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47 – COMUNITÀ: FEDERALISMO

47 – COMUNITÀ: FEDERALISMO

 

«A questo punto, se mi consente, spenderei due parole sul federalismo

«Perché?»

«Giusto per riempire i vuoti emotivi che ci separano!» ironizzai.

Pottutto sollevò un sopracciglio e con un sorriso bonario: «Magari un giorno rideremo di tutto questo!»

«Magari un giorno!» replicai.

«Già!» proferì fissando il vuoto come un depresso che ha finito il Prozac.

Manganello intuì e: «Dotto’, chiamo il bar per un aperitivo?». Rafforzò la proposta: «Magari con due stuzzichini, qualche schiacciatina, dei pezzettini di pizza…»

«Sempre a mangiare pensa lei?»

«Bisogna pur dare un senso alla vita!»

«Dicevo del federalismo… Intanto una precisazione: troppo spesso viene confuso col decentramento. Con quest’ultimo il potere trasferisce autorità a organi periferici che da lui dipendono. Il federalismo, invece, sviluppa un’organizzazione che parte dal basso esaltando il concetto di autonomia. L’anarchia è federalista perché non prevede la ripartizione di un potere centrale, ma si struttura in entità autonome e libere che si relazionano orizzontalmente. Come le persone sono sovrane e coesistono rispettando l’eguale libertà, le comunità sono entità dotate di propria funzionalità, regole, scopi, dinamiche, unicità. Al tempo stesso però, esattamente come i membri di un aggruppamento, agiscono in continua interconnessione favorendo lo sviluppo reciproco. Il meccanismo è il solito…»

«Lasciamo perdere la propaganda!»

«Non era mia intenzione!» dissi. «Sa com’è, però… Ricordo di aver letto una volta un bel libro su Pinelli in cui si diceva che quando incontrava qualcuno prima mostrava una targhetta con scritto io sono un anarchico, poi cominciava a discorrere di politica25… Abbiamo nel sangue l’educazione alla libertà!»

«Se lo tenga per Sevizia!» mugugnò Manganello.

«Cosa, l’insegnamento di Pinelli?» chiesi ingenuamente.

«Il sangue. Adora veder zampillare la vostra libertà!»

«Maresciallo non faccia l’arrogante!». Pottutto lo riprese. «Ma non mi aveva promesso di testare quel nuovo sistema a conduzione elettrica?» bisbigliò al suo orecchio.

Sviai con un sorrisetto accondiscendente: «Anche fra comunità si applica il principio del libero accordo. Vengono realizzati protocolli per ogni tipo di relazione: da quella commerciale a quella che, seppur impropriamente, potremmo definire giuridica, da quella culturale allo scambio di informazioni, dalla tutela alla difesa dal Mostro…»

«Di quali mostro parla?»

«Lo Stato, naturalmente!» dissi. «La rete di queste comunità dà vita alla Confederazione, che svolge principalmente funzione di garanzia e collegamento. Quando ad esempio una di esse viene scoperta, le altre intervengono in suo aiuto coordinate dall’Assemblea Confederale.»

«Quindi la confederazione comprende tutte le comunità?»

«In linea di massima sì, ma non necessariamente. L’adesione non è obbligatoria, anche se è fondamentale per la sopravvivenza, soprattutto finché c’è lo Stato.»

«E come le sceglie?»

«La Confederazione non sceglie. Sono le comunità che liberamente decidono di costituirla o di farne parte. Può essere organizzata, ad esempio, su base territoriale. Avete mai sentito parlare della Confederazione Valbisenzio che riunisce tutte le associazioni anarchiche della zona di Prato?»

«Spieghi un po’?»

«Non l’avete mai sentita perché non esiste!»

Non avrei dovuto, ma scoppiai a ridere.

«Non si prenda gioco di noi!»

«Vi prendo talmente sul serio che l’ho inventata!». Mi ricomposi: «Però è reale quello che ho detto e cioè che esistono confederazioni su base territoriale. Anche se la maggior parte sono costituite per affinità, per cui può capitare che aderiscano gruppi anche molto distanti fra loro.»

«E come fanno?» chiese il maresciallo.

«Come fanno cosa?»

«Se sono distanti, come si relazionano?»

«Ẻ un metodo infallibile. Non lascia tracce, non è intercettabile, non parla…»

«Me lo dice o non me lo dice?»

«Usiamo gli uccelli viaggiatori!» dissi.

«Uccelli viaggiatori?». Avvinazzò per lo stupore. «Corvi o piccioni?»

«La sta prendendo in giro!» intervenne Pottutto. E a me: «Suppongo quindi ci sia poi una sorta di Grande Confederazione che le riunisce tutte?»

«No. Non esiste una confederazione unica. Sarebbe impossibile assicurarne la funzionalità e, forse, si rischierebbe di creare una sovrastruttura accentratrice che altererebbe l’equilibrio» dissi. «Ogni Confederazione però è dotata di un’Assemblea che si ritrova periodicamente. È composta da un membro nominato da ciascuna comunità…». Mi fermai sperando in una loro reazione. «Ho appena detto un membro nominato… Non vi si è accesa la lampadina?»

Sventolai le mani davanti ai loro occhi come se dovessi rianimarli.

«Questo è uno dei pochi casi in cui i libertari non agiscono personalmente ma delegano». Mi sentivo quasi offeso da tanta indifferenza. «Convocare tutte le comunità sarebbe impossibile. E non solo per motivi logistici. Per cui, ogni volta che l’assemblea si riunisce, ciascuna nomina un rappresentante.»

«Mi perdoni, non avevo colto!» confessò Pottutto.

«Ciò è possibile perché non ha potere decisionale. Altrimenti…»

«Altrimenti non sarebbe possibile?» chiese.

«Bravo dottore!», lo incoraggiai. «Oltre a occuparsi della garanzia e del coordinamento fra le collettività che la compongono, l’Assemblea ha infatti il compito di relazionarsi con le omologhe in un confronto continuo. Ma soprattutto, assolve funzioni consultive fornendo pareri illustrativi, chiarificatori, orientativi.»

«Una specie di Corte Costituzionale!»

«Senza però che i loro membri guadagnino stipendi a sei cifre!» ironizzai. «E poi le loro deliberazioni non hanno forza vincolante.»

«E a cosa serve se non sono vincolanti?»

«Se l’avessero non sarebbero pareri. E se non fossero pareri si chiamerebbe Parlamento!»

«Ineccepibile!»

«La Confederazione non può interferire sulle scelte di una comunità. La sua competenza è meramente propulsiva, consultiva, di raccordo e coordinamento. Anche quando interviene, che so, per sanare una controversia fra associazioni, il suo responso è esimente visto che le decisioni devono essere deliberate espressamente dagli individui. In questo caso, infatti, se le parti litiganti non si conciliano, spetta alle altre comunità orientarle alla pace o suggerirne lo scioglimento… Perché quella faccia delusa?» chiesi. «Vi garantisco che senza la sua guida sarebbe impossibile svolgere l’azione di quotidiano logoramento necessario per la causa anarchica!»

«Di quale logoramento parla?»

«Sottrarre costantemente funzioni allo Stato, ovviamente!»

Pottutto non replicò subito: «E ce lo dice così?»

«Se vuole glielo dico in esperanto, che è la lingua che utilizziamo quando ci ritroviamo!» sdrammatizzai prima di concludere. «Se la comunità è l’essenza dell’autogestione anarchica, la Confederazione è il più importante propellente di cui disponiamo. E se vogliamo che sia priva di sovranità e i delegati svolgano funzioni non deliberative né decisorie, siano scelti a rotazione e incaricati con un mandato specifico non interpretabile né derogabile, nonché temporanei e non retribuiti, è per eludere i rischi di accentramento di potere, corruzione e parzialità, evitare cioè di replicare la perversione della vostra cleptocrazia democratica…»

«Non so cosa voglia dire cleptocrazia!» crocchiò Manganello.

