ANARCOPHYSIS CORRETTO PRIMA DI MANDARLO ALL’EDITING

ANARCOPHYSIS

 

  FUGA NELLO STATO DI NATURA di Raimondo Maria Dopraho

 

IL SUICIDIO NELLA SOCIETA’ DEL DOMINIO

Il vuoto interiore non può mai sanato dalla compulsione carnale. Nell’ebrezza orgiastica il sé non emerge nella sua volontà di potenza in quanto gli impulsi sono sollecitati esclusivamente dal desiderio e verso il desiderio destinati, per cui il godimento non è spontaneo e imprevedibile, non inonda di meraviglia, ma è determinato da un bisogno riflesso. E se con i rituali dionisiaci almeno si chiavava irrefrenabilmente, la grossolana materialità moderna schiavizza inesorabilmente rendendo l’esistenza un inutile transito.

Non che la vita sia un dono. Non c’è niente di mistico nel nascere e non è poi così terribile morire. Gli esseri del mondo sono volontà che si rigenera attraverso la materia. Materia che evolve in materia, che perisce diventando altra materia. Adesso ha sembianze umane, poi sarà pianta, animale o roccia, comunque involucro con cui essa si manifesta, muta, diviene. Una forma di cui, pur consentendo ai desideri, alle sensazioni, ai pensieri di essere unici, si serve per interagire con l’alterità e compiersi nella processualità universale. Insieme creano la personalità, ma la morte fisica non le impedisce di rigenerarsi sotto altre sembianze. Quando il corpo diventa inservibile perché malato o viziato, oppure alterato dalle contaminazioni mondane, non reagisce alle sollecitazioni vitali o non riesce più a stimolarle, abbandonarlo per trovarne un altro diventa una scelta rigenerativa.

Cosa ne sanno gli uomini civilizzati del fiore anzicioco che si lascia morire quando sente avvicinarsi il fruscio della falce, oppure delle termiti kamikaze che eroicamente si fanno esplodere contro il nemico!

L’ordine costituito pretende che l’individuo si subordini all’interesse collettivo, che è interesse di chi lo governa. E la supremazia di un padrone si misura sempre dal numero di schiavi che possiede.

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A questo servono le religioni, che concepiscono la morte come un portale, anziché un comunissimo evento fisico. Con un dio, qualunque dio, proprietario e padrone della vita, all’individuo non rimane che maneggiarla con cura per non farlo arrabbiare e il suicidio diventa un affronto imperdonabile al suo dominio. La Bibbia lo aborrisce perché chi uccide se stesso uccide un uomo1, cioè l’essere che Egli ha creato a sua immagine e somiglianza2. E quando domanderà conto della vita dell’uomo all’uomo3, sarà meglio che trovi una scusa credibile. L’islamismo, il competitor monoteista più agguerrito, non è meno intransigente4. Quando invece il senso di colpa non è un dogma, come avviene per gran parte dei sincretismi orientali, la naturalità delle cose si scontra con l’artificiosità imposta e capita che, se qualcuno dice «vado a fare due passi!», i familiari lo fissino coi lucciconi.

Il disinibito uomo moderno ha sostituito le religioni con teismi più pragmatici, capaci tuttavia di conseguenze non meno devastanti. Statolandia ci chiama cittadini, ma ci tratta come servi. La Scientocrazia ci battezza uomini, ma reclama cavie. La prima si impone in nome di un bene comune che realizza il tornaconto dei Grandi Affari. La seconda subordina al progresso, che realizza ancora il loro profitto. Sempre lì si torna!

Entrambe non accettano che l’individuo possegga il proprio corpo, quindi la propria vita. Una lo assoggetta alla sua autorità limitando la possibilità di disporne, l’altra ne riconosce il primato perché da morti non si può produrre e consumare. Così il suicida diventa un povero disadattato affetto da terribili disturbi psicosociali perché non accetta il sistema che gli viene imposto con serena rassegnazione o rampante entusiasmo5. E, beffa nella beffa, deve sorbire l’invadenza del salvatore di turno che diventa eroe perché non si è fatto i cavoli suoi.

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Le motivazioni personali che inducono al suicidio servono ai familiari e agli amici per non sentirsi in colpa. Prevenirle invece è il proposito di chi non accetta che qualcuno si sottragga al suo controllo. Il dolore fisico, il disagio sociale, le patologie psichiche, gli eventi nefasti, le esperienze traumatiche e quant’altro sono tutte fandonie dietro cui si cela la vera causa di ogni sofferenza: la paura di morire.

