi pratici, possiede un altissimo valore morale giacché cancella l’istituto fondante il dominio: la proprietà.

Può avere ad oggetto beni in uso o abbandonati. Un esempio del primo sono i fabbricati aziendali conquistati per impedire la produzione. Poiché però la solerte violenza di Stato ne caratterizza la temporaneità, la sua funzione è più propagandistica che concreta. Più efficace è invece l’occupazione di siti fatiscenti, dismessi, abbandonati o incustoditi, che vengono restituiti a nuova vita per essere utilizzati in occupazioni artistiche, educative, produttive, come centro operativo per attività sovversive, oppure quale luogo in cui organizzare l’autogestione della comunità, senza tuttavia mai perdere lo spirito nomade.

 

Se queste ed altre azioni danneggiano l’usurpatore, indubbiamente possono anche procurare disagi al dissidente. Quando l’impresa non guadagna, egli non riceve il salario; quando non consuma, perde l’identità sociale; quando compie crimini può finire in gattabuia. Eppure, gli costa meno incorrere nella pena prevista per la disobbedienza allo Stato di quanto gli costerebbe obbedire, perché in questo caso sarebbe come se valesse di meno, diceva Thoreau2. Senza trascurare comunque che la comunità anarchiche forniscono sempre sostegno, collaborazione e difesa. Mica sono la collettività civile, che salvaguarda solo coloro che può sfruttare!

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Il mercato non è l’unico destinatario dell’azione anarchica. Privilegi e privilegiati non esisterebbero senza la compiacenza dei governi e della società.

Luogo omologante per eccellenza, quest’ultima è il mezzo con cui il Potere subordina la massa ai suoi interessi. Attraverso le tradizioni, le moraline, i pregiudizi, la standardizzazione conservatrice, aggiungo scienza, cultura e religione quali manifestazioni illustri del suo spirito conservativo spacciato per ipocrita progresso, approfitta delle fragilità individuali per plasmare alla servitù volontaria.

Difficile fare un elenco di azioni praticabili contro l’omologazione perché scelta, fini e modalità operative dipendono dal contesto e ogni realtà è un caso a sé. Innegabile, però, che la resistenza incessante e l’insubordinazione selvaggia siano le vie prioritarie per affrancarsi dal suo giogo e le comunità volontarie e clandestine siano lo strumento per rovesciare le sue strutture, disattendere le sue manipolazioni, opporsi ai suoi diktat. Insomma, se l’anarchia è creatività, la socializzazione è il luogo in cui sbizzarrirsi!

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Quando i costrutti ideologici, le lusinghe del mercato e i settarismi della collettività non sono più sufficienti a uniformare le condotte, ecco il governo. Magari ammantato con quel tocco di ipocrisia idealista per cui è dei cittadini e per i cittadini o di ineludibilità trascendente per cui senza violenza non si impedisce la violenza. Tanto i sempliciotti che credono alle favole o che riconoscono la dipendenza come condizione necessaria per la propria esistenza3 non mancheranno mai!

L’opposizione al tiranno deve essere razionale, mai aggressiva, sia a causa della sproporzione delle forze in gioco, sia per non generare nuovo dominio. In particolare l’anarchico disobbedisce attraverso un insieme di condotte attive o passive tipo:

-La trasgressione alla legge.

Ci sono i remissivi, che obbediscono perché gli viene detto di farlo; ci sono i sempliciotti, che nell’ossequio si identificano; ci sono i furbetti, che sfruttano la regola per interesse. Poi c’è il refrattario, che agisce secondo volontà. Egli non trasgredisce per sfizio, né perché è un sociopatico. Infrange la legge perché essa è un’imposizione arbitraria e… E non solo, ma questo basta.

-Non partecipare alla farsa delle elezioni.

Astenersi dal rituale autoreferenziale del voto significa innanzi tutto non considerarsi interdetti che hanno bisogno del tutore. Ma anche non collaborare con le istituzioni mantenendo intatto il diritto di ribellarsi alla loro arroganza, non contribuire alla pantomima inscenata dalle elitè privilegiate, disconoscere il governo che si alimenta di arbitri, raggiri, manipolazioni, favoritismi, malversazioni, ricatti, scambi, convenienza e chi più ne ha più ne metta.

Nel migliore dei casi chi vota è un illuso, nel peggiore un complice. L’anarchico non è né l’uno, né l’altro. Sa che l’uomo è imperfetto. Per questo vuole che nessuno abbia potere.

-Ignorare i servizi erogati dalle istituzioni.

Poiché lo Stato usa i diritti per creare servitù, diffidare, evitare, sfuggire alle sue lusinghe rende liberi. Peraltro qualunque prestazione esso fornisca realizza l’interesse di infami oligarchie che speculano sui bisogni umani stringendo la catena della schiavitù.

Nei casi in cui usufruirne è inevitabile, invece, prendere senza dare non è immorale ma solo reciprocità.

-Smettere di contribuire economicamente al suo mantenimento.

Senza giri di parole, non pagare i tributi. Le tasse versate per ottenere una prestazione e le imposte per contribuire al finanziamento di servizi collettivi sono una forma di pizzo con cui si alimentano i malaffari che perpetuano il Potere e nutre i parassiti del dominio. Il governo pretende di essere socio delle aziende, comproprietario dei beni, protettore dei risparmi, esattamente come la criminalità organizzata. Con due differenze: che i servizi di quest’ultima sono molto più efficienti dei suoi e che la sua estorsione è autocratica4.

 

Queste le attività che può svolgere l’anarchico non ancora fuggito dalla società del dominio. A parte quelle invasive o violente, che ho più volte criticato perché inutili, si possono sintetizzare nella non partecipazione alle sue attività. Nel momento in cui l’individuo si spoglia di ogni proprietà, non lavora, non consuma, non si indebita e non obbedisce ai suoi ordini, diventa un clandestino. Così sottrae consenso e priva il Potere del profitto indispensabile alla sua sopravvivenza. E applicando la non interferenza necessaria a garantire l’armonia delle cose, comincia a respirare un po’ di quell’aria fresca nella quale presto si immergerà.

NOTE

  • Bookchin, Per una Società Ecologica, Eleuthera, 2016;
  • Henry David Thoreau, Disobbedienza civile, 1849;
  • Judith Butler, La vita psichica del potere, Mimesis, 2013.
  • Argomento controverso quello dei tributi. Come nessun’altro tira fuori il frustrato che è in ogni moralista. L’elenco degli ipocriti è infinito e va dal sottoposto che lamenta di essere costretto a pagare illuso che altrimenti il salario potrebbe crescere, all’affarista per cui l’accumulazione è scopo di vita e  nessuno deve toccarla, al parassita che succhia per sopravvivere, all’aguzzino che senza evasori chissà come sfogherebbe il suo sadismo, all’intellettuale omologato per compiacere il proprio narcisismo, all’artista che ricorda la fame dei tempi andati, ai media che del clamore hanno bisogno per vendere, aumentare le inserzioni, avere profitto. Mannaggia, sempre a quel bastardo si torna!

 

in foto Alfred Guillou, Adieu, 1892

 

A TUTTI… (da Don Chisciotte)

A tutti gli illusi,
a quelli che parlano al vento.
Ai pazzi per amore,
ai visionari,
a coloro che darebbero la vita per realizzare un sogno.
Ai reietti,
ai respinti,
agli esclusi.
Ai folli veri o presunti.
Agli uomini di cuore,
a coloro che si ostinano a credere nel sentimento puro.
A tutti quelli che ancora si commuovono.
Un omaggio ai grandi slanci,
alle idee e ai sogni.
A chi non s’arrende mai,
a chi viene deriso e giudicato.
Ai poeti del quotidiano.
Ai ” Vincibili ” dunque,
e anche agli sconfitti che sono pronti a risorgere e a combattere di nuovo.
Agli eroi dimenticati e ai vagabondi.
A chi dopo aver combattuto e perso per i propri ideali,
ancora si sente invincibile.
A chi non ha paura di dire quello che pensa.
A chi ha fatto il giro del mondo e a chi un giorno lo farà.
A chi non vuol distinguere tra realtà e finzione.
A tutti i cavalieri erranti.
In qualche modo,
forse è giusto e ci sta bene,
a tutti i teatranti .
[Don Chisciotte – Miguel De Cervantes]

COS’E’ LA FELICITA’

COS’E’ LA FELICITA’

Il Potere si è fatto furbo: non ordina, seduce. Promette benessere in cambio del corpo, necessario per lavorare, e della mente, necessaria per consumare. Con una mano aliena in fabbrica, in ufficio, in strada o dovunque paghino tre soldi da dissipare in consumi imposti ed estorsioni legalizzate, nell’altra tiene la caramella dell’accettazione sociale con cui premia chi si illude di realizzare la propria felicità se genera quella del più forte. Intanto l’economia si frega le mani, la politica è sempre più lorda di pervertimento, la massa affonda nella melma compiacendosi del suo sapore.

La chiamano socializzazione, ma è l’espediente attraverso cui controllare l’individuo. E per chi disattende il dovere di dissolversi in essa, quei pochi recalcitranti isolati, disprezzati, emarginati dalle sue dinamiche comandate, i mastini sono sempre pronti. A qualcosa dovranno pur servire!

Aveva ragione La Fontaine quando diceva che il nostro nemico è il nostro padrone. Con il capitalismo tecno-consumistico però, esso non ha più un volto umano ma corrisponde al ruolo che ciascuno assolve per assimilarsi al branco. L’annientamento del sé in cambio del riconoscimento sociale quale unica fonte di felicità.

Ma è proprio necessario essere infelici per avere la felicità?

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Tanto per cominciare, si dice “sono felice”, non “ho la felicità”. Sembra una sciocchezza, ma le parole sono importanti e queste affermano che essa è uno stato personale che attiene all’essere, non all’avere. Ẻ un sentimento, non un bene di consumo che si può smerciare. Avere non è essere, ma sembrare felici.

Trattasi poi di uno stato soggettivo, per cui è difficile trovare sia una definizione universale, che un’uniformità di cause scatenanti. Può essere determinata da condizioni personali come l’età: una cosa può generarla a venti anni e non a cinquanta; lo stato sociale: l’affamato gioisce davanti a un tozzo di pane che invece disgusta l’abbiente; la personalità: io sto bene quando scrivo, Mevio quando fa i calcoli matematici. Solo per fare qualche esempio. E, come se non bastasse, muta pure per il soggetto stesso che, senza motivo apparente, oggi può rallegrarsi di un evento, che forse domani lo rattristerà. Siamo tutti così volubili!

