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DAL DOMINIO ALLA COMUNITA’ AUTARCHICA

Non ci giro intorno: finché le persone si identificheranno nel profitto, libertà ed eguaglianza rimarranno retorica. Maggiore è l’accumulazione, maggiore è il potere che ne consegue e, di conseguenza, chi ne ha di più prevale su chi ne ha meno, chi ne ha meno su chi non ne ha, chi non ne ha se la prende con gli immigrati!

Battute a parte, gli squilibri umani, sociali, naturali che esso provoca dovrebbero essere sufficienti per disprezzarlo e dedicarsi a una nuova concezione di esistenza. Invece non è così. Le persone sono talmente narcotizzate dal desiderio di accumulare che si comportano come l’affamato davanti alla tavola imbandita, che afferra e divora qualunque cosa riesca a prendere finché non sviene esausto. Con una piccola differenza: che se a lui basta vomitare per riprendersi, la vita non consente seconde opportunità.

Di sicuro il bombardamento incessante messo in atto dal capitalismo ha raso al suolo i neuroni dell’uomo moderno. Ma la causa di tale dipendenza non può essere solo il condizionamento mediatico o il desiderio di emulare l’ostentazione dell’abbiente. Altrimenti non si spiegherebbero le infinite guerre fra miserabili che logorano l’umanità dalla notte dei tempi.

Credo invece che la vera ragione per cui l’individuo ha bisogno di identificarsi nella materialità sia la necessità di compensare l’inquietudine della finitezza esistenziale. Disporre di beni, ammassandoli o capitalizzandoli, ripristina l’autostima lesa dalla natura mortale. Padroneggiarli inebria di onnipotenza. La precarietà dell’esistenza è un tarlo che perseguita anche il soggetto più superficiale e così l’uomo vive per possedere perché il possesso è il modo più veloce per dare un senso alla vita. Senza trascurare che consente di affrontare con maggior sicurezza la competizione sociale e con l’ambiente e talvolta gratifica pure, vedi la soddisfazione di graffiare il macchinone parcheggiato a cazzo o rifarsi il guardaroba eludendo la sorveglianza.

Nella maggior parte dei casi, però, al godimento di uno fa da contraltare la soggezione e la sofferenza di molti. E questo è un problema! Eppure il creato insegna che gli stormi confondono il rapace, le mandrie si difendono dal predatore. Per non citare le solite formiche, vespe e così via. Gli animali attivano forme di organizzazione collettiva nell’interesse comune. E fra le piante vige il medesimo principio antiautoritario attuato mediante l’interconnessione continua con cui le radici si scambiano informazioni e nutrienti. Se quindi la natura opera con il “mutuo appoggio” nell’interesse comune (Kropotkin), l’uomo sopraffà e distrugge per narcisismo. E si sente pure figo.

La verità è che il desiderio di possedere beni imprigiona la volontà in gabbie effimere, anziché consentirle di realizzarsi in tutta la potenzialità. Potenzialità che è semplicemente amore. Amore che deve essere puro e spontaneo per appagare pienamente. Solo quando è libera di amare incondizionatamente, infatti, può unirsi alle infinite molteplicità. Ecco perché scegliere di rifiutare le falsità consolatorie per unirsi all’indistinto è una rivoluzione etica. “Essere con”, “essere per”, “essere in” in una metamorfosi spontanea in cui la volontà si rinnova nel continuo divenire della vita. Bisogna perdere l’egotismo per fondersi con l’ambiente e, nelle relazioni sociali, creare consorzi autogovernati e interdipendenti in cui ciascuno possa realizzare se stesso in una continua interconnessione col prossimo.

Comunità è la parola chiave per creare empatia, immedesimazione, contagio emotivo necessari alla fusione d’identità. Comunità con le entità circostanti. Comunità con affini. Fondersi nella realtà da protagonisti. Ma per farlo bisogna essere umili e modesti. Puri. Abbandonare i desideri materiali, il giudizio omologante, l’interesse edonista, tutto ciò che altera l’equilibrio personale e impedisce di cogliere l’armonia delle cose e godere del divenire di cui fanno parte. E ciò è possibile solo eliminando la futilità. Che non significa vegetare o vivere come asceti, ma partecipare alla processualità della vita che esplode nelle sue infinite manifestazioni affinché divengano proprie. Essere albero che frescheggia quando le fronde oscillano al vento, rugiada che riposa sulle foglie, il cane che corre sul prato, la processionaria che striscia e il dolore che prova mentre la schiaccio perché il mio Darko la sta puntando.