«Perché democratica lo sa?».

 

NOTE

 

– 25 Licia Pinelli, Piero Scaramucci, Una storia quasi soltanto mia, Feltrinelli, 2009.

Editing a cura di Costanza Ghezzi

Immagine: M. C. Escher, La balconata, 1945

46 – COMUNITÀ: PARTECIPAZIONE DIRETTA

46 – COMUNITÀ: PARTECIPAZIONE DIRETTA – segue

 

«Presupposto fondamentale dell’autogestione è la partecipazione diretta: condivisione delle decisioni ed equa contribuzione alle attività comuni.»

«Il bene comune!» assentì Pottutto.

«Il bene che i membri del gruppo approvano e vogliono conseguire» assentii a mia volta. «E visto che non è lucrativo, le relazioni non sono gerarchiche, come invece avviene nella società del dominio. Nessuno prevale sull’altro e tutti collaborano per attuare i reciproci interessi, aspirazioni, potenzialità.»

«Ma che potenzialità possono avere se non c’è un guadagno?» mi interrogò il PM.

«Perché una persona si realizza solo se lavora per spendere denaro?»

«Quello fanno gli uomini!»

«Perché quello è stato insegnato. Perché quello hanno imparato a fare. Perché l’educazione, la morale, la legge, l’opinione pubblica sono paraocchi che oscurano la personalità.»

«Ma se il cavallo si spaventa io cado a terra!» brontolò Manganello.

«Ma noi non siamo il cavaliere, siamo il cavallo!» replicai. «Non credo che la morte dia molte altre possibilità . Per questo abbiamo il dovere di rendere la nostra esistenza un’opera d’arte. Ciò è plausibile soltanto se riusciamo ad emergere dall’abisso annichilente della materialità e ci immergiamo nella bellezza estatica dell’unità indifferenziata di cui facciamo parte. E, come diceva Benedetto Croce, l’arte non ha niente a che vedere con l’utile».

Pottutto osservava la pallina di pongo passare da una mano all’altra.

Manganello si scorticava un brufolo vicino alla narice.

Ripresi a parlare: «Affinché la logica del dominio non prevalga sulle buone intenzioni, occorre che le volontà si accordino. Lo stesso Proudhon asseriva che i reciproci interessi possono conciliarsi attraverso un sistema di contratti stipulati fra cittadini con i quali organizzare la società dal basso piuttosto che dall’alto21.  Accordi in cui sia garantito che non vi è Stato, da una parte o dall’altra, né ingannatore né ingannato né frodatore né frodato: in altre parole che ciascuno, durante il contratto, ha agito secondo il proprio determinismo e si è mostrato nella sua veste. Solo così possono svilupparsi rapporti di reciprocità fondati sulla solidarietà volontaria, socialità volontaria, reciprocità volontaria, garanzia volontaria22. L’eguale libertà è la base della convivenza anarchica e trova la sua massima espressione nella partecipazione diretta consensuale.»

«Quel tutti decidono tutto che diceva prima?»

«Quello!» ribadii. «La partecipazione diretta è un metodo che consente di arricchire l’individuo di quella razionalità, di quel senso di mutualità e giustizia, di quella vera libertà che assicura un cittadino capace e creativo. Consiste nella possibilità di ogni membro della comunità di decidere personalmente. Decide personalmente al momento della costituzione e dell’ingresso nel gruppo, decide personalmente gli obiettivi e i mezzi, decide personalmente le regole. Chiunque è attore di se stesso e protagonista della vita comune. Perché si è liberi quando si può scegliere il proprio destino, di cui si è responsabili per le scelte fatte. La determinazione condivisa, creando interdipendenza all’interno di una comunità solidale, è pertanto etica civica, come la chiamava Bookchin23, in cui la propria personalità si realizza attraverso la responsabilità verso la comunità».

Al mio perentorio: «Ma non basta!», Pottutto sobbalzò: «Potrebbe evitare questo tono, che mi mette ansia?»

Mi scusai.

«Ma ciò non è sufficiente» dissi più moderatamente. «Perché la partecipazione sia completa occorre che la deliberazione non sia maggioritaria. Ne ho già parlato: la maggioranza è sempre supremazia di qualcuno su qualcun altro, che deve adattarsi pena la sanzione o l’isolamento. La socialità, invece, si esalta quando non è competizione, ma armonia. Non è una gara in cui vince il più forte, ma condivisione di un progetto. Per questo la pronuncia deve essere unanime.»

«Si devono mettere tutti d’accordo?»

«Senza il consenso unitario non si decide» dissi. «Ciò può richiedere più tempo, discussioni più approfondite, anche confronti serrati, ma la sintesi deve essere condivisa e tutti devono sentirsi vincitori.»

«Non c’è bisogno le dica che è impossibile!»

«Anche l’anarchia sembra impossibile eppure, se la temete, significa che è già una possibilità. Sperimentare è nella nostra natura, sbagliare in quella umana. Una volta che si è consapevoli di questo, ogni fallimento è un successo.»

«Ma che sta dicendo?» miagolò il maresciallo al pubblico ministero.

«Fa il filosofo!», questi sussurrò.

«Non lo capisco!»

«Quello fanno i filosofi!»

«Se poi si avvera ciò che dicono, tutti a citarli però!», li sferzai. «E se non si raggiunge l’unanimità, la questione viene abbandonata o rivalutata in un secondo momento, senza fretta. Detto ciò, essa non è una regola assoluta. Ogni comunità è libera di gestirsi come vuole.»

«Ha già fatto marcia indietro!» sghignazzò Manganello.

«Se i filosofi fossero coraggiosi non parlerebbero!»

«Vi ho sentito!» dissi.

Mi alzai.

«Dove va?»

«Ad agire!». Mi avviai verso la porta: «Mi scusi agente, devo passare!» parlai alla Sfinge, che Sfinge era e Sfinge rimase.

«Si rimetta a sedere!»

«Ma è vivo questo?» domandai.

«Torni a sedere, le ho detto!» tuonò il PM.

Obbedii solo perché mi premeva concludere il concetto.

Un po’ anche perché Manganello stava chiamando Sevizia.

Ma non lo diedi a vedere.

«Può capitare che alcune comunità anarchiche decidano a maggioranza o con un sistema misto: magari ricorrendovi se non raggiungono l’unanimità dopo un certo numero di votazioni. Questo si chiama pluralismo. Presupposto indispensabile è però che sia espressamente accettato da tutti e che all’oppositore sia concesso di non rispettare la deliberazione purché non crei situazioni di privilegio o sfruttamento.»

«Tipo un anarchico dell’anarchia?»

«Ovvio che l’inosservanza deve limitarsi alla singola decisione, altrimenti sarebbe più sensato cambiasse comunità» specificai. «In ogni caso, far prevalere la volontà di qualcuno su qualcun altro in un consesso antiautoritario di sviluppo armonico del bene comune mi sembra una contraddizione. L’esperienza delle comuni, delle colonie, degli eco-villaggi, delle taz, di tutti i modelli di organizzazione non gerarchica ha infatti dimostrato che quando l’interesse personale coincide con quello del gruppo, la convergenza si realizza spontaneamente».

Dopo un ghigno riluttante: «Riflettevo su una cosa…» biascicò Pottutto grattandosi il mento.

«Già, riflettiamo!». Manganello si svegliò. E al PM: «Su cosa riflettiamo?»