Il capitalismo ha provato a standardizzarla omologando personalità, bisogni e desideri: un lavoro profittevole, maggiori comodità, l’arrivismo sfrenato, possedere più beni, consumare fino all’esaurimento, eccetera. E poi ha colonizzato ogni luogo col suo modello di società uniformata, reazionaria e conservativa affinché l’individuo fosse manipolabile, prevedibile, volontariamente succube. Ma trattasi di finzioni che provocano uno stato di sospensione momentanea. Uno stare bene determinato dal riflesso sociale, quindi eteronomo, non soggettivo. L’illusione distrae, non cancella il baratro. In questo modo, infatti, la volontà affoga in artifici consumati i quali deve crearne di nuovi in un circolo vizioso e senza fine. Non bisogna essere illuminati per capire che i beni, i traguardi, gli interessi, i desideri, gli egotismi, i profitti creano bagliori di appagamento temporanei e subordinati alla contingenza, pertanto effimeri.

Perché invece la felicità sia piena e vera occorre svincolare la volontà da qualunque determinazione indotta. Deve godere di ineludibile spontaneità. Spontaneità che per manifestarsi richiede un ambiente che non ne pregiudichi le potenzialità. Un luogo vergine dove l’individuo diventi padrone esclusivo della propria sovranità e finalmente si percepisca non come entità isolata che si barcamena per sopravvivere, bensì come elemento di uno spazio, di un tempo, di una materia mutevole, senza principio né fine. In esso non simula eternità, è eterno.

Spogliatosi della precarietà insita nell’essere e che la socialità amplifica, l’anarchico contempla senza condizionamenti, instaura connessioni sensoriali e intellettive, si immerge nella sostanza delle cose producendo identità empatiche. Ora è pianta, ora è animale, ora è roccia, ora è vento e così via in un’immedesimazione simbiotica fra molteplicità che diventa fusione nella comune partecipazione. Replicata l’esperienza all’infinito svanisce la relatività in luogo di una partecipazione esaltante, senza regole, né tempo, né confini, illimitata e indeterminata, in cui vivere, non sopravvivere, nella condivisione dell’unità in continuo, eterno divenire.

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Asserire che l’unica forma di felicità è quella data dalla relazione genuina con la natura che porta a fondersi nella sua immensità non significa essere primitivi della foresta o Baba che rifuggono la materialità per cercare l’elevazione spirituale. Vuol dire invece ripristinare l’equilibrio naturale che le artificiosità hanno pervertito.

La volontà si realizza quando sfoga gli istinti, soddisfa i bisogni, afferma le proprie possibilità, impara a relazionarsi attraverso l’autodeterminazione. E perché ciò avvenga deve evolvere in totale spontaneità, senza doversi adattare ai condizionamenti né obbedire alle imposizioni. Solo se completamente libera dalle necrofile subordinazioni mondane che ora la ammorbano, spesso ne alterano l’essenza, trova la propria identità. Per questo si sviluppa laddove niente è contaminato, guarda caso il suo ambiente primigenio.

Quanto gli artefatti creati dal consorzio sociale sono effimeri e fuorvianti, tanto l’ordine naturale è spazio entro il quale la volontà prende forma in tutta la sua integrità. La purezza si conquista con la libertà, ma la libertà si esercita e si mantiene quando si relaziona spontaneamente con le diversità creando connessioni armoniche. La Natura non è una fuga, ma lo stato in cui scoprire e realizzare se stessi. Una perfezione che, se condivisa con affini, è piacere sublime.

Riconoscere il primato dell’autenticità rispetto all’obbedienza coartata o automatizzata implica innanzi tutto rifiutare ciò che deprava le coscienze trasfigurando il sé: dalla logica del profitto alle idee fisse, al progresso barbaro e schiavizzante causa di ogni perversione. Divenuti padroni di se stessi, occorre dedicarsi a un’esistenza diretta ed empatica con l’ecosistema affinché l’alterità sia identità. Nessuna sofisticazione. Nessuna superfluità. Nessuna gerarchia. Nessuna prepotenza e malversazione. Nessun costrutto artificiale o obbligo prescritto da forze preordinate. Nessuna trasgressione alla propria indole. Ma entità interagenti, cooperanti e adattative che si relazionano in maniera egualitaria per compiere l’obbiettivo condiviso di perfezionarsi attraverso la biosimbiosi.

Quando la volontà opera in un ambiente non condizionato da pulsioni predatorie e distruttive, quelle esaltate da qualsiasi logica del dominio, è padrona di se stessa e istintivamente cerca l’identità nelle molteplicità contigue. Impara a connettersi ad esse, crea quelle interrelazioni che la portano alla percezione prima, alla fusione poi nel divenire universale della vita. Ed è nell’estasi dell’indistinta unità delle cose, che il dare e ricevere amore infonde felicità.

 

L’EGUALE LIBERTA’: LEGGE NATURALE DI RECIPROCITA’

L’EGUALE LIBERTA’ COME ANTIDOTO DI OGNI CONFLITTO

Una società nevrotica difficilmente accetta i cambiamenti, le contraddizioni, le diversità. Il divergente mette in dubbio le sue convinzioni e induce a reazioni ai limiti del persecutorio. Viviamo un’epoca in cui principi giusti come il rispetto e la tolleranza verso il prossimo vengono pervertiti diventando paranoia. Con la conseguenza che qualunque manifestazione non conforme ai dettami preconfezionati si considera sessista, razzista, bullista, ipocritamente divisiva. Ma quando si ostacola il pluralismo attraverso principi che diventano vessatori si ha sempre tirannia. Soprattutto se il conformismo perbenista mira allo sfruttamento di nuovi mercati.

Poiché si definisce condotta offensiva qualunque azione verbale o fisica, almeno al pensiero è lasciato il piacere di concepire le peggiori sordità, che lede l’onore, il prestigio, la dignità di una persona, il rischio è di comprendere uno spettro di condotte che sbilancia gli interessi sempre e troppo a favore della presunta parte lesa. Anche quando l’offesa non c’è. Anche quando la reazione è paranoica. Anche, perché no, quando è stupida.

Se mi rivolgo a qualcuno dandogli dell’imbecille senza motivo, è ovvio che reagisca. Ma se invece si è comportato da imbecille, dovrebbe ringraziarmi perché gli offro la possibilità di correggersi. Faccio un esempio: Tizio invoca il suo dio per aiutarlo a realizzare un dato obiettivo. Caio sente e lo apostrofa scherzosamente che non esiste e se esistesse avrebbe cose migliori da fare. Tizio risponde che è un cafone perché non rispetta la sua fede e lo manda all’inferno. A quel punto Caio replica che l’inferno è sulla terra anche per colpa dei babbei come lui. E poi si sa come va a finire.

Ciò dimostra come le relazioni personali operino su un crinale periglioso, dove basta un niente per cadere nel precipizio. La sensibilità religiosa di Tizio ha infatti turbato quella agnostica di Caio, che con una battuta ne ha dissacrato le convinzioni. Certo, il primo poteva evitare di vagheggiare e il secondo doveva ignorarlo poiché i fanatici non perdono occasione per manifestare il loro integralismo, ma comparare i peccati serve solo a chi vuole omologare le condotte.

Situazioni di questo tipo si presentano frequentemente perché la mente comune è intrisa della logica del dominio in cui necessariamente la prevaricazione deve realizzarsi o essere ostentata. Le persone non sono ciò che sono, ma l’immagine che vogliono altri abbiano di loro o che altri hanno creato e loro condiviso. Ciascuno è una maschera sociale che deve essere riconosciuta e accettata, pena la perdita dell’autostima. E in un contesto competitivo, nessuno vuole smarrirla perché ritrovarla è un bel casino.

Se a questo si aggiunge che la morale sociale, le leggi e tutte le regole imposte hanno innalzato il livello di suscettibilità, magari fosse sensibilità, si spiega come oggi gli individui agiscano determinati esclusivamente dall’emotività isterica dei bravi consumatori e non come uomini coscienti di sé.

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L’omologazione ipocrita e artificiosa dei comportamenti ha portato a una deformazione delle relazioni paragonabile a quella subita dal sistema immunitario a causa dell’ipertrofia terapeutica: una volta la malattia era un evento naturale, spesso doloroso, a volte tragico, ma sempre parte dell’esistenza. La precarietà della vita terrorizzava, eppure la fitoterapia1 più o meno rudimentale era l’unica salvezza e, religione a parte, non esistevano artifici o sofisticazioni dietro cui nascondere l’angoscia della transitorietà. Adesso invece, fra il mito del superuomo in salsa narcisistica, l’ossessione dell’igiene, l’uso salvifico dei farmaci istigato dai media e la fragilità interiore acuita dal sistema che induce a trovare sicurezza in condotte compulsive, senza dimenticare l’influenza dell’industria farmaceutica assunta a rango di oligarchia, sono tutti ipocondriaci che soffrono come marmocchi dopo un graffio.

Allo stesso modo, le relazioni umane non sono più sincere e dirette. La spontaneità è stata sostituita dall’artificiosità. Il detto non è mai pensato e l’azione è sempre interessata. Ciascuno recita una parte. E quando accade che qualcuno non rispetti il copione, ecco il dramma. Nessuno sa improvvisare perché tutti hanno disimparato l’autenticità. Nudi, imbarazzati, scoperti di fronte alle proprie fragilità, gli attori si accusano reciprocamente. Poi il più arrogante offende l’altro e si allontana minacciando di non rimettere più piede sul palco. Nessuno interviene. Nel teatro cala un silenzio tombale. Finché si ode la voce strozzata del regista che grida: «Ma ‘ndo vai?»

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Diverso è il discorso per l’anarchico. Egli concepisce le relazioni non come competizione, ma come sintesi. La sua realtà è costituita da pluralità di entità -animali, vegetali, pure i bipedi!- che si fondono armonicamente attraverso la partecipazione condivisa. Una biosimbiosi che si compie solo dopo aver rifiutato la logica del dominio, affinché le relazioni non siano sottese agli ordinari rapporti di forza, ma tendano reciprocamente all’armonia. Non solo quella umana, ma del biotipo in cui interagiscono.

Quando l’individuo allarga i confini della sua comunità per includervi il suolo, le acque, le piante, gli animali o, collettivamente, la terra stessa in una eticità della terra che esalta il comune diritto di esistere2, non c’è bisogno di artefatti. Ciascuno vive l’esistenza uniformandosi ai ritmi e alle leggi della natura. L’obiettivo è fondersi nell’identità, non predare per interesse. Non si domina, emargina, elimina, sopraffà l’altro in quanto necessario al compimento del sé, che si realizza nella condivisione.

Ecco perché nella comunità antiautoritaria le relazioni sono dirette, sincere, istintive, prive di sofisticazioni tanto con le entità materiali e immateriali, tanto con i propri simili. Si chiama eguale libertà ed è quella legge universale che disciplina armonicamente l’azione di chiunque abiti il mondo. Consiste nel conoscere se stessi, nel manifestare pienamente la volontà di vivere e nel legittimare quella degli altri in una coesistenza che esalta le pluralità senza vincoli imposti.