Applicando il concetto alle relazioni sociali, la comunità non può che essere autarchica. Non quella pratica dirigista che decreta l’intervento statale nell’economia mediante la regolamentazione del mercato e il controllo centralizzato degli scambi. Tipo il fascismo. Tantomeno quella socialista o comunista che, più o meno celatamente, hanno sempre guazzato nel mercato e nella soggezione autoritaria. Parlo di autarchia anarchica, che spoglia il concetto del suo esclusivo significato economico per restituirgli l’antico valore filosofico di derivazione cinica e stoica. Dalla prima corrente riprende l’autonomia e il rigetto delle regole che impediscono all’individuo di conseguire la felicità. Dalla seconda che la “padronanza del sé” si raggiunge perseguendo una pratica ispirata al controllo delle passioni, al rifiuto delle comodità artefatte e all’equilibrio dello spirito attraverso la saggezza, senza però abbandonare il piacere della relazione e della solidarietà.

Ẻ l’inizio di una nuova tappa dell’evoluzione umana in cui essere “padrone di se stesso” vuol dire “bastare a se stesso”. Una scelta etica in cui ridefinire i rapporti con gli altri, con la natura e, nondimeno, con se stessi. Un nuovo modello di autosufficienza sviluppata attraverso l’autogoverno e lo sfruttamento delle proprie risorse, dove l’individuo non fa economia, non si appropria e accumula, ma produce per soddisfare i bisogni primari propri e altrui e condivide gli interessi senza imposizioni o regole, senza centri di potere e divisioni fra dominanti e dominati.

Con un solo limite: non può essere imposta. La scelta deve essere volontaria ed è volontaria quando si cambia il rapporto con la contingenza. Ecco perché, prima ancora di cancellare il governo e le sue strutture, bisogna eliminare gli artifici mentali, le illusioni, fra le quali il profitto gioca un ruolo primario nella società del dominio. Non è una rinuncia, ma la via per la libertà. Perché solo chi è libero, cioè affrancato dagli inganni corruttivi, possiede l’unica cosa che conta: la genuinità necessaria per assaporare l’estasi della comunione.

Non escludo che questo affrancamento possa avvenire in solitudine, dove però l’effetto presto sparisce nella malinconia del silenzio, ma è nel gruppo che si esalta. Unità di intenti, parità di rango, pluralismo di idee, solidarietà vera realizzati in un confronto continuo e paritario di economia sostanziale in cui si sviluppino attività ancestrali come l’orticoltura, la selvicoltura, la pesca, l’artigianato e tutte quelle che non creano squilibri e non saccheggiano il mondo. La produzione deve concentrarsi sui beni necessari e poi cessare. Non esiste industria, fabbricazione di massa e il commercio è scambio di necessità. Il lavoro deve essere organizzato applicando il principio fourierano per cui il tempo lavorato va impiegato in attività diversificate: dalla terra al laboratorio, dal laboratorio alla scuola, dalla scuola ad attività pubbliche e così via. Le eventuali eccedenze devono essere impiegate in attività sociali, o per favorire l’esportazione-importazione intercomunitaria dei prodotti basilari, o distribuite per garantire il minimo necessario a chi, per qualunque motivo, non può contribuire. Perché oggi a me è andata meglio che a te, ma domani chissà!

Il progetto è semplice come respirare in un’alba tersa.

L’unico ostacolo consiste nel rimuovere le contaminazioni che ammorbano la società del dominio, senza cui è impossibile crearne una nuova. Uno slancio consapevole che richiede il coraggio del divergente, la determinazione del giusto, la passione dell’innamorato, non facili da trovare o esprimere in tempi mistificatori dove i dissidenti vengono ignorati, disprezzati, ridicolizzati, isolati, poi eliminati dal consesso sociale. Eppure basterebbe riappropriarsi della ragione, non dico neanche del più elitario sentimento, e magari evitare di usarla per annientare il mondo. Abbiamo capito che in quello siamo i numeri uno, ora proviamo ad esserlo dove conta davvero!