«Mi parla di unanimità… Ma l’unanimità non è sinonimo di quell’omologazione che lei tanto disprezza?» concluse con un’espressione identica a quella ritratta nella Autosmorfia di Giacomo Balla24.

«Anche qui mi ripeto» dissi avvilito. «L’omologazione si ha quando la minoranza è obbligata a adattarsi alla volontà della maggioranza. Se invece gli individui discutono una questione e poi la approvano consensualmente, non si uniformano, scelgono» risposi. Subito aggiunsi: «La comunità non potrà mai essere reazionaria perché opera confrontandosi continuamente con le altre sia direttamente, sia attraverso la Confederazione, la cui funzione è proprio quella di fornire stimoli che tengano conto delle mutevoli esigenze sociali, condizioni economiche, pratiche quotidiane. Non è mai isolata, mai regressiva o conservatrice o oscurantista.»

«Sembra tutto così facile!» gorgogliò Manganello.

«Lo è!»

«Non credo!»

«Neanch’io. Per realizzare la propria personalità, bisogna possederne una!».

 

NOTE

 

– 21 P.J. Proudhon, Confessioni di un rivoluzionario, 1867.

– 22 E. Armand, L’iniziazione, ivi.

– 23 Murray Bookchin, Per una società ecologica, Eleuthera, 1976.

– 24 Giacomo Balla, Autosmorfia, olio su tela, 1900.

Editing a cura di Costanza Ghezzi

Immagine: H. Matisse, La conversazione, 1912

 

45 – COMUNITÀ: AUTOGESTIONE

45 – COMUNITÀ: AUTOGESTIONE – segue

 

«Splendido!» tuonò Pottutto dopo aver guardato l’orologio. «Sono le otto e venti e non sono andato al supermercato. Se torno a casa senza spesa, la senti mia moglie!»

«Il pachistano all’angolo è aperto h24!»

«Lasci stare il pachistano!»

«Può sempre regalarle una calamita!» farfugliò il maresciallo.

Dopo una sceneggiata di mani in testa, sbuffi e lamenti, il pubblico ministero alzò il telefono: «Pronto?… Agente Lameno, buonasera. Non è che avete arrestato qualcuno nel pomeriggio?». Tappando la cornetta si rivolse a noi: «Giusto per interrogarlo quelle tre quattro ore e rincasare quando dorme!». Di nuovo all’interlocutore: «Va bene un qualsiasi spacciatore, ladruncolo, chiunque… No? Ma è sicuro? Può verificare? Magari non ci ha fatto caso… Non si distrae mai?… E non s’incazzi, era solo un’ipotesi!… Non ho detto parolacce!… Anche lei si dia una calmata!». Riattaccò e fissò il maresciallo: «Ma li educate o li prendete direttamente così?». Poi guardò me: «Prego, diceva?»

«Stavo descrivendo gli elementi principali della comunità anarchica ed ero arrivato all’autogestione. Ne ho parlato prima, per cui non mi dilungherò. «L’autogestione è la capacità dell’individuo di pensare agire in autonomia e del gruppo di decidere, organizzarsi, pianificare, difendersi, senza l’ingerenza di una volontà esterna. In una parola: autogoverno. Non è una categoria politica, né il prodotto di una scienza politica. Non è universale, non ha pretese di imporre una propria soluzione per tutta la società. In maniera plurale e sperimentale procede sottraendo campi parziali, simbolici e reali, alla sfera del dominio. In questi spazi il politico è annullato dal sociale e in tal senso autogestione è sinonimo di autogoverno: sono entrambi categorie del sociale17. Autogovernandosi la comunità sottrae potere al Potere, cioè risorse economiche e umane di cui ha bisogno per la sua conservazione e il suo progresso. Il massimo!». E pacatamente: «L’individuo non ha bisogno di chi gli dice cosa fare. Nel momento in cui rifiuta l’autorità e il profitto, comprende la meschinità di ogni egoismo. Finalmente affrancato dalla perversione della materialità, si identifica nel tutto e pensa e agisce in funzione della sua armonia.»

«Le ho già detto che mi sembra molto teorico!»

«E io ripeto che invece è pratico perché l’equilibrio si rispetta quando ogni cosa assolve il suo scopo naturale. Le faccio un esempio fuor di contesto: i fiumi sono corsi d’acqua la cui funzione è plasmare l’ambiente portandola dalla sorgente al mare. Se edifico un mulino per sfruttare la sua energia, non ne altero l’essenza: esso continua a scorrere e io macino i cereali. Se invece realizzo un impianto idroelettrico per accendere la luce di casa, trasformo le acque correnti in acque ferme rallentando il tempo di ricambio. E in questo modo creo devastanti ricadute sui processi biologici e fisici dell’ecosistema.»

«Vabbè, allora stiamo tutti al buio per salvare gli uccelli!» proferì il maresciallo sarcastico.

«Quando lo scopo è vivere in armonia col mondo, l’individuo non ha bisogno di regole che disciplinano le sue azioni, né di delegare a chicchessia i propri interessi. Opera spontaneamente affinché essa sia mantenuta. Ecco perché Malatesta affermava, pur senza cogliere la portata universale del principio, che la parte essenziale della vita sociale si compie al di fuori dell’intervento governativo18

«Sbaglio o registro una nota polemica?» disse Pottutto provocatorio.

«Non faccia il polemico!», gli fece eco Manganello.

Non polemizzai: «Lo Stato è un artificio della società del dominio in quanto il più forte ha bisogno di istituzioni per conservare i privilegi, consolidare la propria autorità e legittimare gli arbitri. È una presenza che impone con la violenza e l’inganno il modello sociale più congeniale al suo utile. L’anarchia invece è partecipazione, cioè realizzazione della propria personalità contribuendo a un progetto comune in cui ciascuno è protagonista. Quando l’individuo obbedisce è ciò che altri vogliono sia. Quando costruisce è se stesso. E così deve essere perché lo scopo della vita è che la volontà esploda in tutta la sua potenza. E ciò può avvenire soltanto se si fonde alle molteplicità in una simbiosi che persegue la naturale armonia.»

«E pensa che gli uomini siano capaci di fare meglio dello Stato?»

«Di sicuro è meglio per se stessi!»

«Alla fine creerebbero solo istituzioni che lo riproducono!»

«No!» sbottai esasperato. «Perché cambiati gli antefatti, l’autogestione è confronto e decisionalità continua, orizzontale, e tendenzialmente consensuale, senza il bisogno di deleghe permanenti, di norme unificanti19. Nonché un adattamento incessante all’ambiente, alle esigenze, al divenire della vita stessa, che dimostra di essere flessibile, cioè in continua costruzione, passibile di modifiche e tentativi di miglioramento in corso d’opera, com’è proprio delle sperimentazioni, e consapevole che tale dinamica è necessaria per trovare soluzioni ed evitare la ricomparsa di meccanismi burocratici tipici delle istituzioni governative20. Solo quando l’individuo si determina, cioè si emancipa dalle pastoie dell’autoritarismo e condivide la propria autonomia attraverso rapporti personali improntati alla solidarietà, alla reciprocità e all’imprescindibile affinità col mondo circostante, può dirsi realmente libero. Solo nella comunità realizza pienamente se stesso

«Qualche esempio?»

«La Comune di Parigi del 1871, i Soviet ucraini machnovisti, le assemblee di villaggio durante la rivoluzione spagnola del 1936…»

«Perché non le prime congregazioni cristiane!» aggiunse sarcastico. «Torni al presente, per cortesia!»

«Vuole che le parli dello zapatismo e del Rojava?»

«Cos’è, uno yogurt?» grugnì il PM sprezzante. «Mi riferivo alle vostre!»

