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PERSONA PERBENE

La relazione col prossimo sarebbe uno stimolo, un completamento, una meraviglia, se non fosse alterata dai pregiudizi, dalla superficialità, dall’ignoranza, dalla volgarità, dall’ipocrisia, dalla manipolazione, dallo sfruttamento, dall’egoismo, dall’invidia… E siccome le persone vengono indottrinate alla competizione sin dall’infanzia, fanno a gara a chi è peggio!

Così è perché sono malate. Il profitto è la loro malattia. E il denaro, che ne rappresenta la manifestazione più immediata, è la droga che ha fuso loro il cervello. Non pensano ad altro. Vivono per quello. Dalla mattina alla sera lottano per appropriarsene. Quando ce l’hanno lo spendono. Altrimenti si indebitano o ricorrono al malaffare. Che è un po’ la stessa cosa.

Progresso, crescita, competizione, benessere, lusso, e tutti gli altri ideali e scopi materialisti non sanano ma accrescono la sofferenza. E pochi riescono a guarire abbandonando l’egotismo per vivere secondo natura. Sono coloro che si spogliano del superfluo per abitare la bellezza e sviluppano la propria personalità in armonia con essa. “La felicità è amore, nient’altro” (Hermann Hesse, Sull’amore, Mondadori, 2016)1. Perché di quella si nutre la volontà. Il resto è inganno. A te la scelta: Accettare la follia dell’omologazione o sembrare un folle facendo ciò che vuoi.

Nella società del profitto tutti vendono qualcosa. Ma se i compratori avessero gusti, aspirazioni, bisogni differenti, potrebbero scegliere e l’imprevedibilità non è positiva in un’economia che deve crescere all’infinito. Ecco perché quando guardiamo la televisione, ci distraiamo coi social, ascoltiamo la radio, eccetera, veniamo tempestati da messaggi che propinano sempre i medesimi valori, bisogni e scopi. In questo modo, manipola oggi, manipola domani, si crea l’opinione pubblica. La fidelizzazione è il primo obiettivo di ogni bravo mercante!

Dal Taylorismo in poi la pratica è stata utilizzata anche in ambito sociale per creare individui disciplinati, prevedibili e obbedienti, nonché lavoratori zelanti e consumatori infaticabili. Si chiama pensiero dominante ed ha il merito d’aver cancellato le diversità. Siamo ormai talmente programmati che quando un giorno gli automi ci sostituiranno, saranno più umani degli umani.

Laddove la manipolazione proselitistica non funziona, intervengono la sociologia, la psicologia, l’antropologia e tutte le altre “–ia” che distinguono fra normalità e anormalità. Normale è colui che obbedisce alle regole. Anormale è colui che non si adatta agli standard etici e comportamentali della comunità di appartenenza e quindi li viola. E’ un divergente che rifiuta di adattarsi al dogma dell’obbedienza e come tale o si redime o deve essere eliminato dal consesso sociale. Ecco perché la propaganda e la legge lo assimilano al pericoloso sociopatico. La collettività deve temerlo, deve emarginarlo, se necessario eliminarlo. Siamo ancora al buon vecchio “chi non è con noi è contro di noi!”2. Il fascismo non si è mai estinto. Si è solo fatto furbo!

Il manicheismo conformista rifiuta il confronto col ribelle perché rappresenta il giusto che non è. Ne disprezza la purezza. Ne irride la sincera moralità. Ne esalta la pericolosità. Lo restituirebbe al mito ardendolo nel fuoco o mozzandogli la testa se non fosse tanto ipocrita. Ai suoi occhi si è o non si è “persona perbene”. Si è conformi al senso comune, di cui la norma è sublimazione, oppure no. Senza domande. Senza dubbi. Interrogarsi sarebbe già un imperdonabile atto di insubordinazione poiché l’ordine, e qui la suggestione diventa ipnosi collettiva, è sempre legittimo perché legittima è l’autorità che lo emana. Che sia Dio, lo Stato, l’economia, la scienza o chi per esse. L’importante è che qualcuno l’abbia stabilito e tutti ci credano.

E così per questi moralizzatori “chi rispetta la legge è una persona perbene”, chi la viola no. Anche se dura lex sed lex, il “bravo cittadino” non trasgredisce, obbedisce senza riserve qualunque sia il contenuto e la fonte dell’ordine. Niente come l’altrui devozione spirituale, infatti, rafforza il loro tornaconto.

 

Le argomentazioni utilizzate sono molteplici.

In particolare mi riferisco a chi asserisce che nei sistemi democratici la legge non è arbitraria poiché rappresenta la volontà del popolo nell’interesse del popolo.

