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NO ANTIFASCISMO, SI’ ANTIAUTORITARISMO

NO ANTIFASCISMO, SI’ ANTIAUTORITARISMO

L’antifascismo è quel movimento ideologico eterogeneo, in quanto riunisce soggetti anche molto diversi fra loro, caratterizzato dalla contrapposizione teorica e pratica al fascismo.

Attivo prima della seconda guerra mondiale per replicare alla propaganda di regime e reagire all’atmosfera di prepotenza, intolleranza e terrore, dopo l’armistizio dell’8 settembre, giocò un ruolo fondamentale nella liberazione dal nazifascismo. Terminato il conflitto, allo slancio politico il paese preferì la lavatrice nuova1 ed esso, salvo rare e nostalgiche manifestazioni, venne obliato. Almeno fino agli “anni di piombo” quando la destra e la massoneria diedero vita a quei simpatici rigurgiti sfociati nel terrorismo di stato. Da quel momento il suo significato è andato oltre la mera negazione del ventennio per contestare qualunque idea e pratica reazionaria. Sembrava l’alba di una nuova epoca, invece si trattava del golpe bianco che, attraverso l’uniformazione sociale, avrebbe concepito il meraviglioso sonnambulismo di questi tempi.

 

La ragione della contrapposizione al fascismo si spiega col fatto che esso è un “aborto storico”2. Meno enfaticamente, trattasi di un movimento politico di estrema destra in cui i frustrati di ogni rango si identificano nella banalizzazione del superuomo nietzschiano praticato con lo squadrismo e idealizzato nel nazionalismo. I suoi valori sono sintetizzati dalla formula: “dio, patria e famiglia”. Dio come verità assoluta, patria come luogo da difendere, famiglia come centro degli affetti. Aggiungerei anche la violenza, ma in epoca di cancel culture non vorrei offendere la sensibilità dei sempre più numerosi fascistelli sulla piazza.

Lasciando perdere Dio perché concepisco l’ebrezza del rum non quella della fede e la famiglia perché se uno desidera essere ammaestrato dovrebbe fare l’animale del circo, più intrigante è il concetto di nazione. Nazione che rappresenta la sintesi delle individualità nella comunità omogenea, gerarchica e bellicosa3, in cui l’idolatria dello Stato soggioga l’individuo e strumentalizza gli istituti civili nell’ostentazione militarista e imperialista. E per non farsi mancare nulla, tutto viene condito da un pervicace sentimentalismo di appartenenza.

Il fascista è la sua patria: si identifica quasi in maniera commuovente con il territorio, la cultura, la lingua, la religione, la storia, le tradizioni le istituzioni. Ẻ un servo devoto, orgoglioso di partecipare alla “grandezza morale e materiale del popolo italiano”4 di cui si sente fiero rappresentante. E lo fa con tale sincera devozione che ancora aspetta fiducioso quel favoruccio dall’assessore. Per la bandiera soffre, si esalta, inneggia, si arrabbia, aggredisce in un tourbillon di schizzofreniche emozioni. E a coloro per cui “la nostra patria è il mondo intero, nostra legge è la libertà, ed un pensiero ribelle in cor ci sta”5 è sempre pronto a elargire un po’ di sano, redentore, patriottico squadrismo.

 

Tornando all’antifascismo, nel tempo il suo significato si è evoluto. Per non rimanere ancorato all’anacronistico rifiuto delle pratiche violente, intimidatorie e razziste di cui la dittatura si è resa protagonista, aveva due soluzioni: o prendere le distanze dalla mistificazione statocentrica oppure consolarsi con l’idea che lo Stato sia un padre un po’ stronzo, ma si può chiudere un occhio perché ha promesso di comprare le figurine. Ovviamente ha scelto questa seconda.  

Sintesi dell’antifascista moderno è il rifiuto della tirannia: condivide, infatti, tanto l’opposizione all’imperialismo capitalista, perché non si può essere eguali solo quando si consuma, quanto il disprezzo per gli autoritarismi sia di destra, come le dittature sudamericane, che di sinistra, come quella sovietica. Esalta quindi i valori democratici in opposizione a qualunque idea e pratica autoritaria.

