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35 – LA PROPRIETÀ. IL RAPPORTO CON LE COSE CAMBIA SE CAMBIA QUELLO CON LA NATURA – terza parte

«Ho detto che la comproprietà è l’unica soluzione possibile. Nessuno è proprietario di niente. Tutti posseggono tutto. La comunità ne gestisce l’acquisto, la conservazione, l’uso e la distribuzione in base a modalità stabilite dai suoi membri al momento della costituzione, dell’ingresso, o in sede di eventuale modifica degli accordi. In questo modo non possono sorgere abusi, violazioni, usurpazioni, né gelosie e avidità perché ciascuno decide secondo coscienza e interesse.»

«Per me non funzionerà mai!»

«E invece funziona alla grande se ci si affranca dalla logica del dominio per cui la libertà è libertà di possedere!» affermai. «La rinuncia alla proprietà richiede la consapevolezza che gran parte dei lussi e molte delle cosiddette comodità della vita, sono non soltanto tutt’altro che indispensabili, ma autentici ostacoli per l’elevazione del genere umano come intuì Thoureau già a metà dell’Ottocento e qualche secolo prima gli stoici. Occorre pertanto abbandonare il sistema che ci fa vivere meschinamente come formiche, cioè smettere di affamarsi non per mancanza del necessario, ma per mancanza del lusso, con l’obiettivo che mantenersi su questa terra non sia una fatica, ma un passatempo, se viviamo con semplicità e saggezza. Ma la ridefinizione della relazione con le cose è possibile se e solo se muta il rapporto con la natura, che deve essere non più di supremazia, bensì volto a sviluppare le potenzialità creative indispensabili per cogliere l’essenza di ciò che ci circonda».

Li invitai a leggere le parole del filosofo nell’articolo del 1.12.23.

«Mi resi conto che in qualunque oggetto naturale si può trovare la compagnia più dolce e tenera, più innocente e incoraggiante, anche per il povero misantropo e per il più malinconico degli uomini. Non può esistere la mera malinconia per colui che vive nel mezzo della Natura. Concetto che ripete anche più avanti: l’indescrivibile innocenza e beneficenza della Natura concedono sempre una tale salute e una tale allegria e mentre godo l’amicizia delle stagioni, confido che nulla possa rendermi la vita un peso. La natura dona un’amicizia infinita e indescrivibile ma, simultaneamente, affranca dai vantaggi immaginati dalla vicinanza umana consentendo all’individuo di percepire la realtà delle cose essendo se stesso. Immergendosi in essa, infatti, egli può non solo soddisfare i bisogni essenziali rinunciando al lusso, quello che noi moderni chiamiamo ipocritamente benessere, ma soprattutto realizzare la conoscenza del sé, fondamentale per godere l’estasi della fusione con l’universale1».

«Detesto questi filosofismi!»

«La capisco. Pensare è faticoso!»

«Come si permette?». Pottutto avvampò.

«Dicevo in generale!»

Si ricompose: «Mi è venuto un dubbio sulla comunità…»

«Prego, dica pure!»

«Non le ho chiesto il permesso!» replicò piccato. «Cosa accadrebbe se un membro si appropriasse di un bene che appartiene a un altro gruppo?»

«Certo che il crimine ce l’ha proprio qui!». Puntai il dito alla tempia. «Non può accadere! Come nessuno ha bisogno di rubare un bene della comunità perché è suo, allo stesso modo non ha bisogno di appropriarsi di quello di un’altra perché ha scelto di non disporne. I bisogni sono assolti dal gruppo di appartenenza e l’assenza di competizione elide quei volgari quanto degradanti sentimenti di invidia e avidità che deturpano lo spirito e deteriora le relazioni: una volta abolita la proprietà privata, spariscono di conseguenza anche le leggi e i reati. Il comandamento non rubare è stato trasformato in lavora per vivere felice!2»  

Pottutto accese la sigaretta. «Ne vuole una?» chiese.

Sollevai le spalle assertivamente.

Indicò con lo sguardo il portacenere come a dire che avrei potuto scegliere il mozzicone che mi piaceva di più.

«Magari dopo!»

«E se invece le comunità riconoscessero la proprietà?». Il magistrato sollevò il sopracciglio.

«Già, se la riconoscessero?». Il maresciallo gli andò dietro. E come se avesse perso qualche passaggio: «Perché si sono incontrate?».

Lo ignorai: «Se una comunità accettasse la proprietà, accetterebbe di vivere secondo le regole del dominio, dando luogo a una società che non è anarchica. Potrebbe farlo perché il volontarismo e il pluralismo sono principi sacrosanti. Ma, lo ripeto, non sarebbe anarchica. E temo che, tolleranza a parte… prenda noi tre. Pensi un po’ cosa accadrebbe se andassimo a cena insieme?».

Per un attimo temetti che Pottutto si mangiasse la pallina.

«Mi parla di abolizione dello Stato, però ci sono gli accordi. Mi dice che vuole eliminare la proprietà, però va bene la comproprietà. Ho la sensazione che, come dire… che cambi tutto per non cambiare niente!» rilevò.

«Eh no. Cambia tutto per cambiare tutto!» sobbalzai. «Le dico solo tre cose random: la prima è che niente è più uguale quando le regole vengono stabilite dal basso e non c’è autorità che le imponga o ne controlli l’osservanza. Si chiama libertà. Libertà vera. Reale. Ancora più evidente mi sembra la portata rivoluzionaria della comproprietà. Condividere i beni in maniera orizzontale elimina ogni forma di sfruttamento e garantisce la compartecipazione, senza la quale non c’è autogestione. Questa è invece eguaglianza. Infine, il continuo confronto, la possibilità di trasformarsi consensualmente o di sciogliersi, di cambiare in ogni momento scopi e metodi, di rinnovarsi grazie alla negoziazione permanente, rendono il cambiamento inscritto direttamente nella sua costituzione interna e nel suo modo di esistere, con il risultato che essa non può continuare a essere ciò che è se non muta3 dice Tomas Ibágñez parlando della comunità anarchica. In quale sistema sociopolitico questa evoluzione armonica è consentita?»

«In quale?» chiese il maresciallo.

«Manganello, gli risponda l’anarchia così andiamo avanti!» il pubblico ministero lo sollecitò. E a me: «Abbiamo finito con la proprietà?»

Sovvenni: «Quasi dimenticavo il pluralismo. L’eguaglianza nella diversità è libertà senza catene. Quelle catene che vi rendono così tristi, solitari, abbandonati, depressi…!»

«Ora le facciamo anche pena?»

«Perché, è così evidente?».

 

NOTE

 

– 1 Henry David Thoreau, Walden, ivi.

– 5 William Morris, Notizie da nessun luogo, 1890.

– 6 Tomas Ibáñes, L’anarchia nel mondo contemporaneo, 2022.

 

Editing a cura di Costanza Ghezzi.

Immagine: Jago, Pietà.