Facile dimostrare che la norma non è mai ispirata dal bene comune, bensì dalla “ragion di stato”. Che spesso consiste nel “tributo”3 imposto con o senza violazione. Con questo non escludo che talvolta gli interessi coincidano. Lo Stato è pur sempre un artificio umano e, per la legge dei grandi numeri, una cosa buona ogni tanto può venire anche a lui!

Altri aggiungono che la norma sia legittima perché sub judice, cioè soggetta alla garanzia del controllo costituzionale.

Senza addentrarmi nel pericoloso stato-centrismo echeggiato dal richiamo alle istituzioni, mi limito a rilevare che i giudici della Suprema Corte, dovendo giudicare una legge dello Stato, rispetto ad esso dovrebbero essere autonomi e indipendenti. Peccato vengano nominati pro quota dal Presidente della Repubblica, che quella ha sottoscritto, dal Parlamento, che quella ha promulgato, dalla magistratura, che quella deve far applicare (art 135 Cost). Più che super partes, mi sembra che tutti ne beneficino gaudiosamente!

Messi alle corde, i legalisti giocano l’ultima carta: il voto. La frase che pronunciano è sempre la solita: “eh, ma voi avete votato!” Che tradotta significa sia che il voto legittima le decisioni della politica, sia che: “li hai votati tu, che cavolo vuoi?”

Tanto per cominciare non tutti votano. Ad esempio, io ho votato solo a diciotto anni, giusto per vedere come funzionava. Ed è funzionato bene visto che il candidato scelto è stato arrestato per tangenti due mesi dopo.

In secondo luogo, come non notare che nelle ultime elezioni ha partecipato circa il sessanta percento degli aventi diritto. In quelle precedenti il settanta. Probabile che alle prossime sfiori la metà. Di questa vince la maggioranza. Ciò significa che il governo è sempre volontà di una minoranza. Ora, la matematica non è il mio forte, ma essere preso per il culo non è la mia aspirazione!

Oltre questo dettaglio numerico, solo l’eletto, un suo stipendiato o un suo cliens (chi riceve un favore nella pratica del clientelismo) può affermare che il voto non sia una finzione. Ẻ una finzione perché nessuno ha mai accettato l’ordine politico e le sue regole. Ẻ una finzione perché i media manipolano la massa in cambio di finanziamenti. Ẻ una finzione perché quando la scelta dei candidati è imposta si chiama imbroglio. Ẻ una finzione perché il voto è una delega in bianco in virtù della quale la politica agisce come vuole e senza conseguenze. Ẻ una finzione perché non ci si candida e si fa campagna elettorale senza tanto denaro o senza colludere col malaffare e in pochi, anzi pochissimi, posseggono il primo e sono capaci del secondo.

Potrei proseguire con l’elenco, ma qui mi fermo per non annoiarti.

Tutto questo per dire che il perbenista è solo un dissimulatore che si riempie la bocca di paroloni, sofismi e moralismi perché teme che la libertà degli altri possa ostacolare il suo profitto. Che di per sé avrebbe anche una sua logica. A parte il profitto, naturalmente.

Il conformismo è una scelta utilitaristica conservativa pervertita d’ideologia ostile. Se collettiva, come nel caso del pensiero unico, addirittura spietata. Il dito dei benpensanti è sempre puntato, il giudizio sempre solerte, la pena sempre crudele nei confronti di coloro il cui spirito e la cui condotta divergenti possano turbare la stabilità. Chi rispetta la legge non è quindi una “persona perbene”, bensì un complice del sistema delinquenziale. Perché il vero crimine non è violarla, quanto imporla per profitto impedendo alle persone di essere se stesse e definire regole proprie.

Per questo è molto più temibile dei suoi manipolatori.

Per questo ingannarla e trasgredirla dà così soddisfazione.

 

