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26 – STATO – LA FARSA DELL’AGIRE IN NOME DEL POPOLO SOVRANO

 

«Probabilmente ha ragione: non fossimo in democrazia il boia avrebbe già raccatto la mia testa. L’ipocrisia si manifesta sempre con un’apparente moralità! Tuttavia, ciò non cambia l’evidenza che lo Stato sia dispotico perché si impone attraverso la sottomissione e costringe all’obbedienza con la coartazione. Né può valere a suo favore, cioè a garanzia della democraticità del sistema, la presenza delle elezioni.»

«Vuole negare anche quelle?»

«Che il sistema sia elettorale proporzionale, maggioritario, uninominale, plurinominale, a turno doppio, unico, o con pescaggio dei numeri tipo tombola, le elezioni sono una farsa. L’elettore non decide niente perché i candidati sono imposti dai partiti. Una volta eletti, essi dispongono di un mandato in bianco in virtù del quale possono fare quello che vogliono. Una libertà assoluta e incontrollata, dimostrata dalle infinite volte in cui ne abusano o violano impunemente il programma elettorale. Il loro obiettivo non è il bene del cittadino, a cui solo in prossimità delle elezioni fingono di interessarsi, ma il proprio, cioè conservare più a lungo possibile i privilegi, e quello delle caste che devono proteggere, cioè delle forze economico-finanziarie che ne legittimano la sopravvivenza.»

«Che qualunquismo!»

«Qualunquismo e complottismo sono termini utilizzati da chi non sa come replicare alle critiche!» rilevai.

«Ma certo che so replicare!»

«Prego!».

Pottutto manipolò così violentemente la pallina che gli schizzò via.

 «Come si permette. Mica sono io l’interrogato!» sbottò.

Proseguii: «Sulle elezioni torno a breve. Adesso mi interessa parlare dell’altra illusione su cui si fonda la democrazia: che il potere sia esercitato in nome del popolo. In realtà popolo è una parola retorica dal contenuto inconsistente. Chi è il popolo? Dove sta il popolo? Cosa fa il popolo? Il popolo è quello che acclamava Mussolini affacciato al balcone di Piazza Venezia o il corteo bersagliato da lacrimogeni e caricato in via Tolemaide? Il popolo è quello che accoglie gli immigrati o quello inneggia sui social all’inabissamento delle carrette? Il popolo è quello che tace e acconsente o che si ribella? Il popolo è quello manipolato dai media o la massa che dubita? Il popolo non esiste! È un concetto manipolatorio che uccide l’individuo, l’unico vero titolare di sovranità in quanto dotato di pensiero e azione.»

«Il popolo siamo noi!» cinguettò Pottutto roteando il dito.

«Noi?» chiesi.

«Noi, noi!» indicò anche me.

«Adesso è lei che si prende troppe confidenze!» replicai. «Il termine popolo unisce i sempliciotti nell’identità del branco che obbedisce al maschio alfa. È una regola vecchia come il creato di cui il potere ha sempre fatto buon uso, qualunque fosse la forma di governo. Democrazia e tirannia rappresentano la stessa autorità con la differenza che quest’ultima opera in maniera esplicita, senza bisogno di nascondere la violenza e inorgogliendosi del suo abuso, la prima è più infida in quanto sfrutta l’illusione del benessere e la veemenza della manipolazione e del conformismo, riservando la prepotenza bruta alle sole situazioni emergenziali. Per avere un’idea di come subdolamente ottiene l’adesione, basta leggere l’arguta opera di Etienne de La Boétie… Lo facciamo insieme?»

«Adesso?»

«No, fra un paio d’anni!» ironizzai. «Non sono dunque gli squadroni di cavalieri, non sono le schiere di fanti, non sono le armi a difendere il tiranno. A prima vista non ci si crede, ma è davvero così: sono sempre quattro o cinque che mantengono il tiranno, quattro o cinque che gli tengono l’intero paese in servitù… perché si erano fatti avanti da sé, o perché era stato lui a chiamarli, per farne i complici delle sue crudeltà, i compagni dei suoi piaceri, i ruffiani delle sue voluttà, i soci nello spartirsi il frutto delle sue rapine… Quei sei hanno poi sotto di loro seicento approfittatori, e questi seicento fanno ai sei quel che i sei fanno al tiranno. Questi seicento ne tengono poi sotto seimila, a cui hanno fatto fare carriera, affidandogli il governo delle province, o l’amministrazione ella spesa pubblica, per avere mano libera, al momento opportuno, in avarizia e crudeltà, compiendo nefandezze tali da poter resistere soltanto nella loro ombra, riuscendo cioè solo grazie a costoro a sfuggire leggi e sentenze».