E se per gli animali e le piante la giustizia è endemica, l’uomo, corrotto sin dalla nascita, deve emanciparsi dalla logica del dominio per imparare con l’esperienza ad essere natura. Divenuto padrone di sé dopo aver razionalmente rifiutato preconcetti, superstizioni e illusioni, si affida all’istinto per intraprendere un processo spirituale e pratico, mentale ed etico, che opera come un’impollinazione, dove il polline, la volontà, mediante gli agenti impollinatori, le relazioni spontanee, crea la gamia, l’identificazione con le entità, e la seguente produzione del seme, l’estasi data dalla partecipazione al tutto. Una fusione edificata sulla reciprocità, in cui eguaglianza e libertà sono complementari poiché l’una non si compie senza l’altra.

Ovviamente chi non vuole evolversi ha pari dignità di esistere, ma la sua vita è un’inutile spreco di energia e un fastidio per coloro a cui offendere e irridere i suoi conformismi non è solo un piacere, ma un dovere.

NOTE

*1- La fitoterapia è l’uso delle piante o degli estratto per curare le malattie e mantenere il benessere psicofisico.

*2- Aldo Leopold, Pensare come una montagna, Piano B edizioni, 1949.

 

IMMAGINE: August Macke, Giardini Zoologici, 1913

IL SUICIDA E’ PADRONE DI SE’ MA NON E’ UN LIBERTARIO

IL SUICIDIO NELLA SOCIETA’ DEL DOMINIO

Il vuoto interiore non può mai sanato dalla compulsione carnale. Nell’ebrezza orgiastica il sé non emerge nella sua volontà di potenza in quanto gli impulsi sono sollecitati esclusivamente dal desiderio e verso il desiderio destinati, per cui il godimento non è spontaneo e imprevedibile, non inonda di meraviglia, ma è determinato da un bisogno riflesso. E se con i rituali dionisiaci almeno si chiavava irrefrenabilmente, la grossolana materialità moderna schiavizza inesorabilmente rendendo l’esistenza un inutile transito.

Non che la vita sia un dono. Non c’è niente di mistico nel nascere e non è poi così terribile morire. Gli esseri del mondo sono volontà che si rigenera attraverso la materia. Materia che evolve in materia, che perisce diventando altra materia. Adesso ha sembianze umane, poi sarà pianta, animale o roccia, comunque involucro con cui essa si manifesta, muta, diviene. Una forma di cui, pur consentendo ai desideri, alle sensazioni, ai pensieri di essere unici, si serve per interagire con l’alterità e compiersi nella processualità universale. Insieme creano la personalità, ma la morte fisica non le impedisce di rigenerarsi sotto altre sembianze. Quando il corpo diventa inservibile perché malato o viziato, oppure alterato dalle contaminazioni mondane, non reagisce alle sollecitazioni vitali o non riesce più a stimolarle, abbandonarlo per trovarne un altro diventa una scelta rigenerativa.

Cosa ne sanno gli uomini civilizzati del fiore anzicioco che si lascia morire quando sente avvicinarsi il fruscio della falce, oppure delle termiti kamikaze che eroicamente si fanno esplodere contro il nemico!

L’ordine costituito pretende che l’individuo si subordini all’interesse collettivo, che è interesse di chi lo governa. E la supremazia di un padrone si misura sempre dal numero di schiavi che possiede.

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A questo servono le religioni, che concepiscono la morte come un portale, anziché un comunissimo evento fisico. Con un dio, qualunque dio, proprietario e padrone della vita, all’individuo non rimane che maneggiarla con cura per non farlo arrabbiare e il suicidio diventa un affronto imperdonabile al suo dominio. La Bibbia lo aborrisce perché chi uccide se stesso uccide un uomo1, cioè l’essere che Egli ha creato a sua immagine e somiglianza2. E quando domanderà conto della vita dell’uomo all’uomo3, sarà meglio che trovi una scusa credibile. L’islamismo, il competitor monoteista più agguerrito, non è meno intransigente4. Quando invece il senso di colpa non è un dogma, come avviene per gran parte dei sincretismi orientali, la naturalità delle cose si scontra con l’artificiosità imposta e capita che, se qualcuno dice «vado a fare due passi!», i familiari lo fissino coi lucciconi.

Il disinibito uomo moderno ha sostituito le religioni con teismi più pragmatici, capaci tuttavia di conseguenze non meno devastanti. Statolandia ci chiama cittadini, ma ci tratta come servi. La Scientocrazia ci battezza uomini, ma reclama cavie. La prima si impone in nome di un bene comune che realizza il tornaconto dei Grandi Affari. La seconda subordina al progresso, che realizza ancora il loro profitto. Sempre lì si torna!

Entrambe non accettano che l’individuo possegga il proprio corpo, quindi la propria vita. Una lo assoggetta alla sua autorità limitando la possibilità di disporne, l’altra ne riconosce il primato perché da morti non si può produrre e consumare. Così il suicida diventa un povero disadattato affetto da terribili disturbi psicosociali perché non accetta il sistema che gli viene imposto con serena rassegnazione o rampante entusiasmo5. E, beffa nella beffa, deve sorbire l’invadenza del salvatore di turno che diventa eroe perché non si è fatto i cavoli suoi.

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Le motivazioni personali che inducono al suicidio servono ai familiari e agli amici per non sentirsi in colpa. Prevenirle invece è il proposito di chi non accetta che qualcuno si sottragga al suo controllo. Il dolore fisico, il disagio sociale, le patologie psichiche, gli eventi nefasti, le esperienze traumatiche e quant’altro sono tutte fandonie dietro cui si cela la vera causa di ogni sofferenza: la paura di morire.

Ogni essere vivente teme la morte. Ma mentre i non umani combattono per la vita e se capita è nell’ordine delle cose, l’uomo non la comprende e così la esorcizza ideando metafisiche consolatorie o tangibilità di facile consumo. E ai molti esclusi da questa allegra baldoria non rimane che la speranza, sempre a buon mercato e di cui chiunque può disporre senza rischiare di essere menato dai mastini. Quando Tomas Shelby va a trovare l’amico Barney in manicomio e gli chiede il motivo per cui non vuole morire nonostante non veda la luce da anni, questi risponde: “Perché le cose potrebbero cambiare!”6. All’isolamento e alla fine certa oppone quello slancio emozionale che proietta il sé in una suggestione, l’eventualità favorevole idealizzata, subordinando l’empirico all’immaginifico, il reale all’illusione. Ẻ un atto di fede. Una dissonanza cognitiva che il suicida, esattamente come il libertario, non può accettare. Lo spirito di entrambi è, infatti, completamente immerso nella realtà. Per loro vale quello che dice il saggio: ieri è storia, domani è mistero, ma oggi è un dono. Per questo si chiama presente7. Invece di prendere il dono però, si donano.

Esattamente come il libertario, chi si toglie la vita possiede, consapevolmente o meno, la profonda percezione di essere atomo imprigionato nella roccia che, una volta liberato dalla radice di quercia, viene gettato nel mondo delle creature viventi e aiuta a costruire un fiore, che diventa una ghianda, che ingrassa un cervo, che nutre un indiano8, in un ciclo continuo ed esaltante. Si fa beffe dei personalismi che mirano l’utile, dei pregiudizi, delle imposizioni, della morale religiosa e sociale che impongono l’uniformazione, della legge che lo vuole sottomesso alla sua autorità onnipotente, degli affetti perché non esiste che uno passeggi per strada e improvvisamente dica: «sai che faccio, mi butto dal ponte!», poi si butti davvero.

Chi si toglie la vita ama i propri cari ai quali lascia il ricordo e il creato a cui dona le membra. Rompe invece con l’ordine esistente perché è così padrone di sé da voler trasmettere la morale della rinascita. La sua volontà è pura, proprio come quella del libertario. E proprio come per il libertario essa si perfeziona tornando alla natura. Ma per il primo, il processo non si compie attraverso l’identificazione nel tutto. La volontà recede dalla sua stessa indole preferendo trasformarsi anticipatamente anziché esaltarsi nell’unione. La sua è pertanto una scelta remissiva dettata dal bisogno di evitamento che sorge dopo aver ignorato, rinunciato o, addirittura, fallito il tentativo di essere felice. Il suo gesto è ribelle, ma privo di quell’audacia che lo renda possente. Perché ce ne vuole parecchia per rinunciare a ciò che si crede di essere per diventare ciò che si è.

Ẻ come l’uccellino uscito dalla gabbia che non riesce a volare. Indietro non torna e davanti ha lo strapiombo. Ora guarda davanti, ora guarda dietro. Ora scuote le ali, ora fissa il vuoto sapendo di non avere alternative all’inevitabile.

NOTE

1- Sant’Agostino, De Civitate Dei, 1,20.

2- Genesi 1,26, 27.

3- “Dal sangue vostro anzi, ossia della vostra vita, io domanderò conto; ne domanderò conto ad ogni essere vivente e domanderò conto della vita dell’uomo all’uomo, a ognuno di suo fratello” (Genesi 9,5).

4- Sahih Al Bukhar 1365, libro 23, Hadith 117. Dice infatti il Profeta che Allah è colui che fa vivere o morire e guai a scalfirne l’autorità perché chi si suicida strozzandosi continuerà a strozzarsi nel Fuoco dell’Inferno (per sempre) e chi si suicida pugnalandosi continuerà a pugnalarsi nel Fuoco dell’Inferno

5- Mentre terapeuti, psicologi, psichiatri si interrogano su come i media riescano a omologare meglio di loro, i sociologi solleticano la responsabilità collettiva attribuendo la responsabilità alla mancata integrazione nel gruppo di appartenenza, così Emile Durkheim, Il suicidio, 1897, i politici perfezionano l’addomesticamento.

6- Peaky Blinders, serie televisiva del 2013.

7- Frase del Maestro Oogway in “Kung Fu Panda”, film di animazione, 2008.

8- Aldo Leopold, Pensare come una montagna, Piano B editore, 1949.

 

48 – COMUNITÀ, GLI ACCORDI – segue

«Sul federalismo non ho altro da aggiungere!» dissi.

«Sento i colleghi per sapere a che punto è l’agente Sevizia?» propose Manganello.

«Splendido!». Il PM si eccitò. E a me: «Sarà bello fare l’alba insieme!».

Il maresciallo recuperò il telefono di servizio: «Pronto collega? Buona sera a lei, agente Sventro. Può dirmi com’è messo Sevizia?… So anch’io che è alto, grosso e fa paura. Intendevo a che punto è col cinese?… Ottimo!». Si rivolse a noi col pollice sollevato. «Gli riferisca che lo attendiamo trepidanti!». Riattaccò. «Sta arrivando. Contento?», a me.

«Ho la ciccia di gallina!». Mostrai l’avambraccio. «Posso prima finire il discorso sulla comunità?»

«Ancora?»

«Se vuole parlo di scissione nucleare… Allora la scissione nucleare è quel processo di disintegrazione in cui nuclei di uranio o torio vengono bombardati con neuroni e…»

«Non faccia il simpatico e prosegua con l’anarchia!»

