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33- LA PROPRIETÀ È IL PRESUPPOSTO DEL DOMINIO

«Adesso voglio un nome!» ululò Pottutto, manipolando vigorosamente la pallina di pongo.

«Funziona?» sviai.

«Cosa?»

«La pallina. Funziona davvero o lo fa soltanto per…?»

«Certo che… vuole provarla?»

«Era solo così, per curiosità!»

«Tanto non gliela davo!». Appoggiò l’orologio sul tavolo: «Ha cinque minuti. Dopo di che, se non mi dà un nome, qui si chiude!»

«E Sevizia?» borbottò Manganello deluso.

Ne approfittai: «Nella società del dominio, il più forte comanda, il più debole obbedisce. Anche in natura sono presenti organizzazioni asimmetriche e rapporti di supremazia, mai però l’autorità si manifesta attraverso condotte sfruttatrici, annientatrici, funzionali a un meschino scopo privato. Quando il capobranco sottomette il più debole agisce nell’interesse del gruppo, non per un fine egoistico.»

«E allora cos’è che favorisce l’instaurarsi della gerarchia?»

«Finalmente una bella domanda!»

«Grazie!»

«Dopo tre ore che sto qui…!» sottolineai. «La risposta è una: il tornaconto personale. Il profitto, cioè l’utile economico, è causa di ogni male umano. È un morbo che infetta le menti inducendole a giustificare gli atti più vili, repellenti, scellerati, devastanti perpetrati nei confronti di chiunque e di qualunque cosa ne ostacoli il perseguimento. Profitto che consiste nell’accumulare beni non necessari, che producono altri beni non necessari, l’insieme dei quali forgia l’autorità. E tanto maggiore è l’autorità, tanto il potere si trasforma in arbitrio. Arbitrio che esiste da quando l’uomo ha smesso di vivere in simbiosi con l’ambiente, non accontentandosi più di soddisfare i bisogni primari ed è legittimato dalla legge, positiva o divina che sia, nell’interesse dei Grandi Affari1 e indottrinato come principio supremo con l’etica del lavoro, della competizione, dell’affarismo, del consumo compulsivo e di tutta la propaganda che riduce l’esistenza a una triste finzione.»

«Esagerato!». Pottutto si spazientì.

«E se il profitto è causa del dominio, qual è il presupposto del profitto?» chiesi.

«Il dominio!» tuonò il maresciallo.

«Ha detto che quella è la causa!», lo corresse il magistrato.

«La proprietà è il presupposto del profitto» proferii. «Senza proprietà, cioè senza la disponibilità di beni che lo generano, esso non esisterebbe. Ma come è nata la proprietà?»

«E basta con le domande. Mica siamo a Lascia o Raddoppia.2»

«È semplice: secondo Rousseau – cito lui non perché le sue valutazioni siano antropologicamente le più approfondite ma perché fornisce un’immagine immediata e comprensibile a tutti – è bastato che qualcuno avendo attorniato di siepi un terreno, pensò di dire: questo è mio e che trovò persone tanto semplici per crederlo. A quel punto colui che possedeva, non contento di imperare nel suo territorio, temendo aggressioni esterne perché la potestà come si conquista con la forza, con la forza si può perdere, creò un potere supremo che garantisse ai proprietari l’eterna concordia: lo Stato3. Le rivoluzioni industriali ne hanno accresciuto l’autorevolezza, le guerre mondiali l’hanno cristallizzata. Dalla seconda metà del Novecento lo sviluppo tecnologico l’ha moltiplicata nelle infinite espressioni del dominio tecno-scientifico, lasciando al Leviatano l’esclusività di essere il braccio armato a protezione del sistema. Abbiamo cominciato col dominare la terra attraverso l’agricoltura, in cui abbiamo reso la natura un qualcosa da sfruttare, abbiamo proseguito dominando gli animali con l’allevamento, abbiamo strutturato una società patriarcale fino al dominio di tutti contro tutti attraverso la schiavitù, il lavoro salariato, la massificazione. Ormai siamo gli anonimi ingranaggi di una Megamacchina mangiatutto, di cui il capitalismo è solo l’ultima fase della civilizzazione4, seppur con altre parole conferma John Zerdan.»

«Arrivi al dunque!»

«Attraverso la proprietà l’uomo compensa l’inquietudine provocata dalla propria natura mortale: in essa si identifica e grazie a essa si sente eterno. Dimenticando però ciò che è, ovverosia un animale con un quoziente intellettivo appena superiore agli altri. Con la conseguenza che la sua ingordigia, il suo bisogno di onnipotenza, si materializza nel capitalismo, oggi tecnocrazia, o se preferite scientocrazia, il più nocivo assetto sociale emerso nel corso della storia

«A me piace il capitalismo!». Manganello gongolò.

«Non avevo dubbi!» replicai.

«Penso che stia enfatizzando!» miagolò invece Pottutto. «Il ricco è sempre esistito e ha sempre fatto quello che gli è parso!»