«Alle nostre?». Ridacchiai. «Diceva delle nostre!» sghignazzai battendo la mano sul tavolo. «Capito maresciallo, diceva delle nostre!». Quasi piangevo dalle risate. Smisi di ridere perché sembravano non apprezzare la mia ilarità.

«Ma se vi auto-governate, significa che nessuno governa. E se nessuno governa, chi governa?». Il PM per primo ruppe il silenzio.

«Dottore, gliel’avrò detto almeno un milione di volte!»

«Lo ripeta per Manganello!»

«Nella comunità anarchica non ci sono leader, né capi. Le decisioni sono prese personalmente, senza delega. Ogni volta si applica quello che Ward definisce principio della lavorazione composta. Presente i minatori?»

«Spiace ma non ne conosco!»

«Prima di entrare in miniera si dividono in gruppi, ciascuno dei quali stabilisce come procedere all’estrazione. Non c’è un capo che organizza il lavoro e non c’è nessuno che comandi all’interno del gruppo. Definita l’attività, ognuno sa cosa deve fare e lo fa nel migliore dei modi. Alla fine si dividono i proventi pro quota e non per mansione. In questo modo ciascuno è responsabile della propria azione e ciascuno ha interesse che il compagno realizzi al meglio il suo servizio. Personalità e solidarietà: questa è anarchia

«Mi piace il paragone fra gli anarchici e i minatori!». Manganello gorgogliò.

«Suggestivo, vero?»

«È dove vi metterei tutti… in miniera intendo. E poi puff!» concluse disegnando con le mani un’esplosione.

 

NOTE

– 17 Guido Candela e Antonio Senta, La pratica dell’autogestione, 2017.

– 18 Errico Malatesta, Anarchia, ivi.

– 19 Guido Candela e Antonio Senta, La pratica dell’autogestione, ivi.

– 20 EZLN Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale, Il pensiero critico di fronte all’idra capitalista, 2015.

Editing a cura di Costanza Ghezzi

Immagine: Mark Kostabi, Love, 1921

 

44 – COMUNITÀ: TEMPORANEITÀ E DIMENSIONI

44 – COMUNITÀ: TEMPORANEITÀ E DIMENSIONI

 

«Volontarietà significa che ciascuno è libero di costituire, entrare o uscire dalla comunità. La funzionalità è l’obiettivo che essa persegue. Una volta conseguito, o quando non è più conveniente, niente deve però impedire che l’accordo possa essere sciolto collegialmente o unilateralmente.»

«Tipo se scelgo una comunità che mangia la bistecca e poi divento improvvisamente vegetariano posso…?» guaiolò Manganello.

«Esattamente!» esclamai.

«Non accadrebbe mai. Odio le verdure!» replicò risoluto. «Ricordo che mia nonna era fissata con i broccoli e io…»

«Maresciallo, non ci interessano i broccoli di sua nonna!». Il pubblico ministero lo interruppe. E a me: «Prosegua!»

«Questa si chiama temporaneità. Da un lato favorisce la necessaria dinamicità del gruppo, evita infatti derive autarchiche o pericolose chiusure in sé, dall’altro impedisce quella concentrazione e cristallizzazione di potere che immancabilmente si sviluppa in un rapporto stabile.»

«Ma se la comunità è costituita da un numero limitato di persone, non è chiusa per definizione?». Pottutto rifletté a voce alta.

«Non quanto la società globalizzata in cui chi devia dal pensiero unico viene marginalizzato» rilevai. «È vero che riunisce persone che pensano e agiscono allo stesso modo, ma le continue relazioni fra comunità anche molto diverse fra loro e il federalismo garantiscono pluralismo e progresso. Inoltre le dinamiche di ogni aggruppamento sono inevitabilmente soggette a trasformazioni dovute all’uscita e all’ingresso dei membri che consente di rinnovare gli scopi e cambiare i mezzi, quindi di evolvere i legami di forza creatisi all’interno. Per non considerare questi ultimi che…»

«Non la seguo!»

«Non mi sono mai mosso di qui!» ironizzai. «Immaginiamo che alcuni falegnami che lavorano insieme ricevano la commessa di realizzare l’arredamento di una scuola. Pur operando in un confronto paritario, è probabile che l’esperienza di chi ha sempre creato banchi o armadietti influenzi le strategie comuni. Si verifica così una situazione simile a quella descritta da Jo Freeman con la teoria dell’assenza di struttura, per cui se un gruppo non possiede strutture gerarchiche formali, esse vengono sostituite da quelle informali, creando così un’egemonia di fatto13. Se dopo, però, gli stessi falegnami venissero incaricati di arredare le abitazioni di un quartiere residenziale, cambierebbero i fini, i mezzi e, di conseguenza, anche le competenze. Probabile, infatti, che l’opinione di chi è esperto di arredamenti domestici prevarrebbe su quella di chi ha sempre costruito banchi. Oltre gli agenti esterni e la mobilità interna, anche la dinamicità degli obiettivi impedisce pertanto l’instaurarsi di gerarchie o le armonizza.»

«Dimentica che c’è sempre chi vuole prevalere sugli altri!». Pottutto non si diede per vinto.

«Ci può essere chi ha più carisma, chi ha un’idea migliore e così via, ma quando non si è condizionati dall’antagonistico interesse e l’obiettivo è comune, le decisioni sono naturalmente armoniche. In caso contrario, il falegname può sempre uscire dal gruppo e costituirne uno proprio.»

«E così perde la commessa!»

«Ne avrà altre e sarà contento lo stesso!» dissi. E con una certa esasperazione: «La sua obbiezione parte da un presupposto sbagliato e cioè dal concepire il lavoro come strumento di profitto, anziché di realizzazione del sé. In quest’ottica il falegname sarebbe interessato alle scelte collettive quando gli procurano un guadagno, che perderebbe uscendo dal gruppo. Ma se una società libertaria ragionasse in questo modo, se cioè pensiero e azione fossero determinati dall’utile, nel breve replicherebbe quella del dominio, fallendo i suoi propositi. L’anarchico rifiuta il profitto perché sa che l’accumulazione lo aliena dalla vita. Soddisfatto il minimo necessario, e quando lo realizza il singolo lo realizza l’insieme, il lavoro diventa un’attività conviviale, non necessaria né lucrativa.»

«Si divertirebbe di più se andasse a giocare a bocce!»

«Nessuno glielo impedirebbe. Se però sceglie di lavorare, lo fa perché stimolato dal piacere di realizzare l’interesse comune, non quello personale.»

«E se tutti andassero a giocare a bocce?»

«Probabilmente quella comunità avrebbe ottime possibilità di vincere le olimpiadi di bocce. Ma questo non accade perché la condivisione è un’attitudine innata nell’essere umano che, in assenza di tornaconto, si manifesta spontaneamente tanto nelle attività ludiche quanto in quelle più onerose.»

«Non mi convince… E comunque il più forte prevarrebbe sempre!» perseverò il PM.

«Perché dovrebbe farlo se ha volontariamente scelto di unirsi ad altre persone e con esse ha stabilito cosa fare e come farlo?»

«Perché è nella natura umana!»

«Il dominio è un fenomeno naturale solo per chi possiede i mezzi per dominare. Gli altri ne subiscono la soggezione o lo accettano per indottrinamento. L’anarchico è puro e sa che l’interesse personale coincide con quello degli affini. Non può essere felice se anche gli altri non lo sono! Per questo i refrattari si uniscono. E, una volta uniti, che senso avrebbe disattendere accordi definiti volontariamente?»

«Perché magari non soddisfano più il suo interesse!»

«Allora non capisce!» sbottai. «Lei ha capito?» guardai il maresciallo.

«Chi, io?» replicò nascondendosi sotto la ciccia delle guance.