Lo assecondai: «Diceva Comte che una società può essere statica se mantiene l’ordine attraverso leggi di organizzazione, come nelle nostre democrazie dove col pretesto della sicurezza il Potere disciplina la massa, oppure dinamica, quando invece si fonda sul progresso1… Ma cos’è il progresso

«Lasci stare gli indovinelli!»

«È diventare animali seduti che contemplano lo schermo?2 Oppure lavorare da mattina a sera per comprare l’auto nuova? Magari la distruzione degli ecosistemi per una vita più confortevole? O, perché no, radere al suolo un continente dopo aver premuto un bottone…?»

«Ne ha ancora per molto?»

«Direi un paio… quella sofisticatissima invenzione medica praticabile solo a chi può permettersela? O forse la nuova scoperta eugenetica che migliorerà la razza?… Chissà!»

«A me piace quella del radere al suolo!» gorgheggiò Manganello.

«In senso generico con progresso si intende qualunque miglioramento della vita. Ma se per lei può essere tale un’invenzione tecnologica che garantisce confort più sofisticati o maggiori guadagni, io posso disapprovarla o declinarla perché mi turba, mi danneggia, la ritengo immorale o inutile».

«Non la seguo!»

«Le faccio un esempio. Supponiamo che domani le sue funzioni siano svolte dall’intelligenza artificiale. Io finirei in gattabuia senza un processo, lei dovrebbe trovarsi un altro lavoro». E con un risolino sarcastico: «Chi ci restituirebbe il piacere di questo momento?»

«E il divertimento deve ancora cominciare!» puntualizzò il maresciallo.

«È impossibile che accada!» tuonò il pubblico ministero.

«È impossibile finché qualcuno riterrà utile il fattore umano. Ma quando esso non sarà più una variabile accettabile, vuoi vedere che…?»

«Nessuno potrà mai sostituire le forze dell’ordine!» controbatté Manganello.

Dopo un attimo di esitazione: «Ha ragione» convenni. «Le barzellette sui robot non fanno ridere!». Proseguii: «Se invece al termine progresso diamo un significato relativo, esso comprende tutto ciò che favorisce lo sviluppo del benessere personale. Non fosse che, ogni volta in cui l’uomo agisce in termini egoistici, diventa uno sterminatore». Sospirai. «Entrambe le definizioni, quindi, sono errate perché sbagliato è l’antefatto, ovvero lo scopo che il progresso dovrebbe perseguire. Finché esso corrisponde all’utile, inevitabilmente si identifica nel profitto e prende la forma di beni, la cui conquista legittima condotte predatrici e causa sfruttamento e sofferenza». Li fissai risoluto: «Progresso è solo ciò che consente all’individuo di realizzare se stesso, cioè la propria essenza naturale. E poiché l’essenza naturale è quella di entità che si sviluppa in un’immensa armonia, una pulsazione3, la natura, corrisponde ai pensieri, alle intuizioni, alle azioni e così via attraverso i quali è possibile unirsi a essa partecipando alle continue trasformazioni dei suoi elementi. Ne consegue che progresso è dire no. Dire no alle imposizioni, alle sofisticazioni, alle futilità, alle depravazioni, alle regole prescritte e non, al dominio rapace in generale, per realizzarsi come persona che fa parte del tutto».

«Che in concreto vorrebbe dire?»

«Vuol dire che il profitto ha due significati: uno mercantile in cui la manipolazione delle menti allontana le persone da ciò che sono. L’altro è coscienza di sé e compimento della propria personalità, che si realizza spogliandosi dall’egotismo e vivendo la completa immersione nella processualità naturale, la cui infinita bellezza è fonte dell’unica, vera felicità».

«Non mi sembra una spiegazione molto concreta!»

«Prenda il lavoro. Tutti dobbiamo lavorare per vivere. Ma una cosa è produrre per soddisfare necessità fisiche e morali essenziali, indispensabili al conseguimento e al mantenimento di un’esistenza connessa, quindi armonica, con la natura, quindi con la propria essenza. Altra è sgobbare per adattarsi alle istanze collettive. O, peggio ancora, sottomettersi alle regole, ai ritmi, agli obiettivi pretesi da chi sfrutta per un proprio interesse. In questo caso, o soddisfa la trascendenza di chi non ha fede o è semplicemente schiavitù. Solo un’attività indipendente praticata in costante contatto con la natura e che garantisca il minimo necessario consente di conoscere se stessi e di realizzare la propria personalità…»

«Chi non lavora, però, non contribuisce alla sua cara comunità!». Pottutto mi interruppe.

«Dipende cosa intende per comunità!»

«Se non lo sa lei che sono cinque ore che ne parla!»

«Finora ho detto che la comunità, la piccola comunità, è l’unico modo per garantire autonomia, orizzontalità e solidarietà. Ma ciò è possibile quando il singolo contribuisce a definirla personalmente. Quando invece essa è quell’insieme di persone in cui l’individuo viene forzatamente assorbito costringendolo a obbedire a prescrizioni che non ha deliberato e che realizzano interessi che non gli appartengono, diventa una prigione da cui deve solo evadere».

«Se l’aggiusta sempre come gli pare!»

«La comunità è uno straordinario luogo di esaltazione della personalità se e solo se è volontariamente scelta, organizzata e partecipata. Cioè l’individuo contribuisce direttamente a ogni fase del suo sviluppo. E questo avviene attraverso accordi liberamente costituiti per la necessità di compiere le aspirazioni degli uomini civili senza l’ingerenza dell’autorità4, realizzando quella forma speciale dell’amicizia basata sulla comunione di idee… col vivere senza opprimere, senza calpestare le aspirazioni o i sentimenti di chicchessia, senza dominare o sfruttare, ma da esseri liberi che resistono con ogni loro forza alla tirannia dell’uno come all’assorbimento delle moltitudini5, in cui sostituire all’odio l’amore, alla concorrenza la solidarietà, alla ricerca esclusiva del proprio benessere la cooperazione fraterna per il benessere di tutti… allo scopo di fornire a tutti gli esseri umani i mezzi per raggiungere il massimo benessere possibile, li massimo possibile sviluppo morale e materiale6. In sintesi, la comunità volontaria, solidale, pluralista e orizzontale in cui le persone si accordano senza determinazioni esterne è l’unico luogo in cui si realizza l’eguale libertà».

Li fissai entusiasta per l’arringa.

Mi replicarono due sguardi atarassici.

«Anch’io credo molto nella volontà, sa?» il magistrato ruppe il silenzio.

«In che senso?»

«Credo sia arrivato il momento che trovi la volontà di fare qualche nome!»

«No!»

«Per favore!»

«No!»

«Porca puttana, Dopraho. Non voglio fare il pubblico ministero in questa cazzo di città per tutta la vita!»

«Ah no? E dove le piacerebbe andare?»

Ci pensò: «A Milano, magari!»

«C’è la nebbia!»

«Ma ci sono anche le televisioni!»

«Vuole un’ospitata da Fazio?»

«Da Fazio?». Rifletté. «Mi andrebbe bene anche da Del Debbio!»

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«Niente è più elettrizzante di uomini liberi che si uniscono per preservare la loro libertà» ripresi a parlare. «Disciplinano dal basso i rapporti e li mutano al variare delle esigenze. Possono cambiare i bisogni, può trasformarsi il contesto e chiunque può chiedere di aggiornarli. Sono sempre modificabili in quanto prodotto della sperimentazione quotidiana. L’uomo comune teme il caos e crea gabbie che legittimano poteri soverchianti. L’anarchico diviene continuamente perché non teme l’esperienza». Per recuperare la loro attenzione: «Sapete cosa diceva Jefferson?» chiesi.

«Chi, George Jefferson?» frinì Manganello. «Ẻ il protagonista della mia sit-com preferita!7» farfugliò allo sguardo minaccioso del pubblico ministero.

«Parlo di Thomas Jefferson, il terzo presidente degli Stati Uniti. Egli affermava che l’immutabilità delle Costituzioni ostacola lo sviluppo umano. Ecco perché, a suo dire, devono estinguersi naturalmente insieme a coloro che le hanno emanate8 per essere sostituite periodicamente da convenzioni più moderne. Allo stesso modo, per gli anarchici gli accordi ora ci sono ora non ci sono più. In qualunque momento possono essere revocati, sostituiti e rescissi. Uno può dire non ho più voglia! e abbandonare senza conseguenze e, soprattutto, senza motivazione… Vi sembra strano? Eppure, anche Bauman sottolineava che l’interesse personale può conciliarsi con quello della comunità se essa è altrettanto facile da smantellare di quanto sia stato costruirla; se essa è flessibile, sempre e soltanto a tempo e durare finché conviene; se il legame di fedeltà creatosi non deve mai ostacolare, né tantomeno precludere, ulteriori e diverse scelte9… Una stretta di mano e amici come prima. Così fanno le persone perbene!»

Ebbi la sensazione che Pottutto si trattenesse dal ridere: «Non mi pare di aver detto una cosa divertente!» dissi.

Gli si arrossarono le basette: «Pensavo alla faccia che farebbe Persecuzio se gli stringessi la mano e gli dicessi che me ne vado!»

«Non le converrebbe. Là fuori si fatica!» ironizzai. «Abbandonare la comunità non è una fuga ma una scelta. E in una società fondata sulla condivisione e che non conosce profitto, tutti si rallegrano quando qualcuno si offre a nuove relazioni, opportunità, necessità. Parafrasando Armand, la reciprocità che li ha uniti fino a quel momento, benché esaurita, non può lasciar spazio alla diffidenza e al rancore».

Pottutto fissò l’orologio che aveva appoggiato sul tavolo.

«Sevizia se l’è presa un po’ troppo comoda con questo cinese!» inframezzò Manganello.

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«Parla di armonia come se il mondo fosse un paradiso. Ma cosa accade se le persone non rispettano gli accordi? Siete uomini anche voi, no?» chiese il magistrato.

«Osservazione interessante!»

«Grazie!»

«Se avessi cominciato a parlare ora!» chiosai caustico. «Quando nella società del dominio le parti non rispettano un accordo, la causa è sempre un tornaconto personale. Ma se la comunità anarchica si fonda su una sintesi volontaristica in cui ciascuno compie l’interesse personale realizzando quello comune e viceversa, mi dice chi può danneggiare chi? Già che c’è, mi informa anche del perché? E visto che è sul pezzo, mi spiega pure come?»

«Ha capito cosa voglio dire!»

«Ne abbiamo già parlato!» controbattei esausto. «Quando do a lei ciò che mi ha chiesto e lei da a me ciò che le ho chiesto, non siamo entrambi contenti?»

«Per questo non c’è bisogno di essere anarchici!»

«Ma in una società in cui tutti ambiscono al profitto, l’accordo diventa strumento di competizione, non di armonia. Quando invece i membri hanno scelto di non accumulare e di vivere nell’interesse reciproco, nessuno prevale perché lo scambio soddisfa le parti paritariamente. E se, per ipotesi, qualcuno viola gli accordi, la comunità interviene per conciliare attraverso un confronto collettivo in cui il trasgressore riconosce il proprio errore, se ne assume la responsabilità, chiede perdono, risarcisce eventualmente il maltolto, i compagni accettano e si ripristina la pace sociale. Ecco perché la parola non è mai una sentenza, bensì una raccomandazione a cui l’interessato può scegliere se conformarsi o meno».