«Ẻ quello che ho detto. Perché sacralizzando la proprietà, egli possiede l’autorità e i mezzi per esercitare la sua supremazia. Dal padre padrone al capo ufficio che sfrutta i collaboratori, al latifondista che sfrutta la manovalanza, all’imprenditore che sfrutta l’operaio, al governo che sfrutta il popolo, il potere origina sempre da un’autorità innanzi tutto economica. Chi è saggio la pratica nel rispetto della dignità reciproca, chi è sfrontato e arrogante si chiama tiranno. E se una volta annientava i dissidenti, oggi ottiene il consenso mediante gli infiniti mezzi di manipolazione emotiva come l’illusione del benessere, l’induzione all’obbedienza consumistica, la devozione allo scibile e quant’altro conformi alla sua necessità elidendo la capacità critica personale. Il paradosso infatti è che con il capitalismo l’oppresso si illude di non soffrire più il giogo perché ne è partecipe. Orgogliosamente mantiene e sviluppa ricchezza di cui non godrà mai, estorto dalle banche, ingannato dalle multinazionali, alimentando la tecnoburocrazia5, vivendo nella nevrotica normalità di professioni detestate, di relazioni opprimenti, di competizione e di avidità, di conformismo mentale e comportamentale…»

«E che è, l’Armageddon?» mi dileggiò Pottutto. «A me questo sembra solo libero mercato!»

«Il problema non è il mercato ma la servitù volontaria. L’apatia è connivenza. Le persone si scandalizzano quando i fiumi esondano, si commuovono quando vedono in tv un bambino che raccogliere coltan, si disperano quando ettari di boschi bruciano, eppure nessuno rinuncia ai propri capricci. Vivono in un sogno surreale e non vogliono svegliarsi per scoprire cosa hanno contribuito a provocare!»

«Parla dei disastri naturali? Ma se oggi l’industria fornisce una miriade di soluzioni ecosostenibili?»

«Tipo?»

«Le auto elettriche.»

«Certo, certo!» replicai caustico. «Di cosa sono fatte le batterie?»

«Non saprei. Sono un PM, non un batterista!»

«E come si smaltiscono?»

«Nemmeno uno smaltitore!»

«La verità è che l’economia ecosostenibile è un altro imbroglio con cui fregare i sempliciotti. Ha ragione Enrico Manicardi quando afferma che: si parla di tecnologia verde, tecnologia ecologica, di tecnologia a basso impatto ambientale. Ma la tecnologia non può mai essere verde, né ecologica, né a basso impatto ambientale: per avere oggetti tecnologici, infatti, bisogna produrli, e per produrli si debbono sventrare montagne, depredare fiumi, disboscare foreste, inquinare l’ambiente. Inoltre, ci vogliono fabbriche e miniere per realizzarli, perché gli oggetti tecnologici sono composti da silicio, terre rare, coltan, alluminio… conseguentemente, ci vogliono persone che vi lavorino. E siccome nessuna persona al mondo troverebbe piacevole lavorare 16-18 ore al giorno, tutti i giorni, nelle profondità buie e insalubri di una miniera, per poter consentire agli altri di avere un bel telefonino o un sistema cruise control nell’automobile, ne consegue che per avere oggetti tecnologici occorre costringere migliaia di persone a fare quello che nessuno vorrebbe fare.6 Altro che eco-sostenibilità!»

«Non mi sono mai comprato un telefonino in vita mia!» mugugnò Manganello.

«Ci credo, usa quelli confiscati!» sghignazzò Pottutto. «Ho capito il concetto!», rivolto a me. «Ma siamo a quattro minuti e non vedo la fine.»

«Quindi ne manca ancora uno!» replicai. «Il dominio ha ormai incorporato tutte le patologie sociali: patriarcato, sfruttamento, statualità, egoismo, militarismo, crescita illimitata che hanno afflitto la civiltà e inquinato tutte le sue conquiste7. Dobbiamo reagire! La radice è l’uomo, qui e non altrove, adesso e non più tardi8. Questo deve essere il punto da cui ricominciare. Che sia la guerriglia e insurrezione di Hakim Bey9, o la costruzione di comunità alternative, non è possibile rimanere inerti. Come diceva Debord: per distruggere definitivamente la società dello spettacolo occorrono uomini che mettano in azione una forza pratica10: noi anarchici la chiamiamo la lotta

«Le mancano pochi secondi!»

«Se vogliamo un mondo nuovo e diverso, un mondo in cui l’individuo non sia un rapace pubblico, se non ha timore, essendo potente; o avaro e insidioso e ipocrita se è impotente11, il primo passo è eliminare la proprietà, causa suprema di ogni devianza umana.»

«Mi ha fatto venire l’ansia!» sbottò il PM.

«Allora cambio argomento!» dissi.

«Ottimo! E di cosa ci parla?»

«Ma della proprietà, naturalmente!»

La penna che Pottutto teneva in bocca cadde sul tavolo.

 

NOTE

 

– 1 Espressione di Carlos Minghella, Piccolo Manuale di Guerriglia Urbana, Amazon, 1969.

– 2 Lascia o Raddoppia?, quiz televisivo condotto da Mike Bongiorno andato in onda dal 1955 al 1959.

– 3 Jean Jacques Rousseau, Discorso sull’origine e i fondamenti della ineguaglianza fra gli uomini, 1755.

– 4 John Zerdan, Enrico Manicardi, Nostra nemica civiltà, ivi.

– 5 Espressione coniata da Amedeo Bertolo.

– 6 Enrico Manicardi, Nostra nemica civiltà, ivi.

– 7 Murray Bookchin, Per una società ecologica, Eleuthera, 1976

– 8 Dwight Macdonald, The Root is man, 1953.

– 9 Hakim Bey, Millennium, 1997.

– 10 Guy Debord, 1931, fra i fondatori dell’Internazionale Situazionista.

– 11 Tommaso Campanella, La città del sole, 1602.

Editing a cura di Costanza Ghezzi.

Immagine: A. Modigliani, Nudo sdraiato, 1917.