Ma essi, se intesi come rispetto delle esigenze, della dignità e dei diritti altrui, sono legati alla sensibilità personale o collettiva, in quanto tali mutevoli nel tempo e variabili in base al contesto, per cui impossibili da determinare. Ecco perché è più corretto definire democratico chi “si ispira o è conforme ai principi fondamentali della democrazia6, ovverosia quel “metodo per prendere decisioni collettive” con partecipazione personale e scelte prese a maggioranza7. Detto altrimenti, è colui che riconosce quella forma di governo in cui la sovranità è esercitata dai cittadini attraverso una consultazione popolare che può essere diretta, quando si occupano personalmente del potere legislativo, esempio è la polis greca, o indiretta, quando eleggono dei rappresentanti, esempio è il parlamentarismo. Qui sta l’inghippo.

 

La prima considerazione è che la partecipazione diretta non esiste più. Se nel medioevo, infatti, quando suonava la campana, gli abitanti del Comune si riunivano per dibattere i problemi della città, dall’Illuminismo in poi si parla solo di rappresentanza. La democrazia oggi infatti è solo indiretta. Aggiungendo che gli eletti e i sistemi elettorali sono scelti dai partiti, rispetto alla Monarchia a cui si opponeva in origine, essa è un piccolo passo per l’umanità, un grande passo per le oligarchie. Ma non voglio fare lo spiritoso parafrasando Neil Amstrong.

La seconda considerazione è che oggi esiste solo un modello di democrazia: quella liberale occidentale anglo-statunitense. E non potrebbe essere altrimenti, visto che per proteggerla e diffonderla i suoi artefici annientano qualunque alternativa.

I paradigmi che la caratterizzano sono:

  1. Il pluralismo politico.
  2. Il suffragio universale.
  3. Il principio della maggioranza.
  4. Lo stato di diritto.
  5. La divisione dei poteri.
  6. La libera manifestazione del pensiero.
  7. La libertà di stampa e la libera iniziativa economica.

Principi che dalla teoria alla pratica diventano:

  1. Pluralismo politico: può vincere chiunque ma i moderati vincono sempre. Il massimo per garantire “fascismo eterno”!8
  2. Suffragio universale: quella regola per cui tutti i cittadini, non solo pochi privilegiati, possono essere manipolati senza distinzione di sesso, età, razza, eccetera.
  3. Maggioranza: se il più forte vince, almeno il più debole ha qualcosa di cui lamentarsi.
  4. Stato di diritto: il rispetto dei diritti e delle libertà viene garantito dallo stato di polizia.
  5. Divisione dei poteri: principio fondamentale per sdoganare la divisione in caste.
  6. Libera manifestazione del pensiero: consiste nel tollerare il pensiero divergente quando si è conformato a quello generale.
  7. E se con la libertà di stampa si intende la libertà dell’editoria di assecondare chi la finanza, con la libera iniziativa economica si configura il sogno americano per cui chiunque può fare soldi se altri lavorano per lui e consumano i suoi prodotti.

Difendere la democrazia significa quindi difendere queste distorsioni che, salvo qualche variazione di facciata, rimarranno tali finché sarà fondata sullo statocentrismo. L’imperio dello Stato, infatti, non solo ne esclude l’attuazione pratica in termini di partecipazione diretta in quanto con esso incompatibile, ma oscura la possibilità di alternative che siano veramente democratiche, cioè fondate su sistemi libertari, orizzontali ed egualitari, non gerarchizzati né elitari, con i quali sparirebbero i privilegi, i profitti, gli abusi di chi lo sostiene o ne approfitta.

Ecco perché la democrazia moderna è solo una forma mascherata di autocrazia. Anche quando opera nel giusto, come ad esempio… come ad esempio… non mi viene in mente nessun esempio! Comunque, anche supponendo che agisca nell’interesse dei cittadini, la maggioranza che lo ha votato, il governo impone sempre le sue decisioni punendo chi non le rispetta, la minoranza, e gli sparuti refrattari. Rappresenta pertanto un sistema soverchiante, aggressivo e violento che annulla la personalità. Niente di paragonabile col fascismo primigenio ovviamente, in quanto il tempo ha affinato i metodi, che sono diventati meno precipitosi e arroganti, più accorti, scaltri, perché no, ipocriti quanto basta a far credere ai sempliciotti che agisce nel loro interesse.