«Continuo a non vedere il senso!»

«Perché continua a guardare con occhi bendati!» rilevai. «È talmente intriso della mentalità del dominio che le risulta impossibile concepire le relazioni in termini di armonia e spontaneità. Dal suo punto di vista, come a ogni azione coincide un tornaconto, a ogni violazione corrisponde una sanzione che sollevi la collettività dalle proprie responsabilità. Per gli anarchici, invece, la tolleranza, al pari della solidarietà, del pluralismo e della volontarietà è un principio fondamentale per lo sviluppo del gruppo». Sospirai di nuovo. «La verità è che siete così terrorizzati dall’idea di decidere con la vostra testa, che non tollerate chi, invece, esalta la personalità» rilevai increspando il tono di voce. «Per voi lo Stato deve ingiungere e il suddito obbedire, Dio prescrivere e il fedele obbedire, il capo ordinare e il subordinato obbedire, il marito imporre e la moglie obbedire, il padre intimare e il figlio obbedire, il mercato forzare e il consumatore obbedire… anche rincoglionire, direi!»

«Ora basta!»

«Le dà fastidio, eh?»

«No, gli elenchi mi mettono ansia!». Pottutto batté la mano sul tavolo. Poi mi fissò algido: «Ormai sono ore che l’ascolto e sa cosa le dico?»

«Prego!»

S’impettì per darsi un tono: «Le dico che la realtà non cambia e non cambierà mai. Il suo mondo fatto di siamo tutti amici e fratelli, viva la pace, la libertà e l’eguaglianza, abbasso il potere cattivo e così via sono tutte stronzate!» sentenziò solenne.

«Dice?»

«L’ho appena detto!». E con un cenno affettato della mano mi sollecitò a proseguire.

Sollevai le spalle: «Io invece dico che ho finito!». Incrociai le braccia.

«Si è offeso perché ho detto la verità?» reagì algido Pottutto.

«Non per ripetermi, ma la superficialità non mi offende mai. Mi intristisce!».

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«Non può aver finito?». Pottutto si strappò gli ultimi ciuffetti rimasti sul mento. «Io decido quando ha finito!». Guardò Manganello in cerca di ausilio.

«Lui decide quando ha finito!» grugnì il fido compagno di ventura tamponandogli l’arterite col fazzoletto umidiccio.

«Spiace, ma ho proprio…»

«Via, non faccia il capriccioso!» disse il PM adesso più accondiscendente.

«Abbiamo ancora l’udienza preliminare, gli interrogatori in carcere, il processo… non mancherà l’occasione!» chiarii assertivo. «Per essere la prima volta che ci incontriamo, mi pare comunque d’aver parlato abbastanza!»

«Eh no!»

«Forse ha ragione!». Riflettei. «Dovrei approfondire come si sviluppa l’autogestione, come si articola l’organizzazione delle comuni, come si conciliano i diversi interessi, il lavoro e il rapporto con la natura…»

«E i nomi?»

«Per una volta sia piuma portata dal vento!» risposi fra il serio e il faceto. «Per il momento dovrà accontentarsi di sapere che esiste il luogo che non esiste10 in cui si può rendere possibile l’apparentemente impossibile11».

Avvampò come lava incandescente ma non replicò a causa dell’improvviso squillo del telefono.

E poiché nessuno sembrava voler rispondere: «Posso?» chiesi di farlo io.

Per un paio di trilli i miei interlocutori si fissarono indecisi. Poi il magistrato mi porse la cornetta. Ma il filo era troppo corto, così lo invitai a invertire i posti. Percorsi il lato del tavolo vicino alla signorina Servile, lui quello opposto come se temesse di infettarsi passandomi accanto. E quando sedetti sulla sua poltrona: «Pronto?» proferii imitandone il tono impostato.

«Pottutto?» gracidò la voce dall’altro lato del telefono.

«Buona sera dottor Persecuzio!» riconobbi il procuratore capo. «Ancora sveglio a quest’ora?… L’interrogatorio è andato alla grande! L’anarchico ha impiegato un po’ di tempo a sciogliersi ma dopo ha fatto così tanti nomi che pare l’elenco del telefono!». Tappai la cornetta perché non mi sentisse ridere. «Manca solo il giro con Sevizia, dopodiché lo spediamo al fresco… Certo, riferirò al maresciallo che questa volta non gli para il culo!… Come dice? Ne parlano i giornali? Pure la televisione? Splendido!». Con la mano di nuovo sulla cornetta: «Pure famosi vi ho fatto diventare!» rivolto ai miei aguzzini. «Mi vuole premiare?» chiesi sorpreso. «Troppo gentile! Ho fatto solo il mio dovere. Anche se quel posticino da sostituto procuratore a Milano di cui parlava… Ha attaccato!».

Riappesi la cornetta. Tolsi i piedi dalla scrivania e: «Milano l’aspetta!» informai Pottutto.

Dalla commozione quasi si mise a piangere.

«Di me ha detto nulla?» domandò Manganello.

«Che doveva dire?»

 «Mi piacerebbe diventare Ministro della Guerra!12» miagolò.

«Perché non capo dei vigiles romani?» ribatté Pottutto biasimevole.

Ma anziché replicare, il maresciallo schizzò in piedi e saltellò come una palla da basket verso il bagno.

«Mi sa che l’emozione gli ha giocato un brutto scherzo!». Il pubblico ministero lo giustificò. «È davvero un bambinone!»

Per un po’ giocammo a nascondino con gli sguardi. Poi ruppi l’imbarazzo: «È stato un piacere essere interrogato da lei!»

«Ne sono convinto, visti i risultati!» replicò amaro. «Se non vuole fare i nomi, mi dica dov’è che… Mi consenta almeno un sequestro!» insistette. «Le regalo il poster di Rocky da appendere in cella!»

«Ce l’ho!»

«Le metto la parabola!»

«Non guardo la televisione!»

«Le farò avere doppia razione di bistecca tutti i giorni!»

«Sono mica anemico!»

«Potrà entrare nel coro dei Sodomiti!»

«Non ho il coraggio di chiederle cosa sia!»

«E se prometto di farle incontrare i familiari una volta al mese?»

«Troppo buono!»

«Accordo fatto?».

Non gli strinsi la mano perché bussarono alla porta.

«Dev’essere Sevizia!» esclamò entusiasta. «Manganello, è arrivato Sevizia!» starnazzò verso il bagno.

Appena dopo lo strozzato: «Due minuti!» del maresciallo, la porta si aprì prepotentemente facendo volare la Sfinge che stava davanti. Non si frantumò in mille pezzi solo perché la signorina Servile fece da materasso.

Testa glabra, squadrata, due fessure al posto degli occhi, naso veemente sopra labbra turgide, zigomi come pietre di Stonehenge, mascella che sembrava una trebbiatrice, corpo taurino compresso in una tutina di nailon color giallo impreziosita da schizzi ancora freschi di sangue cinese. In una mano impugnava un trapano, nell’altra delle tenaglie. Avanzò facendo tremare il pavimento.

Pottutto accolse Sevizia con un sorriso spavaldo e uno: «Splendido!», d’ammirazione. Questi rispose guardandosi intorno con l’espressione di chi soffre di antropofobia e si trova in una stanza troppo affollata.

Le leggende sul suo conto non gli rendevano merito: era così spaventoso che una folata gelida di terrore mi fece tremare. Istintivamente mi coprii con la giacca che il pubblico ministero aveva lasciato sullo schienale della poltrona. Non so perché ma manipolai la pallina di pongo. Addirittura, calzai i suoi occhiali. In un impeto di esaltazione finsi perfino di prendere appunti. E quando Sevizia oscillò ancora lo sguardo dal PM a me, ebbi un’illuminazione: assentii un deciso. «Fammi vedere di cosa sei capace!», con un solerte movimento delle sopracciglia.

Tutto avvenne molto velocemente.

Il mostro fissò il magistrato, che strisciò la sedia all’indietro.

Emise alcuni fonemi d’oltretomba, a cui il PM balbettò un titubante: «Come è andato con il cinese?»

Gli si avvicinò prepotentemente inducendolo a uno strozzato: «Maresciallo, le spiace venire?».

E quando ruggì come il leopardo di Ligabue13, nel silenzio si udì prima la voce remota di Manganello che diceva: «Ho quasi finito!», poi lo sfrigolio dello sguardo elettrico di Sevizia che cercava conferma nel mio e immobilizzava quello di Pottutto, accortosi troppo tardi di essere nel posto sbagliato, la sedia di metallo in cui stanno gli interrogati, al momento sbagliato, quando il finto pubblico ministero, cioè il sottoscritto, aveva convinto l’aguzzino a non distrarsi dalla trans agonistica.

Distolsi l’attenzione da quella scena raccapricciante.

La violenza non era mai stata il mio forte. Ma la perspicacia sì. Appena il bruto lo rovesciò a terra infilandogli il trapano in bocca, in punta dei piedi mi avvicinai alla porta. Me ne andai senza salutare per non rovinare il momento.

 

 

NOTE

– 1 Auguste Comte, Sistema di politica positiva, 1851.

– 2 Cristopher Lash, Contro la cultura di massa, 2007. Nel testo la sua frase è al singolare.

– 3 Aldo Leopold, Pensare come una montagna, Piano B edizioni, 1949.

– 4 P. Kropotkin, Voce Anarchismo in Encyclopaedia Britannica, 1905.

– 5 Emile Armand, Vivere l’anarchia, ivi.

– 6 E. Malatesta, L’anarchia. Il nostro programma, 2013.

– 7 I Jefferson, sitcom televisiva proiettata negli anni ’80.

– 8 Thomas Jefferson enuncia il suo principio in una lettera del 1776 a James Madison.

– 9 Z. Bauman, Voglia di comunità, 2001.

– 10 Tomaso Moro, Utopia. De optimo reipubblicae statu, 1516

– 11 Amedeo Bertolo, Anarchici e orgogliosi di esserlo, ivi.

– 12 Il Ministero della Guerra venne istituito da Cavour nel 1861. Dal 1947 è stato sostituito dal Ministero della Difesa.

– 13 Antonio Ligabue, 1899-1965, Il leopardo assalito da un serpente, 1955.

 

Immagine: John Martin, Pandemonium, 1841

Editing a cura di Costanza Ghezzi

CONTROCULTURA

L’ESPERIENZA INCREDIBILE DI CHI E’ CREDIBILE

Spesso mi chiedo se esiste una relazione fra arte e anarchia.

Non tanto come l’essere ribelli possa favorire la produzione artistica. Questo mi sembra scontato, come dimostrano gli infiniti casi di coloro che, perso l’animus sovvertitore perché arricchitisi o assuefatti al sistema, dimenticanono la vena creativa. Quanto al fruitore che si immerge nell’opera vivendo un’esperienza estatica assimilabile a quella provata dal libertario nel momento in cui si identifica con gli esseri che lo circondano e si fonde con la realtà per partecipare all’unità indivisibile.