Ogni essere vivente teme la morte. Ma mentre i non umani combattono per la vita e se capita è nell’ordine delle cose, l’uomo non la comprende e così la esorcizza ideando metafisiche consolatorie o tangibilità di facile consumo. E ai molti esclusi da questa allegra baldoria non rimane che la speranza, sempre a buon mercato e di cui chiunque può disporre senza rischiare di essere menato dai mastini. Quando Tomas Shelby va a trovare l’amico Barney in manicomio e gli chiede il motivo per cui non vuole morire nonostante non veda la luce da anni, questi risponde: “Perché le cose potrebbero cambiare!”6. All’isolamento e alla fine certa oppone quello slancio emozionale che proietta il sé in una suggestione, l’eventualità favorevole idealizzata, subordinando l’empirico all’immaginifico, il reale all’illusione. Ẻ un atto di fede. Una dissonanza cognitiva che il suicida, esattamente come il libertario, non può accettare. Lo spirito di entrambi è, infatti, completamente immerso nella realtà. Per loro vale quello che dice il saggio: ieri è storia, domani è mistero, ma oggi è un dono. Per questo si chiama presente7. Invece di prendere il dono però, si donano.

Esattamente come il libertario, chi si toglie la vita possiede, consapevolmente o meno, la profonda percezione di essere atomo imprigionato nella roccia che, una volta liberato dalla radice di quercia, viene gettato nel mondo delle creature viventi e aiuta a costruire un fiore, che diventa una ghianda, che ingrassa un cervo, che nutre un indiano8, in un ciclo continuo ed esaltante. Si fa beffe dei personalismi che mirano l’utile, dei pregiudizi, delle imposizioni, della morale religiosa e sociale che impongono l’uniformazione, della legge che lo vuole sottomesso alla sua autorità onnipotente, degli affetti perché non esiste che uno passeggi per strada e improvvisamente dica: «sai che faccio, mi butto dal ponte!», poi si butti davvero.

Chi si toglie la vita ama i propri cari ai quali lascia il ricordo e il creato a cui dona le membra. Rompe invece con l’ordine esistente perché è così padrone di sé da voler trasmettere la morale della rinascita. La sua volontà è pura, proprio come quella del libertario. E proprio come per il libertario essa si perfeziona tornando alla natura. Ma per il primo, il processo non si compie attraverso l’identificazione nel tutto. La volontà recede dalla sua stessa indole preferendo trasformarsi anticipatamente anziché esaltarsi nell’unione. La sua è pertanto una scelta remissiva dettata dal bisogno di evitamento che sorge dopo aver ignorato, rinunciato o, addirittura, fallito il tentativo di essere felice. Il suo gesto è ribelle, ma privo di quell’audacia che lo renda possente. Perché ce ne vuole parecchia per rinunciare a ciò che si crede di essere per diventare ciò che si è.

Ẻ come l’uccellino uscito dalla gabbia che non riesce a volare. Indietro non torna e davanti ha lo strapiombo. Ora guarda davanti, ora guarda dietro. Ora scuote le ali, ora fissa il vuoto sapendo di non avere alternative all’inevitabile.

NOTE

1- Sant’Agostino, De Civitate Dei, 1,20.

2- Genesi 1,26, 27.

3- “Dal sangue vostro anzi, ossia della vostra vita, io domanderò conto; ne domanderò conto ad ogni essere vivente e domanderò conto della vita dell’uomo all’uomo, a ognuno di suo fratello” (Genesi 9,5).

4- Sahih Al Bukhar 1365, libro 23, Hadith 117. Dice infatti il Profeta che Allah è colui che fa vivere o morire e guai a scalfirne l’autorità perché chi si suicida strozzandosi continuerà a strozzarsi nel Fuoco dell’Inferno (per sempre) e chi si suicida pugnalandosi continuerà a pugnalarsi nel Fuoco dell’Inferno

5- Mentre terapeuti, psicologi, psichiatri si interrogano su come i media riescano a omologare meglio di loro, i sociologi solleticano la responsabilità collettiva attribuendo la responsabilità alla mancata integrazione nel gruppo di appartenenza, così Emile Durkheim, Il suicidio, 1897, i politici perfezionano l’addomesticamento.

6- Peaky Blinders, serie televisiva del 2013.

7- Frase del Maestro Oogway in “Kung Fu Panda”, film di animazione, 2008.

8- Aldo Leopold, Pensare come una montagna, Piano B editore, 1949.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CONFORMISMO TI ADORO!

La relazione con il prossimo sarebbe uno stimolo, un completamento, una meraviglia, se non fosse alterata dai pregiudizi, dalla superficialità, dall’ignoranza, dalla volgarità, dall’ipocrisia, dalla manipolazione, dallo sfruttamento, dall’egoismo, dall’invidia… E siccome le persone vengono indottrinate alla competizione, fanno a gara a chi è peggio!