Ripresi dopo una pausa: «Grande è poi la schiera che viene dopo, e chi volesse divertirsi a districare questa rete non ne vedrà seimila, bensì centomila, milioni, stare attaccati al tiranno con questa corda… si arriva insomma al punto che il numero di persone a cui la tirannia sembra vantaggiosa risulta uguale a quello di chi preferirebbe la libertà… Così, non appena un re si proclama tiranno, tutto il peggio, tutta la feccia del regno… gli si ammassa intorno e lo sostiene per avere la propria parte di bottino e per diventare così, sotto il grande tiranno, a loro volta dei piccoli tiranni1».

Restituii il foglio.

«Questa è la strategia con cui il Potere mantiene l’ordine secondo il giovanissimo Etienne. Tale è il metodo col quale ancora oggi esso accresce i propri profitti avvalendosi dei ruffiani della voluttà, quella schiera di malvagi approfittatori che si nascondono nella legalità per consolidare la gerarchia. Benpensanti biasimevoli e vili disposti a danzare sulle ceneri dell’umanità pur di poggiare la testa su guanciali pieni di soldi.»

«Mi perdoni» intervenne Pottutto. «Prima ha detto che lo stato è violento, ora sembra negarlo. Si decida!»

«Prima ho detto che crea ordine con l’oppressione e lo mantiene con l’intimidazione. Adesso ho aggiunto che è un dissimulatore corruttore e corrotto… Niente di nuovo!» precisai. «Tutti lo sanno e tutti lo accettano perché sperano prima o poi di essere invitati al banchetto.»

«Prego, maresciallo!» disse il magistrato a Manganello che aveva sollevato la mano per fare una domanda.

«Ecco… sì, volevo sapere se può…» farfugliò. «Non ho mica capito!»

«Allora le cito qualcosa di più moderno che, grosso modo, afferma le solite cose» ripresi. «Presente il discorso di Totò allo psichiatra nel film Siamo uomini o caporali

«Si stava meglio quando si stava peggio?»

«Esatto, proprio quello!» confermai sollevando il pollice. «Totò dice che l’umanità si divide in due categorie di persone: gli uomini e i caporali. Gli uomini sono la maggioranza, i caporali la minoranza. Cito a memoria: Gli uomini sono quegli esseri costretti a lavorare tutta la vita come bestie, senza vedere mai un raggio di sole, senza la minima soddisfazione, sempre nell’ombra grigia di un’esistenza grama. I caporali sono appunto coloro che sfruttano, che tiranneggiano, che maltrattano, che umiliano. Questi esseri invasati dalla loro bramosia di guadagno li troviamo sempre a galla, sempre al posto di comando, spesso senza avere l’autorità, l’abilità o l’intelligenza, ma con la sola bravura delle loro facce toste, della loro prepotenza, pronti a vessare il pover’uomo qualunque”. Perché “caporali si nasce non si diventa!”3».

Guardai Pottutto negli occhi: «Dopo le parole del maestro, cos’altro potrei aggiungere?».

NOTE

– 1 Piero Calamandrei, Lo Stato siamo noi, 1955: “desistenza” è un termine usato da Calamandrei in opposizione a resistenza. Mentre quest’ultima è impegno e attivismo, la prima è passività e rassegnazione.

– 2 Etienne De La Boétie, Discorsi sulla servitù volontaria, 1576.

– 3 Siamo uomini o caporali, film, 1955.

 

Editing a cura di Costanza Ghezzi

Disegno: Pippo Rizzo, In Marcia, 1920

 

25- STATO – CONTRATTO SOCIALE

 

«Facciamo un break?» disse Pottutto dopo essersi stirato come uno scimpanzé.

«Non vedevo l’ora!». Manganello si alzò trionfante.