23- INGRANAGGI MENTALI: LA RELIGIONE

23- INGRANAGGI MENTALI: LA RELIGIONE

«Il primo ostacolo è la religione. Non mi riferisco soltanto alla venerazione di Dio, Allah o Odino, eccetera, ma a ogni dottrina che inebetisce la ragione e il sentimento proiettando il sé fuori dall’esperienza. La religione nasce da un bisogno di risposte alle domande su cosa accade dopo la morte e, di conseguenza, quale è il senso della vita. Alla prima ribatte con fantasie più o meno bizzarre in cui divinità mattacchione si prendono gioco di noi ma noi le amiamo lo stesso perché siamo masochisti. Alla seconda replica concependo regole di condotta la cui osservanza favorisce un miglior soggiorno eterno. Facile comprendere come la definizione delle medesime sia ambita dal Potere quale strumento di controllo sociale. Ovviamente non è il luogo per analizzare come le religioni ottenebrino la ragione e deformino l’emozione…»

«Bravo!». Pottutto e Manganello applaudirono.

«Ma non posso ignorare che anche la religione sia l’antitesi dell’autodeterminazione» decretai. «Il credente, infatti, non opera per se stesso o per gli altri, ma per ingraziarsi la benevolenza dell’entità venerata. Si comporta secondo la sua volontà e la invoca sia affinché interceda negli affari mondani, sia per assicurarsi un posticino temperato per l’eternità…»

«Dovrebbe far ridere?» chiese Pottutto irritato.

«In realtà dovrebbe far piangere!» lo provocai.

 «Il fedele è una persona fragile a cui non basta la vita per trovare risposte. Ha talmente bisogno di rassicurazioni che, potesse, tornerebbe nell’utero materno!»

«Questa invece mi fa impressione!» esclamò Pottutto.

 «All’opposto l’anarchico, diciamo il negatore in generale, trova nell’esperienza la propria ragione. C’è una bellissima frase di Severino de Giovanni a riguardo. Parla del ribelle e fa suppergiù così: vivere in monotonia – si riferisce all’esistenza ordinaria – non è vivere, è solo vegetare e trasportare in forma deambulante una massa di carne e ossa. Alla vita è necessario dare l’elevazione squisita, la ribellione del braccio e della mente1

«Che esagerazione!» gorgogliò Manganello.

«Non le piace?»

«Mi sembra una stupidaggine: il braccio e la mente che si ribellano… cos’è un malato di Parkinson?»

«Non intendeva in quel senso!». Pottutto lo corresse. «Prego, prosegua!» a me.

«Detto che è nella natura umana il bisogno di conforto, sapete perché esso deve essere realizzato da un’entità trascendente

«No!» disse il magistrato.

«Io non so neanche che vuol dire trascendente!» aggiunse il maresciallo.

«La risposta è semplice: pur non ammettendolo per orgoglio e perché è meglio tacere si sa mai portasse male, l’uomo disprezza talmente ciò che è e come vive che si deresponsabilizza delegando la propria sorte all’immaginazione. Chiude gli occhi e se qui è caos, di là è pace; se qui è odio, di là è amore; se qui è niente, di là è tutto. Ma perché il sogno si realizzi occorre che l’artefice sia onnipotente, onnisciente, indefettibile, intellegibile, intangibile… insomma, tutto ciò che l’uomo non è2! Non a caso, infatti, i paradigmi della religione sono sempre stati gli dei che guardano dall’alto, gli uomini che ne subiscono i capricci, il culto per mantenerli tranquilli e sereni. Le religioni monoteiste hanno prodotto un salto di qualità: anziché tante divinità, ce n’è una sola creatrice e imperante. Si è passati dal politeismo, che possiamo immaginare come una moderna famiglia allargata, paternalistica ma tollerante, al patriarcato in cui il padre burbero ordina e i figli obbediscono per evitare gli schiaffoni. Monoteista è il cristianesimo, ma anche l’ebraismo, l’islamismo e compagnia cantante.»

«E l’Induismo?»

«Più che una religione, direi che è un insieme di credenze.»

«Il Buddismo?»

«Forse più una filosofia!»

«E tifare il Napoli? Quella sì che è una religione!» si interpose Manganello.

 «Questo passaggio ha sancito anche il mutamento del rapporto col sacro: se una volta bastava un banalissimo sacrificio per amicarsi quella o quell’altra divinità, per alimentare la concordia ed evitare che gli dei riversassero i loro capricci sulla terra, con il dio unico e assoluto l’uomo ha subordinato la propria volontà alla sua rinunciando a ogni possibilità di determinarsi».

«Ma c’è il libero arbitrio!» obbiettò Pottutto.

«Che giustifica la responsabilità, quindi il senso di colpa e la conseguente sanzione divina!» chiarii. «Infatti Dio ci dice che si è liberi di fare una cosa anziché un’altra. Ma se facciamo l’altra ci punisce. Geniale! Così geniale che tutte le manifestazioni di potere che nei secoli si sono succedute hanno scimmiottato questo principio!» dissi. «La verità è che la religione è il più potente dei costrutti in quanto agisce sulla fragilità umana creando regole, dogmi, imposizioni a cui è impossibile sottrarsi. Si chiama morale. Ogni religione ha la sua. Inderogabile!»