La risposta è sempre positiva perché entrambe sono esperienze identitarie che consentono di percepire e, per alcuni fortunati, vivere la cosa in sé. Il più grande prodigio che l’individuo possa conoscere e a cui possa partecipare. L’unico che merita di essere raccontato.

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Si dice: penso quindi sono. Una volta credevo fosse una delle tante perle di saggezza di mia nonna, poi al liceo ho scoperto che Cartesio l’aveva affermato quattro secoli prima. Ho impiegato anni per riprendermi dalla delusione.

Il pensiero è quell’attività psichica mediante la quale l’essere prende coscienza di sé e del mondo. Alla fase cogitante segue il giudizio, attraverso cui si manifesta. Tanti giudizi quante sono le soggettività. Ma se nell’unità la contraddizione diventa identità, nell’interazione si differenziano in base alle storie che raccontano.

Prendi la reazione dell’osservatore di fronte a un’opera d’arte. Che so, il Campo di grano con corvi di Van Gogh. Taluno può soffermare l’attenzione sul contrasto cromatico fra il giallo vitale e il cobalto tenebroso. Altri sullo stormo di corvi che si leva cupo o sul cielo agitato o sui sentieri serpeggianti. Qualcuno può cogliere il ritmo vorticoso delle pennellate con le quali il pittore proietta la sua sofferenza sulla realtà circostante. Qualcun altro può spingersi oltre condizionato dalla suggestione dell’orecchio mutilato. Insomma, ad ogni punto di osservazione corrisponde un’interpretazione della volontà cristallizzata nell’opera. Ma se esistono infinite volontà che esprimono altrettanti giudizi, è possibile stabilire se uno è migliore degli altri?

Mi spiace deluderti, ma la risposta è sì. E per non perdere tempo, dico subito che dipende dalla credibilità di chi lo manifesta.

Credibile è ciò che ha la capacità di ottenere credito, cioè ispirare fiducia, come recita il dizionario. Nella società un’affermazione è tale quando chi la esprime possiede autorità riconosciuta da tutti. Può essere acquisita per merito, ad esempio il botanico capisce di piante più dell’uomo comune. Può essere del leader che impone le sue regole ai sottomessi. Può essere dell’autocrate, come il prete, il governo, le istituzioni o chiunque detenga il dominio in virtù dell’aurea sacrale che si è auto-conferito. In ogni caso essa è la prerogativa di una élite a cui corrisponde l’accondiscendenza della massa.

Considera l’affermazione anarchica “il governo è sempre tiranno”. Pur essendo una frase vera, viene pronunciata da soggetti che la manipolazione mediatica definisce non credibili. Con la conseguenza che anch’essa non lo è. Al contrario, se un giudizio falso come “gli anarchici vogliono il caos” o “gli anarchici sono dei criminali” viene reso da un’autorità apparentemente credibile, come per magia diventa apodittico. Il Potere conosce questo meccanismo e così fa quello che gli pare.

Scendendo più in basso, invece, la credibilità dipende dal carisma determinato dal rango, dalla professione svolta, dalle attitudini personali, dalla conoscenza, dalla sensibilità e da altri attributi. Sono però filtri soggettivi che sottolineano l’autorità del dichiarante senza tuttavia rilevare alcunché sulla effettiva conoscenza della realtà esaminata e giudicata. Quindi sulla veridicità della sua affermazione.

Ne consegue che giudicare il giudicante per il suo retaggio è come scommettere l’intera posta su Golia solo perché è grosso. E poiché la credibilità di un giudizio non può dipendere dalle ragioni per cui chi lo manifesta sembri o meno degno di fiducia, occorre scavare oltre la superficialità. Ma per farlo, bisogna cambiare la prospettiva: non soffermarsi sugli attributi del referente, bensì concentrarsi sull’esperienza che ha vissuto. Ovverosia valutare quanto sia stato in grado di affrancarsi da ciò che è per immergersi nella realtà che deve essere giudicata per quello che è.

L’uomo è pertanto credibile quando la sua esperienza è onesta. Quando cioè le competenze, i condizionamenti sociali, gli interessi e gli orientamenti personali e tutto ciò che preconfeziona la coscienza e contamina il sé lasciano il posto alla spontaneità. Soltanto una volontà libera può accedere alla verità creando relazioni affettive, simpatetiche, empatiche che consentono di trasformare la condivisione in unità della sostanza.

Come capire questa sincerità? Facile: la verità è sempre nei silenzi.

++++

Torno al rapporto con l’arte perché spiega il concetto meglio di altri esempi.

L’opera artistica rappresenta la visione della realtà secondo il suo autore. Ma è anche il luogo in cui si incontra con quella del fruitore.

Il posto è misterioso, in alcuni casi impenetrabile come una selva. Difficile orientarsi e le conoscenze apprese spesso rischiano di far di girare intorno più e più volte. O ci si abbandona allo sconforto e si comincia a tirare calci agli alberi col rischio che una pina cada in testa, oppure ci si lascia guidare dalla natura. Allo stesso modo, di fronte alla creazione dell’artista, bisogna abdicare le presunzioni, i pregiudizi, le conoscenze e donarsi ad essa. Solo facendone parte si può comprenderla.

L’attore deve essere libero di abitare l’opera. Vivere la dimensione altra per trasformarsi in volontà nuova. Ma perché si realizzi questa dissoluzione e ricomposizione, come lo sciamano che dilata i confini percettibili immergendosi nel sogno, la volontà deve abbandonarsi alla casualità dell’istinto. Volare con le note, fluire fra le pennellate, formarsi e sformarsi plasticamente. Ed è allora, quando penetra nella materia e interagisce con i suoi elementi, quando il vecchio sé muta in un sé semioticamente nuovo, che l’esperienza s’illumina d’immenso. Improvvisamente il mistero diventa comprensibile, il sogno reale. Tutto ha un senso. Ecco l’idea. Rivelata dall’improvvisa connessione di volontà, quella dell’autore e quella dell’attore, che deflagra nell’ebrezza estatica. Sarà poi compito della ragione conservare e donare al mondo questa possanza attraverso il giudizio. Giudizio che sarà sempre vero perché chi lo esprime avrà compreso l’essenza grazie all’esperienza che lo ha reso creatore.

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In questi termini, la credibilità di chi vive un’opera d’arte è la medesima dell’individuo che si unisce alla natura per diventare il tutto.

Anche in questo caso egli è puro. Solo dopo che si è liberato dai pregiudizi che pervertono la volontà, potrà perdersi e ritrovarsi. L’esperienza sensoriale, se protratta e compiuta con affettuosa contemplazione, provoca un acquietamento che schiarisce il pensiero, rallenta e calma le pulsioni, sfuma e poi cancella intorno, induce alla dissociazione con la quale la volontà passa dal corpo agente a quello osservato, toccato, gustato, odorato, trasformandosi lentamente ma inesorabilmente in volontà dell’animale, della pianta, del fenomeno naturale, dell’oggetto inanimato. In quella corporeità nuova, ma così reale, prova istinti, sentimenti, emozioni, pensieri non umani, che trasformano la coscienza di sé in un nuovo sé. Una fusione che è identità spirituale e materiale. E quando questa trasposizione viene reiterata con infinite entità, scatena una connessione simbiotica universale in cui la coscienza della cosa in sé, la volontà del creato in divenire, esplode in tutta la sua rivelazione.

Non c’è niente di mistico in questi processi. Basta cercare, trovare e fare propria la bellezza. E poi esaltarsi nell’estasi. L’idea dell’artista e la volontà naturale sono verità che il sensibile, all’intellegibile compete riferirlo, individua e vive grazie all’esperienza trans-dimensionale, che è tanto più reale, tanto più viva, tanto più credibile, quanto il sé riesce a donarsi alle molteplicità e condividere con esse il tutto.

In fondo, cos’è la natura se non la più meravigliosa opera d’arte?

 

Immagine: Picasso, I tre musici, 1921

 

47 – COMUNITÀ: FEDERALISMO

47 – COMUNITÀ: FEDERALISMO

 

«A questo punto, se mi consente, spenderei due parole sul federalismo

«Perché?»

«Giusto per riempire i vuoti emotivi che ci separano!» ironizzai.

Pottutto sollevò un sopracciglio e con un sorriso bonario: «Magari un giorno rideremo di tutto questo!»

«Magari un giorno!» replicai.

«Già!» proferì fissando il vuoto come un depresso che ha finito il Prozac.

Manganello intuì e: «Dotto’, chiamo il bar per un aperitivo?». Rafforzò la proposta: «Magari con due stuzzichini, qualche schiacciatina, dei pezzettini di pizza…»

«Sempre a mangiare pensa lei?»

«Bisogna pur dare un senso alla vita!»

«Dicevo del federalismo… Intanto una precisazione: troppo spesso viene confuso col decentramento. Con quest’ultimo il potere trasferisce autorità a organi periferici che da lui dipendono. Il federalismo, invece, sviluppa un’organizzazione che parte dal basso esaltando il concetto di autonomia. L’anarchia è federalista perché non prevede la ripartizione di un potere centrale, ma si struttura in entità autonome e libere che si relazionano orizzontalmente. Come le persone sono sovrane e coesistono rispettando l’eguale libertà, le comunità sono entità dotate di propria funzionalità, regole, scopi, dinamiche, unicità. Al tempo stesso però, esattamente come i membri di un aggruppamento, agiscono in continua interconnessione favorendo lo sviluppo reciproco. Il meccanismo è il solito…»

«Lasciamo perdere la propaganda!»

«Non era mia intenzione!» dissi. «Sa com’è, però… Ricordo di aver letto una volta un bel libro su Pinelli in cui si diceva che quando incontrava qualcuno prima mostrava una targhetta con scritto io sono un anarchico, poi cominciava a discorrere di politica25… Abbiamo nel sangue l’educazione alla libertà!»

«Se lo tenga per Sevizia!» mugugnò Manganello.

«Cosa, l’insegnamento di Pinelli?» chiesi ingenuamente.

«Il sangue. Adora veder zampillare la vostra libertà!»

«Maresciallo non faccia l’arrogante!». Pottutto lo riprese. «Ma non mi aveva promesso di testare quel nuovo sistema a conduzione elettrica?» bisbigliò al suo orecchio.

Sviai con un sorrisetto accondiscendente: «Anche fra comunità si applica il principio del libero accordo. Vengono realizzati protocolli per ogni tipo di relazione: da quella commerciale a quella che, seppur impropriamente, potremmo definire giuridica, da quella culturale allo scambio di informazioni, dalla tutela alla difesa dal Mostro…»

«Di quali mostro parla?»