Così è perché sono malate. Il profitto è la loro malattia. E il denaro, che ne rappresenta la manifestazione più immediata, è la droga che ha fuso loro il cervello. Non pensano ad altro. Vivono per quello. Dalla mattina alla sera lottano per appropriarsene. Se ne sono sprovviste si indebitano o ricorrono al malaffare. Quando ce l’hanno lo spendono. E tutto questo perché sanno essere solo ciò che posseggono.

Nella società del profitto tutti vendono qualcosa. Se però i compratori avessero gusti, aspirazioni, bisogni differenti, potrebbero scegliere e l’imprevedibilità è un rischio da evitare in un’economia che deve crescere all’infinito. Ecco perché quando guardiamo la televisione, ci distraiamo con i social o ascoltiamo la radio, veniamo tempestati da messaggi che propinano sempre i medesimi valori, bisogni e scopi. In questo modo, manipola oggi, manipola domani, si crea l’opinione pubblica. La fidelizzazione è il primo obiettivo di ogni bravo mercante!

Dal Taylorismo in poi la pratica è stata utilizzata anche in ambito sociale per creare individui disciplinati, prevedibili e obbedienti, nonché lavoratori zelanti e consumatori infaticabili. Si chiama pensiero dominante ed ha il merito d’aver cancellato le diversità. Siamo ormai talmente programmati che quando gli automi ci sostituiranno, saranno più umani degli umani.

Laddove la manipolazione proselitistica non funziona, intervengono la sociologia, la psicologia e tutte le altre –ia che distinguono fra normalità e anormalità. Normale è colui che obbedisce alle regole. Anormale è colui che non si adatta agli standard etici e comportamentali della comunità di appartenenza. È un divergente che rifiuta di sottostare al dogma dell’obbedienza e come tale o si redime o deve essere eliminato dal consesso sociale. Ecco perché la propaganda e la legge lo assimilano al pericoloso sociopatico. La collettività deve temerlo, deve emarginarlo, se necessario eliminarlo. Siamo ancora al buon vecchio chi non è con noi è contro di noi! 1. Il fascismo non si è mai estinto. Si è solo fatto furbo per cambiare colore politico in base alla convenienza.

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Il manicheismo conformista rifiuta il confronto con il ribelle perché rappresenta il giusto che non è. Ne disprezza la purezza. Ne irride la sincera moralità. Ne esalta la pericolosità. Lo restituirebbe al mito ardendolo nel fuoco o mozzandogli la testa se non fosse tanto ipocrita. Ai suoi occhi si è o non si è persona perbene. Si è conformi al senso comune, di cui la norma è sublimazione, oppure no. Senza domande. Senza dubbi. Interrogarsi sarebbe già un imperdonabile atto di insubordinazione poiché l’ordine, e qui la suggestione diventa ipnosi collettiva, è sempre legittimo perché legittima è l’autorità che lo emana. Che sia Dio, lo Stato, l’economia, la scienza o chi per esse. E così il bravo cittadino è colui che obbedisce senza riserve qualunque sia il contenuto e la fonte dell’imposizione, orgoglioso che anche la propria dignità venga definita dal tiranno.

La legge è lo strumento con cui l’autocrate maneggia il suddito. Una volta veniva intimata, in epoca di sofisticazione manipolatoria viene spacciata come volontà del popolo nell’interesse del popolo. Facile però dimostrare che essa non è mai ispirata dal bene comune, bensì dalla ragion di stato. Che spesso consiste nel tributo2 imposto con o senza violazione. E quando capita che gli interessi coincidano, è perché ogni tanto anche una ciambella può venire con il buco.

A chi invece sostiene che la norma sia sempre legittima perché sub judice in quanto soggetta alla garanzia del controllo costituzionale, è sufficiente ricordare che i giudici della Suprema Corte sono tutt’altro che autonomi e indipendenti. Vengono infatti nominati dal Presidente della Repubblica, che quella ha sottoscritto, dal Parlamento, che quella ha promulgato, dalla magistratura, che quella deve far applicare3. Non vorrei aggiungere altro perché parlare degli stipendi a sei cifre che prendono per assecondare la loro volontà può sembrare qualunquistico.

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Messi alle corde, i legalisti giocano l’ultima carta: il voto. La frase che pronunciano è sempre la solita: «Eh, ma voi avete votato!» Che tradotta significa sia che il voto legittima le decisioni della politica, sia che: «Li hai votati tu, che cavolo vuoi?»