NOTE

*1 Testo completo: “Quanto più invecchiavo, quanto più insipide mi parevano le piccole soddisfazioni che la vita mi dava, tanto più chiaramente comprendevo dove andasse cercata la fonte delle gioie della vita. Imparai che essere amati non è niente, mentre amare è tutto, e sempre più mi parve di capire ciò che dà valore e piacere alla nostra esistenza non è altro che la nostra capacità di sentire. Ovunque scorgessi sulla terra qualcosa che si potesse chiamare “felicità”, consisteva di sensazioni. Il denaro non era niente, il potere non era niente. Si vedevano molti che avevano sia l’uno che l’altro ed erano infelici. La bellezza non era niente: si vedevano uomini belli e donne belle che erano infelici nonostante la loro bellezza. Anche la salute non aveva un gran peso; ognuno aveva la salute che si sentiva, c’erano malati pieni di voglia di vivere che fiorivano fino a poco prima della fine e c’erano sani che avvizzivano angosciato per la paura della sofferenza. Ma la felicità era ovunque una persona avesse forti sentimenti e vivesse per loro, non li scacciasse, non facesse loro violenza, ma li coltivasse e ne traesse godimento. La bellezza non appagava chi la possedeva, ma chi sapeva amarla e adorarla. C’erano moltissimi sentimenti, all’apparenza, ma in fondo erano una cosa sola. Si può dare al sentimento il nome di volontà, o qualsiasi altro. Io lo chiamo amore. La felicità è amore, nient’altro. Felice è chi sa amare. Amore è ogni moto della nostra anima in cui essa senta se stessa e percepisca la propria vita. Ma amare e desiderare non è la stessa cosa. L’amore è desiderio fattosi saggio; L’amore non vuole avere; vuole soltanto amare”.

 

*2 Citazione dal discorso di Mussolini del 24.3.1924.

*3 Termine che utilizzo nell’accezione usata da Clastres.

11- La giustizia non è la legge

«Dico solo che per dare un senso alle cose non c’è bisogno di inventarsi chissà che. Come non è necessario Dio, non occorre una legge per stabilire cosa è bene cosa è male.»

«Ah, no?» Pottutto esclamò.

«Eh, no!». Ne imitai il tono. «Tanto perché la legge è emanazione dello Stato, “l’equivalente laico della Chiesa” come lo definiva Bakunin, il cui fondamento contrattualistico ha la stessa valenza di una Madonna che piange. In secondo luogo perché la legge definisce dall’esterno le condotte degli individui». Recuperai la loro attenzione con una pausa. «La legge, statale o morale che sia, non produce mai vera libertà. Quando la nostra condotta è ingabbiata nelle regole, si ha solo subordinazione a una volontà esterna. Con la legge, infatti, io non scelgo, sono libero solamente di obbedire a essa, direbbe Stirner. Se vuole…». Indicai la pila di fogli.

Pottutto cercò l’articolo con fare scocciato.

Lessi: «”Lo Stato restringe la libertà dei singoli solo per assicurare loro la parte restante. Ma ciò che resta può essere sicurezza, non è mai libertà”, perché, “la libertà è indivisibile; non si può toglierne una parte senza ucciderla tutta. Questa piccola parte che si toglie è l’essenza fondamentale della mia libertà”1.» Non li vidi convinti: «tutto chiaro?»

«Preso appunti, Manganello?». Il pubblico ministero colse in fallo il maresciallo a cui si era rotta la punta del lapis.

«Solo se incondizionatamente libero, ossia non determinato dai preconcetti, dalle superstizioni, dai dogmi, l’individuo può sviluppare una propria, esclusiva coscienza di sé, cioè una personalità, ed essere nel mondo, non essere del mondo. A quel punto potrà determinarsi come, uso le parole di Proudhon, “autocrate di se stesso”. Al contrario, senza consapevolezza non c’è personalità, quindi niente autonomia. E senza autonomia addio etica. Quando Stirner diceva che “La libertà deve essere totale, un pezzetto di libertà non è libertà” è perché aveva capito che la libertà è la condizione necessaria per il compimento della volontà, senza la quale ci scordiamo l’autodeterminazione».

Il pubblico ministero mi guardò storto.

«Perché mi fissa in quel modo?»

«Secondo me sta dicendo un sacco di fregnacce per nascondere la verità!»

Un «Cioè?» grosso come una casa penzolò dalle mie labbra.

«E cioè che volete fare quello che vi pare!»

«Dice? Se mi permette, faccio l’esempio della Scuola di Little Commonwealth fondata da Homer Lane.»

«Conosciamo questo Homer Lane?». Il magistrato domandò a Manganello che, in fretta e furia, sfogliò le prime due pagine di un blocchetto su cui erano appuntati alcuni nomi: «Non c’è!» gli rispose.

«Allora segni!» ordinò il primo.

«È morto anche lui!» dissi.

Ci rimasero molto male.