«Lo Stato, naturalmente!» dissi. «La rete di queste comunità dà vita alla Confederazione, che svolge principalmente funzione di garanzia e collegamento. Quando ad esempio una di esse viene scoperta, le altre intervengono in suo aiuto coordinate dall’Assemblea Confederale.»

«Quindi la confederazione comprende tutte le comunità?»

«In linea di massima sì, ma non necessariamente. L’adesione non è obbligatoria, anche se è fondamentale per la sopravvivenza, soprattutto finché c’è lo Stato.»

«E come le sceglie?»

«La Confederazione non sceglie. Sono le comunità che liberamente decidono di costituirla o di farne parte. Può essere organizzata, ad esempio, su base territoriale. Avete mai sentito parlare della Confederazione Valbisenzio che riunisce tutte le associazioni anarchiche della zona di Prato?»

«Spieghi un po’?»

«Non l’avete mai sentita perché non esiste!»

Non avrei dovuto, ma scoppiai a ridere.

«Non si prenda gioco di noi!»

«Vi prendo talmente sul serio che l’ho inventata!». Mi ricomposi: «Però è reale quello che ho detto e cioè che esistono confederazioni su base territoriale. Anche se la maggior parte sono costituite per affinità, per cui può capitare che aderiscano gruppi anche molto distanti fra loro.»

«E come fanno?» chiese il maresciallo.

«Come fanno cosa?»

«Se sono distanti, come si relazionano?»

«Ẻ un metodo infallibile. Non lascia tracce, non è intercettabile, non parla…»

«Me lo dice o non me lo dice?»

«Usiamo gli uccelli viaggiatori!» dissi.

«Uccelli viaggiatori?». Avvinazzò per lo stupore. «Corvi o piccioni?»

«La sta prendendo in giro!» intervenne Pottutto. E a me: «Suppongo quindi ci sia poi una sorta di Grande Confederazione che le riunisce tutte?»

«No. Non esiste una confederazione unica. Sarebbe impossibile assicurarne la funzionalità e, forse, si rischierebbe di creare una sovrastruttura accentratrice che altererebbe l’equilibrio» dissi. «Ogni Confederazione però è dotata di un’Assemblea che si ritrova periodicamente. È composta da un membro nominato da ciascuna comunità…». Mi fermai sperando in una loro reazione. «Ho appena detto un membro nominato… Non vi si è accesa la lampadina?»

Sventolai le mani davanti ai loro occhi come se dovessi rianimarli.

«Questo è uno dei pochi casi in cui i libertari non agiscono personalmente ma delegano». Mi sentivo quasi offeso da tanta indifferenza. «Convocare tutte le comunità sarebbe impossibile. E non solo per motivi logistici. Per cui, ogni volta che l’assemblea si riunisce, ciascuna nomina un rappresentante.»

«Mi perdoni, non avevo colto!» confessò Pottutto.

«Ciò è possibile perché non ha potere decisionale. Altrimenti…»

«Altrimenti non sarebbe possibile?» chiese.

«Bravo dottore!», lo incoraggiai. «Oltre a occuparsi della garanzia e del coordinamento fra le collettività che la compongono, l’Assemblea ha infatti il compito di relazionarsi con le omologhe in un confronto continuo. Ma soprattutto, assolve funzioni consultive fornendo pareri illustrativi, chiarificatori, orientativi.»

«Una specie di Corte Costituzionale!»

«Senza però che i loro membri guadagnino stipendi a sei cifre!» ironizzai. «E poi le loro deliberazioni non hanno forza vincolante.»

«E a cosa serve se non sono vincolanti?»

«Se l’avessero non sarebbero pareri. E se non fossero pareri si chiamerebbe Parlamento!»

«Ineccepibile!»

«La Confederazione non può interferire sulle scelte di una comunità. La sua competenza è meramente propulsiva, consultiva, di raccordo e coordinamento. Anche quando interviene, che so, per sanare una controversia fra associazioni, il suo responso è esimente visto che le decisioni devono essere deliberate espressamente dagli individui. In questo caso, infatti, se le parti litiganti non si conciliano, spetta alle altre comunità orientarle alla pace o suggerirne lo scioglimento… Perché quella faccia delusa?» chiesi. «Vi garantisco che senza la sua guida sarebbe impossibile svolgere l’azione di quotidiano logoramento necessario per la causa anarchica!»

«Di quale logoramento parla?»

«Sottrarre costantemente funzioni allo Stato, ovviamente!»

Pottutto non replicò subito: «E ce lo dice così?»

«Se vuole glielo dico in esperanto, che è la lingua che utilizziamo quando ci ritroviamo!» sdrammatizzai prima di concludere. «Se la comunità è l’essenza dell’autogestione anarchica, la Confederazione è il più importante propellente di cui disponiamo. E se vogliamo che sia priva di sovranità e i delegati svolgano funzioni non deliberative né decisorie, siano scelti a rotazione e incaricati con un mandato specifico non interpretabile né derogabile, nonché temporanei e non retribuiti, è per eludere i rischi di accentramento di potere, corruzione e parzialità, evitare cioè di replicare la perversione della vostra cleptocrazia democratica…»

«Non so cosa voglia dire cleptocrazia!» crocchiò Manganello.

«Perché democratica lo sa?».

 

NOTE

 

– 25 Licia Pinelli, Piero Scaramucci, Una storia quasi soltanto mia, Feltrinelli, 2009.

Editing a cura di Costanza Ghezzi

Immagine: M. C. Escher, La balconata, 1945

46 – COMUNITÀ: PARTECIPAZIONE DIRETTA

46 – COMUNITÀ: PARTECIPAZIONE DIRETTA – segue

 

«Presupposto fondamentale dell’autogestione è la partecipazione diretta: condivisione delle decisioni ed equa contribuzione alle attività comuni.»

«Il bene comune!» assentì Pottutto.

«Il bene che i membri del gruppo approvano e vogliono conseguire» assentii a mia volta. «E visto che non è lucrativo, le relazioni non sono gerarchiche, come invece avviene nella società del dominio. Nessuno prevale sull’altro e tutti collaborano per attuare i reciproci interessi, aspirazioni, potenzialità.»

«Ma che potenzialità possono avere se non c’è un guadagno?» mi interrogò il PM.

«Perché una persona si realizza solo se lavora per spendere denaro?»

«Quello fanno gli uomini!»

«Perché quello è stato insegnato. Perché quello hanno imparato a fare. Perché l’educazione, la morale, la legge, l’opinione pubblica sono paraocchi che oscurano la personalità.»

«Ma se il cavallo si spaventa io cado a terra!» brontolò Manganello.

«Ma noi non siamo il cavaliere, siamo il cavallo!» replicai. «Non credo che la morte dia molte altre possibilità . Per questo abbiamo il dovere di rendere la nostra esistenza un’opera d’arte. Ciò è plausibile soltanto se riusciamo ad emergere dall’abisso annichilente della materialità e ci immergiamo nella bellezza estatica dell’unità indifferenziata di cui facciamo parte. E, come diceva Benedetto Croce, l’arte non ha niente a che vedere con l’utile».

Pottutto osservava la pallina di pongo passare da una mano all’altra.

Manganello si scorticava un brufolo vicino alla narice.

Ripresi a parlare: «Affinché la logica del dominio non prevalga sulle buone intenzioni, occorre che le volontà si accordino. Lo stesso Proudhon asseriva che i reciproci interessi possono conciliarsi attraverso un sistema di contratti stipulati fra cittadini con i quali organizzare la società dal basso piuttosto che dall’alto21.  Accordi in cui sia garantito che non vi è Stato, da una parte o dall’altra, né ingannatore né ingannato né frodatore né frodato: in altre parole che ciascuno, durante il contratto, ha agito secondo il proprio determinismo e si è mostrato nella sua veste. Solo così possono svilupparsi rapporti di reciprocità fondati sulla solidarietà volontaria, socialità volontaria, reciprocità volontaria, garanzia volontaria22. L’eguale libertà è la base della convivenza anarchica e trova la sua massima espressione nella partecipazione diretta consensuale.»

«Quel tutti decidono tutto che diceva prima?»

«Quello!» ribadii. «La partecipazione diretta è un metodo che consente di arricchire l’individuo di quella razionalità, di quel senso di mutualità e giustizia, di quella vera libertà che assicura un cittadino capace e creativo. Consiste nella possibilità di ogni membro della comunità di decidere personalmente. Decide personalmente al momento della costituzione e dell’ingresso nel gruppo, decide personalmente gli obiettivi e i mezzi, decide personalmente le regole. Chiunque è attore di se stesso e protagonista della vita comune. Perché si è liberi quando si può scegliere il proprio destino, di cui si è responsabili per le scelte fatte. La determinazione condivisa, creando interdipendenza all’interno di una comunità solidale, è pertanto etica civica, come la chiamava Bookchin23, in cui la propria personalità si realizza attraverso la responsabilità verso la comunità».

Al mio perentorio: «Ma non basta!», Pottutto sobbalzò: «Potrebbe evitare questo tono, che mi mette ansia?»

Mi scusai.

«Ma ciò non è sufficiente» dissi più moderatamente. «Perché la partecipazione sia completa occorre che la deliberazione non sia maggioritaria. Ne ho già parlato: la maggioranza è sempre supremazia di qualcuno su qualcun altro, che deve adattarsi pena la sanzione o l’isolamento. La socialità, invece, si esalta quando non è competizione, ma armonia. Non è una gara in cui vince il più forte, ma condivisione di un progetto. Per questo la pronuncia deve essere unanime.»

«Si devono mettere tutti d’accordo?»

«Senza il consenso unitario non si decide» dissi. «Ciò può richiedere più tempo, discussioni più approfondite, anche confronti serrati, ma la sintesi deve essere condivisa e tutti devono sentirsi vincitori.»

«Non c’è bisogno le dica che è impossibile!»

«Anche l’anarchia sembra impossibile eppure, se la temete, significa che è già una possibilità. Sperimentare è nella nostra natura, sbagliare in quella umana. Una volta che si è consapevoli di questo, ogni fallimento è un successo.»

«Ma che sta dicendo?» miagolò il maresciallo al pubblico ministero.

«Fa il filosofo!», questi sussurrò.

«Non lo capisco!»

«Quello fanno i filosofi!»

«Se poi si avvera ciò che dicono, tutti a citarli però!», li sferzai. «E se non si raggiunge l’unanimità, la questione viene abbandonata o rivalutata in un secondo momento, senza fretta. Detto ciò, essa non è una regola assoluta. Ogni comunità è libera di gestirsi come vuole.»

«Ha già fatto marcia indietro!» sghignazzò Manganello.

«Se i filosofi fossero coraggiosi non parlerebbero!»

«Vi ho sentito!» dissi.

Mi alzai.

«Dove va?»

«Ad agire!». Mi avviai verso la porta: «Mi scusi agente, devo passare!» parlai alla Sfinge, che Sfinge era e Sfinge rimase.

«Si rimetta a sedere!»

«Ma è vivo questo?» domandai.

«Torni a sedere, le ho detto!» tuonò il PM.