«Ci sono!». Pottutto s’illuminò. «Mi sta dicendo che, rinunciando al profitto, gli anarchici non hanno interesse a inculare gli altri?»

«Magari con un linguaggio meno scurrile, ma sono ore che lo affermo!»

«E siccome del guadagno non gliene frega niente e credono che la società impedisca la libertà, si mettono d’accordo…?»

«Precisamente!»

«E lo fanno con un contratto.»

«Discusso, approvato e sottoscritto.»

«E ogni volta che cambiano c’è un altro accordo e quindi un altro contratto?»

«Proprio così!»

«Ora è tutto chiaro!». Il suo sguardo raggiante divenne improvvisamente pensieroso: «Mi perdoni, ma quanto spendono di notaio?»

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«La comunità deve essere anche di piccole dimensioni. Pochi membri che agiscono più o meno territorialmente» dissi.

«Come una tribù?»

«Come una tribù!» confermai. «La territorialità semplifica le cose, non è però esclusa la partecipazione esterna.»

«In che senso?»

«Nel senso che per essere membri di una comunità non occorre vivere nel solito posto.  Posso risiedere a Napoli e appartenere a una comunità che opera a Prato. L’importante è che partecipi alle sue attività.»

«Accidenti Dopraho, tutti i giorni avanti e indietro, non vorrei essere la sua auto!» improvvisò Manganello.

«Suvvia maresciallo, se prima ha detto che non ce l’ha, significa che va a piedi!», lo corresse Pottutto.

Sospirai rassegnato.

«Quattro i motivi principali per cui una comunità deve essere di piccole dimensioni. In primo luogo perché è più semplice organizzarsi. Dalla partecipazione diretta, ovvero la discussione e la deliberazione delle decisioni comuni, all’autogestione, cioè la disciplina delle attività condivise, alla difesa dalle aggressioni esterne e così via. In secondo luogo perché si evitano pericolose concentrazioni di potere. La massa si divide sempre in fazioni che hanno un interesse divergente rispetto a quello generale. Ciò provoca contrasti o prevaricazioni, non sempre sanabili con il dialogo. Terzo motivo consiste nel fatto che più piccola è la comunità, più facile è che possa agire nell’ombra.»

«La clandestinità?» precisò Manganello come se volesse riscattarsi.

«Esattamente quella… Però adesso basta ripeterlo ogni volta!» dissi. «Sorgendo in un sistema repressivo, la sua conservazione è sempre a rischio. Deve operare eludendo continuamente i controlli e le inibizioni e, se del caso, deve essere pronta alla fuga trasferendosi altrove o ricostituendosi sotto altre vesti. Il quarto motivo, che forse è più un corollario dei primi due, consiste nel fatto che in una comunità di piccole dimensioni il singolo ha maggiore possibilità di realizzarsi. Come dice Cathy Levine, nel suo La Tirannia della Tirannia: il piccolo gruppo si avvale al meglio dei diversi contributi di ciascuno, alimentando e sviluppando gli apporti individuali, invece di disperderli nello spirito competitivo di sopravvivenza perché ognuno è personalmente coinvolto e piuttosto che cercare di ignorare e annientare le differenze personali, come avviene nella società della competizione, impara a valorizzarle e utilizzarle, rafforzando così il potere personale di ogni individuo14. Levine usava queste argomentazioni in opposizione alla tesi della Freeman, ma la loro correttezza è empirica: nella moltitudine la personalità scompare, viene sopraffatta o si assuefà, mentre nella minoranza la partecipazione non può essere né impedita né elusa. Il faccia a faccia diventa dialettica necessaria finalizzata a creare quella micropolitica che imbriglia lo Stato come i Lillipuziani hanno fatto con Gulliver15» chiosai.

Al che Manganello: «E quanto dovrebbe essere grande questa comunità?» chiese. «Così?», posizionando le mani simmetricamente davanti al corpo come se tenesse un pallone da calcio. «O così?», allargandole come se sollevasse un armadio.

Guardai il pubblico ministero sperando nella sua comprensione.

«Non esiste una regola generale quando si parla di anarchia. Dipende dall’ambiente, dagli scopi, dai soggetti, da tutto ciò che può condizionarne la scelta» dissi. «Si procede esperimento dopo esperimento, prova dopo prova, fallimento dopo fallimento. Ogni caso è un caso a sé. Hakim Bay diceva infatti che gli anarchici sono guerriglieri nomadi che praticano la razzia, sono corsari, sono virus, hanno sia il bisogno che il desiderio delle taz, degli accampamenti di tende nere sotto le stelle del deserto, delle interzone, delle nascoste oasi fortificate lungo segrete piste carovaniere, dei tratti liberati di giungla e della badland, delle aree proibite, dei mercati neri e del bazar sotterranei16…»

«Mi perdoni». Pottutto mi interruppe. «Ma questo suo amico per caso è un alcolista? Lo chiedo così, solo per curiosità!»

«Ma no, gli piaceva giocare con le immagini!»

«Anche a me ha fatto venire in mente Ciuccia, sa?» ragliò Manganello.

«Sarebbe?» chiesi.

«Un ubriacone che abbiamo disintossicato qualche giorno fa!»

«E ora sta bene?»

«Alla grande. Ha raggiunto la pace eterna!».

 

 

NOTE

– 13 Jo Freeman, La tirannia dell’assenza di struttura, 1970.

– 14 Cathy Levine, The Tyranny of Tyranny, 1974.

– 15 Il paragone si trova in: M. Onfray, Il post-anarchismo spiegato a mia nonna, ivi.

– 16 Hakim Bey, Taz zona autonoma temporanea, ivi.

Editing a cura di Costanza Ghezzi

Immagine: Henri De Tolouse Lautrec, il bacio a letto, 1892

 

43 – COMUNITÀ: CLANDESTINA

43 – COMUNITÀ: CLANDESTINA

 

«Giuro che non mi sentivo così da quando al liceo avevo matematica alle ultime due ore del venerdì… Mi faccia qualche nome, per favore!»

«No!»

«Neanche se spuntassi alcuni reati dal capo di imputazione?»

«No!»

«Le posso togliere l’invasione di terreni e edifici pubblici, il vilipendio alla bandiera, il furto di cadaveri…»

«Il furto di cadaveri?»

«Preferisce l’evasione fiscale!»

«Evasione fiscale?»

«Anche quella è nel capo d’imputazione.»

«Ma dottore, come pretende che paghi le tasse a uno Stato che non riconosco?»

«Non mi sembra una grande tesi difensiva!»

«Allora niente nomi!»

«Le concedo le attenuanti generiche. Okay?» rilanciò.

«Non sono a caccia di clemenza!» dissi. «Facciamo così: finisco, poi decido.»

«Che aspetta?»

«Ho detto che il Potere si fonda sulla proprietà e usa la legge e le istituzioni per mantenere e accrescere i propri privilegi. La comunità anarchica, sostituita la prima con la comproprietà e rifiutato il profitto, crea proprie regole e propri organismi di autogestione per impedire ogni ingerenza esterna e il ripristinarsi di forme di autorità. Ma perché possa autogovernarsi nella società del dominio senza rischiare la repressione o l’isolamento deve operare in clandestinità attraverso un reticolo di entità che si sviluppino e crescano sfruttando il sistema come le piante rampicanti fanno col sostegno. Dopo tutto, se esso ci usa, usarlo si chiama reciprocità!». E cambiando tono: «Avete mai sentito parlare del Madagascar?»

«Mio figlio Dilanio lo guarda in continuazione!6». Manganello si infiammò.

«Non il cartone animato!»

«Maresciallo, perché non fa un altro disegnetto?» anche Pottutto lo richiamò.