«Parlavo di me. Lei controlli gli appunti!»

«Non si preoccupi dottore, Non scappano!». Il maresciallo batté vigorosamente la mano sul blocco.

Il PM lo fulminò. Poi con disincanto tirò fuori dalla tasca della giacca una tazzina di caffè fumante. Lo sorseggiò lentamente chiudendo gli occhi. Si rimise a sedere. Pulì le lenti degli occhiali. «Splendido!» proruppe. «Dov’eravamo rimasti?»

«Allo Stato» dissi.

«Quale stato?»

«Lo Stato!»

«Sì, ho capito, ma quale stato: solido, liquido, aeriforme… Scherzo!». Evidentemente la pausa gli aveva risollevato l’umore. «Come sempre mi raccomando…»

«Dieci minuti?»

«Cinque!»

«Nove!»

«Sei!»

«Sette e accordo fatto!». Sputai nella mano e gliela porsi.

Sputò nella sua e me la strinse.

«Il più grande impedimento all’essere se stessi è lo Stato. Ma cos’è lo Stato?» domandai enfaticamente. «Per Benjamin Tucker Stato è “una parola sulla bocca di tutti, ma quanti di coloro che la usano hanno un’idea di quel che intendono?” Ve lo dico io. Nessuno. E sapete perché? Perché lo Stato non esiste

«Come non esiste?» gorgogliò Manganello. «E chi ci paga lo stipendio?»

«Forse ha ragione». Pottutto tergiversò. «Ha mai visto il signor Stato?»

«Esso infatti è un’entità astratta, impersonale e invisibile che agisce attraverso le istituzioni, gli apparati, l’amministrazione e ogni forma di potere con cui ci interfacciamo e contro cui sovente ci scontriamo. Non c’è una definizione giuridica precisa. Si può però dire che un consesso sociale può autogestirsi, prevendendo l’etica partecipazione di tutti alle sue decisioni, oppure crea strutture che lo disciplinino dall’alto perché chi è in basso è stato educato a pensare di non esserne capace. Lo Stato si può pertanto definire come la forma politico-organizzativa che un gruppo sociale stabilisce per la gestione della cosa comune.»

«E fin qui non mi pare abbia fornito un contributo rilevante alla scienza giuridica!» obiettò Pottutto.

Ignorai il sarcasmo: «Individuata la forma politica, compito di giuristi e filosofi cortigiani è darne una parvenza di ragionevolezza. E se al tempo del monarca assoluto si evocava l’intercessione divina, con lo Stato-nazione il razionalismo illuminista ha giustificato la sua assolutezza attraverso forse il più bell’esempio di fantasia applicata al potere: la teoria del contratto sociale. Una credenza ormai talmente radicata nella coscienza collettiva che ancora oggi viene menzionata dalla dottrina come principio supremo dei sistemi giuridici moderni.»

«La conosco!». Pottutto si esaltò.

«Ottimo. Allora non c’è bisogno che la spieghi!»

«Però non la ricordo!». E a Manganello: «Immagino non sappia neanche di cosa stiamo parlando, vero?»

«E invece sì!». Il maresciallo replicò infastidito. «È quella teoria in cui si stabilisce che le persone si mettono d’accordo per creare un qualcosa…». Qui esitò, «un qualcosa in cui tutti siano d’accordo. Perché è meglio andare d’accordo che litigare. No?».

Il magistrato lo fissò in attesa che si smaterializzasse.

«La teoria del contratto sociale sembra una barzelletta perché tutti, anche i più sempliciotti, soprattutto i più sempliciotti, devono interiorizzarla: l’uomo se abbandonato a se stesso è una bestia stupida e cattiva, quindi ha bisogno di qualcuno che gli dica cosa fare. Questo il principio che si articola in due principali orientamenti: da una parte abbiamo Hobbes, per il quale gli uomini sono brutti, sporchi e cattivi e, se liberi di agire, sanno solo divorarsi gli uni con gli altri. Per cui è necessario che rinuncino alla libertà individuale per conferire al Leviatano il potere di mantenere l’ordine.»

«Esatto. Proprio come ricordavo!». Pottutto proferì convinto. «Poi c’è… Cok o qualcosa di simile, vero?»