«Little Commonwealth era un esempio di scuola comunitaria autogestita che accoglieva giovani disadattati, in gran parte poveri o delinquenti. All’interno della struttura essi erano liberi di fare quello che volevano, compreso sfogare la spontaneità ribelle. Lane, invece di rimproverarli o punirli, li lasciava fare o partecipava al gioco. In quel modo lo scontro perdeva di significato e i ragazzi non solo si calmavano, ma cominciavano ad autoregolamentarsi.2»

Feci una pausa impressionato dalle loro espressioni da cernie nel congelatore. «Questa esperienza di educazione libertaria ci insegna due cose: la prima è che è possibile passare dalla legge del più forte all’auto-responsabilità. La seconda è che qualunque gruppo sociale, anche se costituito da “rifiuti della società”, può creare spontaneamente e armonicamente una comunità fondata sulla condivisione delle regole senza bisogno di imposizioni dall’alto. Da ciò consegue un’altra sacrosanta verità, ovverosia che le leggi servono solo a chi le fa, per perpetuare i propri privilegi.»

«Non può convincere un uomo di legge che la legge sia inutile!» esclamò Pottutto con sufficienza.

«Quindi, fosse un uomo d’agricoltura, ci riuscirei?» lo sferzai. «Se volete, possiamo leggere un altro estratto. Stavolta di Kropotkin.»

«Ancora questo Kropotkin?»

«Ha una prosa sublime!»

Il magistrato lesse: «“L’anarchia non è sinonimo di caos, ma corrisponde a una situazione armoniosa risultante dall’abolizione dello Stato e di tutte le forme di dominio e di sfruttamento dell’uomo. Si fonda sull’eguaglianza degli individui, la libera associazione, la federazione, l’autogestione e talvolta il collettivismo. L’anarchia, dunque, è strutturata e organizzata senza che vi sia una qualsiasi preminenza dell’organizzazione sull’individuo…”». S’interruppe un attimo. «Scommetto tre giorni senza rancio che vi siete messi d’accordo!»

«Emma Goldman invece aggiungeva che lo Stato “crea ordine con la sottomissione e lo conserva grazie al terrore”3».

«Ma io mica la sto terrorizzando?» il pubblico ministero s’inalberò.

«No, ma le piacerebbe!»

Lo ammise con una fugace oscillazione di quell’orribile capoccia a forma di pera.

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«Quasi quasi leggerei anche Malatesta. Che ne dite?»

Silenzio polare.

Poi il PM cercò la pagina: «”Il governo infatti si piglia la briga di proteggere, più o meno, la vita dei cittadini contro gli attacchi diretti e brutali; riconosce e legalizza un certo numero di diritti e doveri primordiali e di usi e costumi senza di cui è impossibile vivere in società; organizza e dirige certi esercizi pubblici, come posta, strade, igiene pubblica, regime delle acque, bonifiche, protezione delle foreste, ecc…”»

«Ora viene il bello. Legga, legga!»

«”Apre orfanotrofi e ospedali e si compiace spesso di atteggiarsi, solo in apparenza s’intende, a protettore e benefattore dei poveri e deboli. Ma basta osservare come e perché esso compie queste funzioni, per riscontrarvi la prova sperimentale, pratica, che tutto quello che il governo fa è sempre ispirato allo spirito di dominazione, ed è ordinato dal difendere, allargare e perpetuare i privilegi propri e quelli della classe di cui egli è il rappresentante e il difensore”». Il magistrato appoggiò il foglio sul tavolo.

«Non è finito!» dissi.

«Ah, no?»

«Un altro pezzettino!»

«Ma sono stanco!». Il PM brontolò. «”Un governo non può reggersi a lungo senza nascondere la sua natura dietro un pretesto di utilità generale, esso non può far rispettare la vita dei privilegiati senza darsi l’aria di volerla rispettata in tutti; non può far accettare i privilegi di alcuni senza fingersi custode del diritto di tutti”4».

«Bel paraculo lo Stato, eh?» dissi sornione. «Ma in tutto questo, sapete qual è la cosa buffa?»

«Ora mi fa anche gli indovinelli?»

«La cosa buffa è che le persone credono davvero che agisca per il bene pubblico. Sono talmente plagiate da essere convinte che la legge rappresenti la loro volontà. ”Ipnosi collettiva”, la chiamava Tolstoj». Sospirai. «Più prosaicamente, è semplice stupidità!»

NOTE

1 – M. Bakunin, Federalismo, Socialismo, Antiteologismo, incluso nel volume Libertà, eguaglianza, rivoluzione, 1976.

2 – Filippo Trasatti, Lessico minimo di pedagogia libertaria, 2020.

3 – Femminismo e Anarchia, Emma Goldman, Raccolta di scritti di Emma la rossa, pubblicata nel 2009.

4 – E. Malatesta, L’Anarchia, 1891.

Editing a cura di Costanza Ghezzi: www.costanzaghezzi.com, costanza ghezzi@gmail.com

Immagine: Avvocati e giudici del ritrattista Honoré Daumier