«Ne parla il filosofo Graeber in un libro in cui racconta l’esperienza vissuta in quel paese. Dice che dopo le rivoluzioni di metà anni Settanta, lo Stato non era più presente nelle campagne, le comunità rurali si autogovernavano, nessuno pagava le tasse e la polizia era assente. La gente era ben consapevole che bisognava evitare di attirare l’attenzione su quella situazione di fatto… la cosa più stupida da fare sarebbe stata quella di sventolare una qualsiasi bandiera proclamando: adesso siamo indipendenti. Se le cose fossero andate così, quelli con le pistole alla fine sarebbero arrivati per ristabilire l’autorità statale. E invece la popolazione rurale di quella parte del Madagascar, avendo un buon senso straordinario, ha capito che se si faceva finta che lo Stato esisteva, si poteva ignorarlo quasi del tutto. Di tanto in tanto andavano in città a compilare qualche modulo e, i funzionari, chiusi nei loro uffici, avevano ben chiaro che sarebbero stati trattati con rispetto fintanto che fossero rimasti nei loro uffici. Ma se avessero provato davvero a esercitare una qualche autorità, si sarebbero trovati ad affrontare ogni sorta di resistenza passiva. E in generale preferivano stare al gioco7».

Restituii il foglio.

«La comunità è quindi clandestina quando si organizza in maniera autosufficiente dissimulandosi fra le maglie del dominio» dissi.

«Ma qui siamo in Italia. È impossibile che…?» bofonchiò il PM.

Non lo feci neanche finire: «Mi dia retta!». Appoggiai confidenzialmente la mia mano sulla sua per fargli intendere che non si trattava di possibilità.

«Non ci credo!»

«Si fidi!»

«E dove?» domandò Manganello appoggiando la sua sulla mia.

Ruppi il castello di mani perché era sudaticcia.

«Potrei dire con parole non mie che la resistenza si realizza in ogni fabbrica, in ogni strada, in ogni cittadina, in ogni scuola, ovunque sia possibile sostituirsi alle istituzioni dell’autorità, in maniera da spezzare ogni forma di dipendenza economica e allo stesso tempo di assoggettamento politico8. Soluzioni e metodi sono già stati rivelati dai pensatori che ci hanno preceduto. È sufficiente far tesoro e applicare i loro consigli!»

«Che sarebbero?»

«Che sarebbero?» ripetei. «Ad esempio non mettere il parmigiano sugli spaghetti allo scoglio!». Improvvisai la prima assurdità che mi venne in mente. «Studiate. È un ottimo esercizio spirituale. E meditando meditando, magari troverete la risposta!».

Il pubblico ministero mi fissò interlocutorio senza controbattere.

«Siamo al punto di non ritorno e non è più consentito sbagliare» dissi. «Dobbiamo ascoltare la ragione, come diceva Godwin.»

«Ascoltare la ragione… Tipo una vocina che le parla?». Pottutto mi interrogò grattandosi la barba.

Esagerai: «Che parla a tutti gli uomini di buona volontà!»

«E le dice di fare il sovversivo?». Batté furente le mani sul tavolo. «Non mi aspettavo da lei questi mezzucci!» gridò. «Vuole fingersi pazzo per non andare in prigione?».

Lo calmai con un sorriso benevolo: «La ragione non è una vocina. Tolstoj la chiama attitudine alla rivoluzione morale e non violenta ed è ciò che guida gli spiriti liberi ad organizzarsi in strutture affrancate dal dominio. Realtà sommerse che con esso non hanno niente a che vedere e di cui esso ne ignora l’esistenza. Una dimensione reale ma, al tempo stesso, occulta e inavvertibile, inafferrabile, impercettibile.»

«Clandestina!»

«Che ignora ed è ignorata dalle regole, i dogmatisti, le fascinazioni della società all’interno della quale si sviluppa… Bravo maresciallo!»

«Grazie!»

«Non c’è di che!» dissi.

«Non si tratta semplicemente di lottare contro il potere costituito abbandonando l’ambiente o vivendo sotto falso nome e false sembianze9. Non abbiamo, infatti, alcuna intenzione di imboscarci o di circolare per strada con parrucche e barbe finte. Vivere in clandestinità significa organizzare un’esistenza underground che ora c’è, domani chissà. Che è qui e lì, che è libera, concreta, efficiente, in cui il fai quel che vorrai dei telemiti di Rebelais si sposa col noi siamo il Parlamento dei londinesi di Morris10, senza però che nessuno se ne accorga.»

«Come i massoni? Santa paletta, poteva dirlo subito!». Pottutto gorgogliò e con veemenza strappò il capo di imputazione.

«Come glielo devo dire che non siamo massoni!» precisai.

Ci rimase male: «Lo ristampi subito!» ordinò a Manganello.

«Diversamente dalle società segrete come la Carboneria, i Cavalieri della Libertà, la Giovine Italia, la P2 e tante altre, la comunità anarchica non ordisce una cospirazione contro il governo… Ci accontentiamo di autogovernarci!» dissi ironicamente. «Ma affinché la comunità sia un’associazione volontariamente consentita e accettata da tutti, al fine di risparmiarsi mutualmente ogni sorta di sofferenza evitabile11, non basta che operi in clandestinità, deve farlo in maniera efficace, risolvendo i problemi della vita quotidiana in maniera autonoma, antigerarchica e autogestita. Per questo Ward individua quattro principi che stanno alla base della teoria anarchica dell’organizzazione: la volontarietà, la funzionalità, la temporaneità e le dimensioni12. A cui aggiungo l’autogestione, l’assemblearismo, il federalismo. Senza dimenticare…». Puntai il dito verso Manganello.

«La clandestinità?» terminò la frase.

«Grande maresciallo!» giubilai. «Visto che se s’impegna, anche lei…!». Strinsi teatralmente i pugni in segno di vittoria.

 

NOTE

 

– 6 Madagascar, Film di animazione della Dreamworks del 2005.

– 7 David Graeber, Dialoghi sull’anarchia, ivi.

– 8 Colin Ward, L’anarchia, un approccio essenziale, ivi.

– 9 Comitato invisibile, L’insurrezione che viene – Organizzazione, ivi.

– 10 I telemiti sono gli abitanti dell’Abbazia di Thélème, da Francois Rebelais, I giardini di Thélème, 1534. I londinesi dei XXI secolo, invece, sono i protagonisti di W. Morris, Notizie da nessun luogo, 1890.

– 11 Emile Armand, Iniziazione individualista anarchica, ivi.

– 12 Colin Ward, L’anarchia un approccio essenziale, ivi.

Editing a cura di Costanza Ghezzi

Immagine: Frida, Il cervo ferito, 1946

 

42- LA COMUNITÀ

42- LA COMUNITÀ

 

«Mi perdoni» intervenne Pottutto. «Non è che quello che lei chiama dominio da un giorno all’altro fa le valige, saluta tutti e se ne va. Una rivoluzione dovrete pur farla?»

«Sarò più chiaro: la rivoluzione non serve a niente. Il Potere vince sempre perché ha l’interesse, il denaro, e i mezzi per potersi rigenerare. Soprattutto in epoca di sonnambulismo tecno-consumistico, dove l’indifferenza edonistica consente il moltiplicarsi delle pratiche arbitrarie» dissi. «Bisogna lavorare ai fianchi perché le gambe dell’avversario cedano. Fuor di metafora, occorre sovvertire la superstizione per cui l’autorità è condizione necessaria allo svolgimento delle ordinarie funzioni sociali: l’individuo deve essere autocrate di se stesso perché una vita da subalterni è una vita sprecata!».

Manganello sollevò lo sguardo per soffiare un epigrafico: «Boh!».

Pottutto se ne accorse e: «Può rispiegare, che il maresciallo non ha capito?»  