«Esatto» dissi. «Il famoso uovo alla coque!» lo dileggiai. «Si chiama Locke. Ricorda?»

«Assolutamente!»

«Vuole parlarcene?»

«È lei il divulgatore, io sono il PM. Rispettiamo i ruoli, per cortesia!»

«Locke sostiene che gli uomini senza legge non sono così male. Sono liberi, uguali, vivono in armonia con la natura e, addirittura, riconoscono, rispettano e tutelano i diritti inviolabili in maniera spontanea. Peccato non siano affidabili. E così anche Locke, che tanto bene era partito, regredisce a sua volta sulla necessità che gli individui si uniscano in una società e che essa deleghi al Principe il potere di imporre e mantenere l’ordine.»

«Un altro Leviatano?»

«Non proprio. Se per Hobbes esso implica un dominio verticistico, dall’alto verso il basso, come può essere il potere di un re, Locke afferma che la società permane anche quando il Principe diventa tiranno o si dissolve. Quindi il Potere è orizzontale.»

«Orizzontale, verticale… in diagonale non c’è niente?» crocchiò Manganello sfrontato.

«Di fatto la teoria del contratto sociale che cementa i nostri sistemi giuridici è puro catechismo, di cui ha il tono e il linguaggio dogmatico, come asseriva Camus2. Si fonda, infatti, su una delega che non esiste. Nessuno ha mai trasferito la propria autodeterminazione al popolo o al governo, nessuno ha mai accettato di rinunciare alla propria identità. Per questo, come diceva Spooner, lo Stato è illegittimo e opera come un bandito di strada che intima alle persone o la borsa o la vita

«Bella questa!»

«Rende l’idea, vero?» dissi. «La teoria del contratto sociale è una superstizione di cui la Costituzione è il simbolo sacro a cui tutti devono prostrarsi. Un dio dei filosofi e degli avvocati surrogato del dio dei sacerdoti, rispetto al quale, però, è molto più autoritario. Infatti, se all’Assoluto si può rifiutare devozione e poi si starà a vedere cosa succede, allo Stato si obbedisce necessariamente per dovere di nascita. È quindi un tiranno con il quale dobbiamo difenderci quotidianamente per salvaguardare la nostra identità. A tal proposito non concordo con Spencer1 quando diceva…»

«Bud Spencer?». Manganello si illuminò.

«No!» dissi. «Benché entrambi detestino gli arroganti!»

«Quello del darwinismo sociale, maresciallo!» notò Pottutto con aria sapiente.

«Proprio lui!» confermai. «Anche se, dopo anni trascorsi a smascherare le vergogne del potere, credo odierebbe chi lo ricorda per una teoria sviluppata in età senile!» sorrisi. «Anche Spencer3 criticava l’imperio statalista, ma non lo escludeva. Proponeva, infatti, di limitare le sue funzioni alla sola sicurezza interna ed esterna e all’amministrazione della giustizia» dissi. «A mio giudizio, neanche la minarchia gli compete. Perché nessuno gli ha conferito l’autorità. Se l’è presa. Ce l’ha estorta e la impone con strafottenza. La verità è che lo Stato è una menzogna spregevole che fa leva sulla buona fede dei sempliciotti: si professa etico in sé pur fondando il suo dominio su un presupposto ingannevole, la delega appunto, peraltro antitetico alla nostra essenza primigenia, che è quella di decidere personalmente. E poiché la legge umana non ha alcuna validità se contraria alla legge di natura, come diceva Blackstone4, è corretto affermare che sia un diritto universale non rispettarla

«Però è grazie alle leggi se lei può parlare anziché essere su un patibolo!»

«Il patibolo ci vorrebbe per questi… il patibolo!» echeggiò Manganello.

NOTE

– 1 Spencer era un giornalista politico dell’Economist quando nel 1853 riceve l’eredità per la morte dello zio che gli consentì di dedicarsi a tempo pieno allo studio che lo porterà a scrivere i volumi di A System of synthetic philosophy.

– 2 Albert Camus, L’uomo in rivolta, Adelphi, 1951.

– 3 Herbert Spencer, The man versus the states, 1884.

– 4 William Blackstone, Commentaries on the laws of England, 1765.

 

Editing a cura di Costanza Ghezzi