Obbedii solo perché mi premeva concludere il concetto.

Un po’ anche perché Manganello stava chiamando Sevizia.

Ma non lo diedi a vedere.

«Può capitare che alcune comunità anarchiche decidano a maggioranza o con un sistema misto: magari ricorrendovi se non raggiungono l’unanimità dopo un certo numero di votazioni. Questo si chiama pluralismo. Presupposto indispensabile è però che sia espressamente accettato da tutti e che all’oppositore sia concesso di non rispettare la deliberazione purché non crei situazioni di privilegio o sfruttamento.»

«Tipo un anarchico dell’anarchia?»

«Ovvio che l’inosservanza deve limitarsi alla singola decisione, altrimenti sarebbe più sensato cambiasse comunità» specificai. «In ogni caso, far prevalere la volontà di qualcuno su qualcun altro in un consesso antiautoritario di sviluppo armonico del bene comune mi sembra una contraddizione. L’esperienza delle comuni, delle colonie, degli eco-villaggi, delle taz, di tutti i modelli di organizzazione non gerarchica ha infatti dimostrato che quando l’interesse personale coincide con quello del gruppo, la convergenza si realizza spontaneamente».

Dopo un ghigno riluttante: «Riflettevo su una cosa…» biascicò Pottutto grattandosi il mento.

«Già, riflettiamo!». Manganello si svegliò. E al PM: «Su cosa riflettiamo?»

«Mi parla di unanimità… Ma l’unanimità non è sinonimo di quell’omologazione che lei tanto disprezza?» concluse con un’espressione identica a quella ritratta nella Autosmorfia di Giacomo Balla24.

«Anche qui mi ripeto» dissi avvilito. «L’omologazione si ha quando la minoranza è obbligata a adattarsi alla volontà della maggioranza. Se invece gli individui discutono una questione e poi la approvano consensualmente, non si uniformano, scelgono» risposi. Subito aggiunsi: «La comunità non potrà mai essere reazionaria perché opera confrontandosi continuamente con le altre sia direttamente, sia attraverso la Confederazione, la cui funzione è proprio quella di fornire stimoli che tengano conto delle mutevoli esigenze sociali, condizioni economiche, pratiche quotidiane. Non è mai isolata, mai regressiva o conservatrice o oscurantista.»

«Sembra tutto così facile!» gorgogliò Manganello.

«Lo è!»

«Non credo!»

«Neanch’io. Per realizzare la propria personalità, bisogna possederne una!».

 

NOTE

 

– 21 P.J. Proudhon, Confessioni di un rivoluzionario, 1867.

– 22 E. Armand, L’iniziazione, ivi.

– 23 Murray Bookchin, Per una società ecologica, Eleuthera, 1976.

– 24 Giacomo Balla, Autosmorfia, olio su tela, 1900.

Editing a cura di Costanza Ghezzi

Immagine: H. Matisse, La conversazione, 1912

 

45 – COMUNITÀ: AUTOGESTIONE

45 – COMUNITÀ: AUTOGESTIONE – segue

 

«Splendido!» tuonò Pottutto dopo aver guardato l’orologio. «Sono le otto e venti e non sono andato al supermercato. Se torno a casa senza spesa, la senti mia moglie!»

«Il pachistano all’angolo è aperto h24!»

«Lasci stare il pachistano!»

«Può sempre regalarle una calamita!» farfugliò il maresciallo.

Dopo una sceneggiata di mani in testa, sbuffi e lamenti, il pubblico ministero alzò il telefono: «Pronto?… Agente Lameno, buonasera. Non è che avete arrestato qualcuno nel pomeriggio?». Tappando la cornetta si rivolse a noi: «Giusto per interrogarlo quelle tre quattro ore e rincasare quando dorme!». Di nuovo all’interlocutore: «Va bene un qualsiasi spacciatore, ladruncolo, chiunque… No? Ma è sicuro? Può verificare? Magari non ci ha fatto caso… Non si distrae mai?… E non s’incazzi, era solo un’ipotesi!… Non ho detto parolacce!… Anche lei si dia una calmata!». Riattaccò e fissò il maresciallo: «Ma li educate o li prendete direttamente così?». Poi guardò me: «Prego, diceva?»

«Stavo descrivendo gli elementi principali della comunità anarchica ed ero arrivato all’autogestione. Ne ho parlato prima, per cui non mi dilungherò. «L’autogestione è la capacità dell’individuo di pensare agire in autonomia e del gruppo di decidere, organizzarsi, pianificare, difendersi, senza l’ingerenza di una volontà esterna. In una parola: autogoverno. Non è una categoria politica, né il prodotto di una scienza politica. Non è universale, non ha pretese di imporre una propria soluzione per tutta la società. In maniera plurale e sperimentale procede sottraendo campi parziali, simbolici e reali, alla sfera del dominio. In questi spazi il politico è annullato dal sociale e in tal senso autogestione è sinonimo di autogoverno: sono entrambi categorie del sociale17. Autogovernandosi la comunità sottrae potere al Potere, cioè risorse economiche e umane di cui ha bisogno per la sua conservazione e il suo progresso. Il massimo!». E pacatamente: «L’individuo non ha bisogno di chi gli dice cosa fare. Nel momento in cui rifiuta l’autorità e il profitto, comprende la meschinità di ogni egoismo. Finalmente affrancato dalla perversione della materialità, si identifica nel tutto e pensa e agisce in funzione della sua armonia.»

«Le ho già detto che mi sembra molto teorico!»

«E io ripeto che invece è pratico perché l’equilibrio si rispetta quando ogni cosa assolve il suo scopo naturale. Le faccio un esempio fuor di contesto: i fiumi sono corsi d’acqua la cui funzione è plasmare l’ambiente portandola dalla sorgente al mare. Se edifico un mulino per sfruttare la sua energia, non ne altero l’essenza: esso continua a scorrere e io macino i cereali. Se invece realizzo un impianto idroelettrico per accendere la luce di casa, trasformo le acque correnti in acque ferme rallentando il tempo di ricambio. E in questo modo creo devastanti ricadute sui processi biologici e fisici dell’ecosistema.»

«Vabbè, allora stiamo tutti al buio per salvare gli uccelli!» proferì il maresciallo sarcastico.

«Quando lo scopo è vivere in armonia col mondo, l’individuo non ha bisogno di regole che disciplinano le sue azioni, né di delegare a chicchessia i propri interessi. Opera spontaneamente affinché essa sia mantenuta. Ecco perché Malatesta affermava, pur senza cogliere la portata universale del principio, che la parte essenziale della vita sociale si compie al di fuori dell’intervento governativo18

«Sbaglio o registro una nota polemica?» disse Pottutto provocatorio.

«Non faccia il polemico!», gli fece eco Manganello.

Non polemizzai: «Lo Stato è un artificio della società del dominio in quanto il più forte ha bisogno di istituzioni per conservare i privilegi, consolidare la propria autorità e legittimare gli arbitri. È una presenza che impone con la violenza e l’inganno il modello sociale più congeniale al suo utile. L’anarchia invece è partecipazione, cioè realizzazione della propria personalità contribuendo a un progetto comune in cui ciascuno è protagonista. Quando l’individuo obbedisce è ciò che altri vogliono sia. Quando costruisce è se stesso. E così deve essere perché lo scopo della vita è che la volontà esploda in tutta la sua potenza. E ciò può avvenire soltanto se si fonde alle molteplicità in una simbiosi che persegue la naturale armonia.»

«E pensa che gli uomini siano capaci di fare meglio dello Stato?»

«Di sicuro è meglio per se stessi!»

«Alla fine creerebbero solo istituzioni che lo riproducono!»

«No!» sbottai esasperato. «Perché cambiati gli antefatti, l’autogestione è confronto e decisionalità continua, orizzontale, e tendenzialmente consensuale, senza il bisogno di deleghe permanenti, di norme unificanti19. Nonché un adattamento incessante all’ambiente, alle esigenze, al divenire della vita stessa, che dimostra di essere flessibile, cioè in continua costruzione, passibile di modifiche e tentativi di miglioramento in corso d’opera, com’è proprio delle sperimentazioni, e consapevole che tale dinamica è necessaria per trovare soluzioni ed evitare la ricomparsa di meccanismi burocratici tipici delle istituzioni governative20. Solo quando l’individuo si determina, cioè si emancipa dalle pastoie dell’autoritarismo e condivide la propria autonomia attraverso rapporti personali improntati alla solidarietà, alla reciprocità e all’imprescindibile affinità col mondo circostante, può dirsi realmente libero. Solo nella comunità realizza pienamente se stesso

«Qualche esempio?»

«La Comune di Parigi del 1871, i Soviet ucraini machnovisti, le assemblee di villaggio durante la rivoluzione spagnola del 1936…»

«Perché non le prime congregazioni cristiane!» aggiunse sarcastico. «Torni al presente, per cortesia!»

«Vuole che le parli dello zapatismo e del Rojava?»

«Cos’è, uno yogurt?» grugnì il PM sprezzante. «Mi riferivo alle vostre!»

«Alle nostre?». Ridacchiai. «Diceva delle nostre!» sghignazzai battendo la mano sul tavolo. «Capito maresciallo, diceva delle nostre!». Quasi piangevo dalle risate. Smisi di ridere perché sembravano non apprezzare la mia ilarità.

«Ma se vi auto-governate, significa che nessuno governa. E se nessuno governa, chi governa?». Il PM per primo ruppe il silenzio.

«Dottore, gliel’avrò detto almeno un milione di volte!»

«Lo ripeta per Manganello!»

«Nella comunità anarchica non ci sono leader, né capi. Le decisioni sono prese personalmente, senza delega. Ogni volta si applica quello che Ward definisce principio della lavorazione composta. Presente i minatori?»

«Spiace ma non ne conosco!»

«Prima di entrare in miniera si dividono in gruppi, ciascuno dei quali stabilisce come procedere all’estrazione. Non c’è un capo che organizza il lavoro e non c’è nessuno che comandi all’interno del gruppo. Definita l’attività, ognuno sa cosa deve fare e lo fa nel migliore dei modi. Alla fine si dividono i proventi pro quota e non per mansione. In questo modo ciascuno è responsabile della propria azione e ciascuno ha interesse che il compagno realizzi al meglio il suo servizio. Personalità e solidarietà: questa è anarchia

«Mi piace il paragone fra gli anarchici e i minatori!». Manganello gorgogliò.

«Suggestivo, vero?»

«È dove vi metterei tutti… in miniera intendo. E poi puff!» concluse disegnando con le mani un’esplosione.

 

NOTE

– 17 Guido Candela e Antonio Senta, La pratica dell’autogestione, 2017.

– 18 Errico Malatesta, Anarchia, ivi.

– 19 Guido Candela e Antonio Senta, La pratica dell’autogestione, ivi.

– 20 EZLN Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale, Il pensiero critico di fronte all’idra capitalista, 2015.

Editing a cura di Costanza Ghezzi

Immagine: Mark Kostabi, Love, 1921