«Certo che ho capito!»

«Allora che ho detto?» lo stuzzicai.

«Per cortesia, non ci si metta anche lei!». Il PM mi stoppò.

«Nelle persone alligna una sorta di “ipnosi collettiva”1, come diceva Tolstoj, per cui sembra che senza qualcuno che decide per loro sia impossibile organizzare una vita comune…»

«E voi volete risvegliarle con la rivoluzione!»

«Rivoluzionari!» squittì Manganello.

«No. La rivoluzione guarda le masse, noi le libere coscienze. Nietzsche diceva che la massa è il trionfo della mediocrità dove l’individuo spersonalizzandosi perde la capacità di agire autonomamente e ha bisogno di un leader carismatico che dica cosa fare. Essa si crogiola nell’uniformità, anche se è sovversiva. Quando Bakunin, Malatesta, Kropotkin e così via auspicavano la rivolta, non intendevano il gregge belante, bensì l’unione degli individui. Perché solo il singolo può avere coscienza di sé e agire autonomamente per il proprio benessere. Un’unione che, come diceva Godwin, si raggiunge sviluppando attitudini, sensibilità, consapevolezza attraverso il dialogo. Un confronto di uomini puri, cioè liberati dagli ingranaggi mentali, che realizzano scopi condivisi attraverso la partecipazione personale.»

«Voglio proprio vedere come fate se le persone non si mettono d’accordo neanche…?»

«È vero. Le persone sono egoiste. Ma sono egoiste perché nella società del dominio l’egoismo è una virtù. E lo saranno finché continueranno a identificarsi nel profitto. Quando dico che l’anarchia è innanzi tutto una scelta etica mi riferisco non solo al rifiuto di ogni forma di autorità, ma anche alla possibilità di concepire la propria persona e le relazioni sociali e con l’ambiente in un’ottica completamente diversa da quella a cui siamo stati abituati. L’uomo deve smettere di pensare e agire in termini di guadagno, debolezza che lo porta a lottare con l’esistenza, per immergersi nell’esperienza dove godere della partecipazione al tutto. Capito che il profitto nega il sé e che il dominio è una gabbia, la vita semplice è la via maestra per l’antiautoritarismo. Un’esistenza disintossicata dal perseguimento degli interessi materiali ogni qual volta essi ostacolano il godimento della naturale sostanza delle cose. E quando si è puri, donarsi diviene un atto spontaneo: la solidarietà è una legge naturale dell’umanità, come Malatesta la definisce, in quanto l’armonia degli interessi e dei sentimenti, il concorso di ciascuno al bene di tutti e di tutti al bene di ciascuno, è lo stato in cui solo l’uomo può esplicare la sua natura e raggiungere il massimo sviluppo e il massimo benessere possibile2

«Che sintetizzando significa…?»

«Significa che quando l’individuo capisce di essere determinato dalle idee fisse e schiavizzato dal profitto, può riscattarsi in due modi: suicidarsi se non ha sufficiente volontà ribelle», sorrisi beffardamente, «o realizzare la propria personalità unendosi ad affini consapevoli che essa si manifesta in armonia col tutto. Questa unione di affratellati da una società cosciente e voluta è la comunità anarchica

«Le ricordo che i figli dei fiori si sono estinti cinquant’anni fa!»

«Il paragone non mi sembra appropriato!»

«Dice?»

«Direi proprio di sì!»

«E allora perché tiene la camicia aperta?».

Feci finta di nulla: «Dopo due secoli di insurrezioni fallite, di supplizi fisici e morali, di emarginazione sociale, gli anarchici hanno capito che l’anarchia non si realizza risvegliando le masse, ma attraverso un cambiamento cosciente che porti alla costituzione di infinite comunità quanti sono gli obiettivi, con regole condivise, orizzontali e solidali.»

«La solita vecchia strategia dell’unione fa la forza!»

«Ci si associa per proteggersi dalla tirannia o per vivere l’alternativa al conformismo. Ci si associa per realizzare interessi comuni, discussi e deliberati consensualmente. E non c’è associazione senza accordo fra uomini liberi. In luogo delle leggi porremo i contratti, preconizzava Proudhon. Gli affini si trovano e decidono insieme. Stipulano un vero e proprio contratto perché l’idea di contratto esclude quella di governo, in quanto, fra parti contraenti v’è, necessariamente, un autentico interesse personale per ciascuna, mentre, fra governante e governato, invece, qualunque sia il sistema di rappresentazione, o delega della funzione governativa, v’è necessariamente un’alienazione di parte della libertà e dei mezzi del cittadino3. Lo trovate citato nell’articolo del 1.3.24.»

«Devo leggerlo?»

«Una letta veloce gliela darei!»

Pottutto si volse repentinamente verso Manganello.

«Maresciallo che fa, mangia durante l’interrogatorio?». Lo stordì con una spintarella. «Dia a me!». Gli sequestrò lo snack. «È quello col caramello filante dentro?»

«Ci sono anche le noccioline.»

«È buono?»

«Buono assai!»

«Non ci credo!»

«Glielo assicuro, dottore!».

Per accertarsi che dicesse la verità, se lo pappò.

«Siete tipo separatisti?» brontolò pulendosi i denti con l’unghia del mignolo.

«Lo sapevo che erano separatisti. Come quelli spagnoli…». Manganello cercò il suo l’ausilio: «Com’è che si chiamano?». Poi gorgogliò esaltato: «Siete dei separatisti bergamaschi!»

«Sì, i famosi separatisti bergamaschi!» lo dileggiò Pottutto. «Baschi, maresciallo. Sono i separatisti baschi!»

«Non siamo separatisti!» affermai laconico. «I separatisti vogliono sottrarsi alla sovranità politica e territoriale dello Stato per crearne uno proprio. Gli anarchici, invece, non riconoscono la sua autorità tout court. Non vogliono costituirne una identica, vogliono vivere senza che qualcuno o qualcosa decida per loro.»

«Indipendentisti?»

«No!»

«Un po’ rompicoglionisti, però…!»

«Il cambiamento è una metamorfosi, non una trasfigurazione. Costituita una comunità ne sorgeranno dieci, da dieci mille, da mille infinite. E quando le bolle temporanee di autonomia si trasformeranno in comunità permanenti e libere senza interagire con i sistemi economici, sociali o politici più ampi in cui sono inserite4, quando sarà chiaro che se ogni uomo ha la libertà di fare tutto quello che vuole, a patto che non violi l’eguale libertà di ogni altro uomo è al contempo libero di interrompere il rapporto con lo stato5, a quel punto, sentendosi accerchiato, il Potere reagirà, ruggirà, scalcerà come l’animale ferito che sa di dover morire. Oppure, per evitare la propria dissoluzione, cesserà la repressione e accorderà il diritto di separazione. Sarà l’inizio di una nuova epoca…». Sospirai. «Nel frattempo, non rimane che sovvertire il visibile con l’invisibile. Anche nell’ombra la gemma diventerà fiore, il fiore un albero, l’albero una foresta che restituirà respiro a un mondo ormai arido…»

«Leopardi?» chiese il pubblico ministero.

«Leopardi?».

Seguì qualche secondo di silenzio cosmico.

 

NOTE

 

– 1 Le Tolstoj, Il rifiuto di obbedire, ivi.

– 2 Malatesta, Anarchia, ivi.

– 3 P.J. Proudhon, L’idea generale della rivoluzione, 1865.

– 4 D. Graeber, Rivoluzione. Istruzioni per l’uso, 2009.

– 5 Herbert Spencer, Social Statics, 1851.