Ne consegue che, quando l’antifascismo richiama i principi della democrazia, intesa come quel modello di ispirazione illuminista e attuazione imperialista, ne legittima anche il metodo endemicamente oppressivo e dispotico. Riconoscendo lo Stato, infatti, ratifica l’azione di un governo che, coadiuvato da mastini-cacciatori di trasgressori, decide a nome di tutti nell’interesse di pochi. E mentre questi ultimi continuano a godere dei privilegi, economia e scienza perpetuano disastri umani e ambientali, i politici si spalleggiano per la conquista e la conservazione del potere. Non mi sembra un bel quadretto!

 

Diverso dovrebbe essere il discorso per gli anarchici che, invece, non ambiscono a governare e vogliono eliminare lo Stato.

Vero che eludono il potere, rifuggono le istituzioni e disprezzano ogni artificio ingannatore. Anche loro però manifestano sempre più frequentemente i valori dell’antifascismo attraverso l’esaltazione della democrazia, sostenendo di fatto un modello politico-istituzionale centralizzato e autoritario antitetico ai propri principi.

La causa di questa dissonanza cognitiva e della profetica fantasia di poterlo cambiare sta nella letargia mentale indotta dal perbenismo a cui anch’essi ormai sono assuefatti. L’effetto, invece, è che non sono più capaci di rottura col sistema. Anche per loro l’antifascismo è diventato niente più che una leva identitaria. Un cliché con cui spacciarsi migliori nonostante la mediocrità conformista e politicamente corretta di cui ormai sono parte integrante. Uno slogan come la maglietta con l’effige di Che Guevara. Come Calimero, non a caso nero anche lui. Come, guarda un po’, la democrazia.

Non si è anarchici perché antifascisti. Gli anarchici sono anche antifascisti perché contro ogni arbitrio. La loro bussola non può essere data dai così detti principi democratici, ma dall’antiautoritarismo, che ne assorbe il significato estensivo, e si concretizza nel rifiuto della società del dominio: dal profitto che lo alimenta alle istituzioni che lo conservano, dall’economia che lo diffonde alla scienza che lo sacralizza, dalla religione che lo benedice all’omologazione che lo disciplina.

Identitaria deve essere la volontà di estirpare l’arbitrio, la violenza, il sopruso, la prepotenza, il pregiudizio perpetrati costantemente e impunemente in ogni pratica sociale. Se non si eliminano questi squilibri endemici, se non si sopprime lo Stato che ne è la legittimazione etica, sono solo chiacchiere. Belle, interessanti, talora entusiasmanti, ma solo chiacchiere.

Non serve migliorare le istituzioni, bisogna sostituirle con altre che siano volontarie, acentriche, orizzontali, pluraliste, autogestite, solidali, in un sistema in cui gli individui siano padroni di se stessi e in quanto tali realizzino le proprie potenzialità in una permanente reciprocità. Occorre un’azione radicale di tipo olistico che accerchi il Potere creando comunità indipendenti che ne erodano competenze e autorità. Questo è l’antiautoritarismo anarchico.

A quel punto, eliminata ogni sua manifestazione, il fascismo si dissolverà spontaneamente e  il Potere sarà costretto a cedere. O quantomeno, a confrontarsi e accettarle per la sua stessa sopravvivenza.

Certo, poi bisognerà vedere se le comunità lo tollereranno. Ma questa è tutta un’altra storia.

 

NOTE

*1 Oblio che comincia con la “Amnistia Togliatti” del 1946 con cui il governo De Gasperi, per superare le violenze della guerra e ripristinare la pace politica e sociale, concesse clemenza a tutti coloro che si erano macchiati di reati politici, di collaborazionismo, di concorso.

*2 Manuel Giannantonio, Anonimous, llmiolibro, 2013.

*3 Rubo gli aggettivi alla definizione che Gentile usa nel suo libro “Fascismo: storia e interpretazione”, Laterza, 2002.

*4 Discorso di Mussolini del 24.3.24.

*5 Pietro Gori, “Stornelli d’esilio”, 1895.

*6 Definizione data dalla Treccani.

*7 Norberto Bobbio intervistato da Renato Parascandolo della Rai il 28.2.85.

*8 Umberto Eco, “Il Fascismo eterno”, La Nave di Teseo, 2020.