«E cos’altro si aspetta da una religione?»

«Dalla religione niente. Dalle persone, invece, che si guardino intorno e cerchino la propria essenza. Poi sollevino gli occhi e godano dell’essere parte del tutto. Vivere armonicamente con ciò che ci circonda è l’unico scopo della vita. Si è liberi nella consapevolezza di ciò, si è eguali nella sua pratica. Pur essendo una banale verità, invece, l’uomo preferisce obbedire. Con l’effetto che c’è sempre qualcuno che si appropria dell’autorità e ne approfitta per il proprio tornaconto.»

«Dimentica però che credere è un atto di fede

«Non c’è dubbio. Poiché se la logica dimostra tutto e il suo contrario, non rimane che appellarsi all’emotività, la più democratica e distinguibile delle esperienze umane. Dio esiste per chi ha un cuore grande: chi lo ignora è una persona arida e malvagia! E così, zitta zitta, la religione ci rifila la più pervicace delle gerarchie: quella fra buoni e cattivi.»

«Non mi piace questo sarcasmo!» obiettò Pottutto.

«Perché, lei crede in Dio?» gli domandai.

«Certamente!»

«E lei?» chiesi a Manganello.

Il maresciallo aprì con disinvoltura il bottone della divisa e da sotto un quintale di pelo esibì una croce dorata avvolta da una schiera di ciondoli: «Questa è la Madonna di Lourdes, questo è San Bernardo da Aosta protettore degli alpinisti, questo è San Ignazio di Loyola protettore dei militari, poi c’è San Vincenzo Ferrer protettore dei muratori, San Pasquale protettore dei cuochi, San Erasmo che protegge dall’acidità di stomaco, San Dionigi per il mal di testa, oltre a…»

«E quello?»

«Questo? Questo è il cornetto che mi ha regalato la mia nonnina!»

«I suoi amici, invece?» mi sferzò Pottutto. «Sono con o contro Dio?»

«Con o contro… Mica siamo nell’arena a decidere le sorti di un gladiatore!» esclamai. «Posso dire che gli anarchici non la pensano tutti allo stesso modo. Il che può suonare strano, ma in realtà è conforme al nostro pluralismo. C’è chi crede e chi no. L’importante è che nessuno imponga all’altro la propria concezione del mondo. Godwin, ad esempio, il padre dell’anarchia moderna, ma anche Tolstoj e Berneri, criticavano l’ateismo anarchico. Il primo sosteneva che la ragione fonda la religione; lo scrittore russo, invece, che il regno di Dio fosse immanente; l’agnostico Berneri, infine, sottolineava come l’ateismo intransigente rischiasse di diventare un dispotismo totalitario. In senso contrario, la maggior parte degli anarchici è convinta che della religione se ne possa fare a meno in quanto alimenta le gerarchie divine e terrene, mantiene gli esseri umani nella soggezione e nella superstizione, quindi nell’ignoranza e nella subalternità, oltre a fomentare discordie, guerre, confini, muri di incomprensione e discriminazione3».

Poiché ormai mi guardavano con espressioni tipo Giuditta di Klimt4, conclusi: «L’Assoluto è sempre una violenza poiché è il più potente strumento di manipolazione che fa leva sulla debolezza umana mascherata da senso di colpa. Per questo gli anarchici collocano il loro paradiso e la loro felicità sulla terra e vogliono godere pienamente e sanamente della vita, cioè vivere l’esperienza quotidiana con tutta la passione, la forza, l’altruismo, il coraggio, la determinazione, l’amore possibile, come dice Emile Armand. E come dargli torto? Non vedo che senso abbia agognare l’immortalità quando è noto a tutti che le cose belle finiscono sempre!».

 

 

NOTE

– 1 Severino De Giovanni da articolo su Filosofia antiautoritaria del 2.8.22.

– 2 Così parlava Lidwig Feuerbach in L’Essenza del Cristianesimo del 1843.

– 3 Pippo Guerrieri, L’Anarchia spiegata a mia figlia, BSF Edizioni, 2018.

– 4 Gustav Klimt, Giuditta, olio su tela, 1901.

In foto Marc Chagall, Crocifissione Bianca, 1938

Editing a cura di Costanza Ghezzi