 

editing a cura di costanza Ghezzi

In foto: H. Bosh, Il volo verso il cielo

 

N 40 – RIBELLIONE OLTRE LA DISOBBEDIENZA: IL NON AGIRE DIVENTA COMUNITARIO (SEGUE)

 

«Prima di parlare della comunità, mi soffermo velocemente su alcune delle molteplici forme di disobbedienza civile».

«Velocemente quanto?»

«Il necessario.»

«Troppo!»

«Disobbedire è fondamentale sia a livello personale in quanto consente di maturare la consapevolezza di essere padroni di se stessi, sia a livello sociale, poiché agisce alla radice. Ma non è la soluzione definitiva. Non lo è perché se esercitata individualmente porta a emarginazione, se collettiva, invece, dopo l’imponente impatto iniziale, si scompone e si disperde per mancanza di omogeneità ideologica e pratica. Non lo è anche perché essendo diretta a modificare o eliminare specifici aspetti o singole norme, non si pone come possibilità antagonista, ma vuole trasformare o riformare. Un’accettazione implicita dell’autorità che determina l’inevitabile instaurazione di nuove forme di dominio. Per questo, ribadisco, il sistema non si cambia, si ignora creandone un altro fondato su principi diversi

«Mediare no, eh?»

«Mediare è un’ottima soluzione quando si ha da perdere. Ma qui è in gioco la dignità. La bestia non reagisce alle botte del padrone perché ha paura che picchi ancora più forte. Pensa a sopravvivere. Noi vogliamo vivere. E possiamo farlo soltanto essendo noi stessi. Ecco perché la disobbedienza spesso viene esercitata contestualmente a pratiche insurrezionali. Ma andiamo per gradi: il primo passo è il non agire di Godard.»

«Scriva, Manganello: Codard!»

«In quale altro modo poteva chiamarsi!». Il maresciallo lo compiacque. E a me: «Nome?»

«Philippe.»

«Morto anche lui?»

«Per ora è vivo e vegeto!». Colsi una luce sinistra nei loro sguardi: «È francese. Non potete arrestarlo!» precisai.

«Ah, francese?». Il PM corrugò la fronte. «Ha mica il suo numero di telefono?»

«No» dissi. «A cosa le serve, se posso…?»

«Ovvio: per chiamarlo e chiedergli di venire in Italia. Così lo arrestiamo!».

Mi complimentai per la strategia.

«Se ricorda, ho accennato alle sue teorie quando ho definito la democrazia come la forma più compiuta di dittatura scientifica. Contro il dispotismo dei sapienti, egli propone di non agire, cioè smettere di lavorare per il progresso. In questo modo si interromperebbe l’afflusso di profitti che alimenta la distruzione del pianeta e lo sfruttamento delle comunità umane. La sua proposta è ripartire cessando di agire contro la natura e rifiutando di impegnarci ancora sulla via del progresso per inventare un’esistenza diversa3. Laddove Goodman suggerisce di tracciare un limite in continuazione, Godard consiglia di tirare una linea e ricominciare con nuovi valori.»

«Scommetto che c’è un però!» rilevò il magistrato.

«Il principio è sacrosanto. Ma è efficace solo se la scelta diventa fusione di volontà. Senza fratellanza la non azione o resistenza passiva, come invece la definisce Emile Armand, manca di forza».

Indicai la pila di fogli.

«Leggo?» chiese Pottutto.

«Ci penso io. Lei non ci mette sentimento!» dissi. «Armand afferma che la resistenza passiva è un atto di ribellione o un insieme di azioni insurrezionali che si estrinsecano non per mezzo di manifestazioni di piazza, né con la sommossa, né con la lotta armata. Ripudiando al contempo ogni metodo violento fondato sull’eccitazione superficiale e passeggera delle moltitudini, propone quindi di innalzare barricate, astenersi da ogni attività, da ogni lavoro, da ogni funzione che implichi il mantenimento o il consolidamento di un dato regime imposto, rifiutarsi di pagare delle imposte o delle tasse destinate al funzionamento delle istituzioni. Prosegue con altri esempi: si può rifiutarsi di utilizzare come professori o come medici coloro che sono tali soltanto grazie a un diploma ufficiale. Oppure si può rifiutarsi di rispondere ai commissari, ai giudici, ai magistrati delle assise, e così via. Tutte condotte che, se svolte su grande scala, cioè con un movimento studiato, premeditato, deciso individualmente, inibirebbero la reazione dello Stato: che potrebbe fare contro questo sciopero silenzioso, ma deciso, contro questa astensione? 4 si chiede.»

«Qualche idea ce l’avrei!» borbottò Manganello.

«Armand è un’individualista e non lo ammetterà mai. Ma sostenendo che la resistenza passiva deve avvenire su larga scala perché se esercitata individualmente o in piccoli gruppi non cambia lo stato di fatto, riconosce implicitamente che solo la fratellanza può disgregare il sistema. Ecco perché la sua naturale evoluzione è la rivoluzione silenziosa di Colin Ward.»

«Colin come colino?» chiese Manganello per i suoi appunti.

Assentii con la testa.

«Questo pensatore post-anarchico realizza un ulteriore passo in avanti. Parla di comunità autogestita e antiautoritaria in cui la resistenza sia portata avanti da aggruppamenti di persone che si associano con finalità antagoniste al sistema. Diversamente dai vari Chomsky, Confort, Goodman e altri contemporanei, infatti, non propone una collaborazione con esso volta a modificarlo al suo interno. Sostiene che l’anarchia esiste già. Che sia viva e praticata. I suoi libri riassumono numerosissimi esempi passati e presenti in cui gli individui si uniscono per creare strutture omogenee, autonome e indipendenti dal Potere.»

«Me ne vuole indicare qualcuna?» chiese Pottutto.

«Le interessa davvero?»

«Al pranzo della domenica mi piace citare gli aneddoti dei miei inquisiti!»

«Le rivoluzioni individuali e collettive descritte da Ward si realizzano quando le persone si organizzano spontaneamente in maniera volontaria, autonoma, autogestita e antigerarchica, per la soluzione di problemi concreti, da risolvere senza l’interferenza delle Istituzioni, dello Stato, di qualsiasi forma di autorità. Se la gente percorre il suo cammino dall’utero alla tomba senza mai riconoscere né esprimere le proprie personalità umane, dice, questo avviene perché la possibilità di partecipare alle innovazioni, alle scelte, alle decisioni e ai giudizi è monopolio esclusivo di chi sta in alto5. A suo giudizio quindi l’alternativa esiste e si concretizza nella pratica quotidiana con uno slancio che costruisce spazi di libertà in cui esprimersi attraverso comunità federative, condivise, solidali, che…»

«Che fanno quello che vogliono!»

«Bravo Manganello, autonome. Ma anche volontaristiche, autogestite, indipendenti e mutualistiche. È una svolta straordinaria. Il punto da cui partire per un cambiamento concreto. In questo modo si può dar vita a quell’alternativa che non solo cancelli l’ingerenza autoritaria, non solo abbia scopi e metodi autonomi, non solo favorisca le potenzialità individuali, ma si sviluppi come società altra attraverso la creazione di molteplici entità antigerarchiche coordinate fra loro. Un raggruppamento di individualità che operino sinergicamente sottraendo funzionalità al Potere. Ward ha quindi colto l’essenza della comunità anarchica. Ma non basta.»

«Non basta?»

«Non basta!»

«Certo che lei non è mai contento!» chiosò il pubblico ministero.

 

NOTE

 

– 3 Philippe Godard, Contro il lavoro, invi.

– 4 Emile Armand, Iniziazione individualistica anarchica, ivi.

– 5 Colin Ward, Anarchia come organizzazione, ivi.

 

Editing a cura di Costanza Ghezzi

Immagine: Alberto Gallerati, Una bombardatina,