Tanto per cominciare non tutti votano. Ad esempio, io ho votato solo a diciotto anni, giusto per vedere come funzionava. Ed è funzionato bene visto che il candidato scelto è stato arrestato per tangenti due mesi dopo.

In secondo luogo, come non notare che nelle ultime elezioni ha partecipato circa il sessanta percento degli aventi diritto. In quelle precedenti il settanta. Probabile che alle prossime sia inferiore alla metà. Di questa quota vince la maggioranza. Ciò significa che il governo è sempre la volontà di una minoranza dell’intera popolazione. Ora, la matematica non è il mio forte, ma essere preso per il culo non è la mia aspirazione!

Solo l’eletto, un suo stipendiato o un suo cliens4 possono affermare che il voto non sia una finzione. È una finzione perché nessuno ha mai accettato l’ordine politico e le sue regole. È una finzione perché i media manipolano la massa in cambio di finanziamenti. È una finzione perché quando la scelta dei candidati è predefinita si chiama imbroglio. È una finzione perché il voto è una delega in bianco in virtù della quale la politica agisce come vuole e senza conseguenze. È una finzione perché non ci si candida e si fa campagna elettorale senza denaro o senza colludere col malaffare e in pochi, anzi pochissimi, posseggono il primo e sono capaci del secondo.

Potrei proseguire con l’elenco, ma qui mi fermo per concludere rilevando che il perbenista è solo un dissimulatore che si riempie la bocca di paroloni, sofismi e moralismi perché teme che la libertà degli altri possa ostacolare il suo profitto. Che di per sé avrebbe anche una sua logica. A parte il profitto, naturalmente.

Il conformismo è una scelta utilitaristica conservativa pervertita d’ideologia ostile. Se collettiva, come nel caso del pensiero unico, addirittura spietata. Il dito dei benpensanti è sempre puntato, il giudizio sempre solerte, la pena sempre crudele nei confronti di coloro il cui spirito e la cui condotta divergente possono turbare la stabilità. Chi rispetta la legge non è quindi una persona perbene, bensì un complice del sistema delinquenziale. Perché il vero crimine non è violarla, quanto imporla per utilità impedendo alle persone di essere se stesse e definire regole proprie.

Per questo eluderla, trasgredirla, ingannarla sono atti morali che riempiono il cuore.

NOTE

*1 Citazione dal discorso di Mussolini del 24.3.1924.

*2 Termine da interpretare nell’accezione utilizzata da Pierre Clastres.

*3 Art 135 della Costituzione.

*4 Chi riceve un favore nella pratica del clientelismo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LA PAROLA DELL’ANARCHICO

Se mi chiedi per quale motivo a scuola non si leggono i testi dei filosofi anarchici, coloro che hanno scritto e si sono battuti per un mondo senza padroni, rispondo che gli insegnanti sono burocrati stipendiati dall’ordine costituito. E in un regime fondato sul guadagno non c’è leva più efficace di un bonifico sicuro a fine mese.

È un po’ lo stesso motivo per cui i ragazzi arrivano al diploma che a mala pena hanno terminato il romanticismo. Al massimo, quando i professori sono lungimiranti, conoscono qualche autore verista. Meglio non alterare la suscettibilità educando allo Stato etico esaltato nell’Ottocento, piuttosto che istruire sulle catastrofi umane, ambientali, sociali provocate dallo statocentrismo nel Novecento.

La scuola è uno strumento con cui il Potere indottrina e seleziona. A esso non interessa che le persone siano consapevoli e autonome. Le vuole ignoranti e succubi sia fisicamente che, soprattutto, mentalmente per poterle manipolare e sfruttare. E così l’entusiasmo con cui i giovani lasciano i banchi si trasforma presto nella consapevolezza di essere ingranaggi di una catena. Con due effetti consequenziali: il primo è perdere l’autostima, il secondo è tentare di ripristinarla accettando di partecipare al sistema che ne deprava la personalità. E poiché non tutti hanno la capacità o l’opportunità di sviluppare questa seconda opzione, molti regrediscono alla prima crogiolandosi malinconicamente nell’inerzia.

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L’anarchia propone molte alternative al sistema educativo tradizionale, tutte fondate sullo sviluppo dell’individualità. L’educatore è tale quando riesce a farla emergere, perché soltanto chi è consapevole di se stesso e dei propri mezzi può essere padrone del mondo. Curiosità, personalità, sperimentazione, integrazione, pluralismo, interdisciplina, capacità critica sono solo alcuni dei principi su cui si fonda il metodo antitetico alla manipolazione, all’omologazione, alla gerarchizzazione, alla certificazione praticato da quello autoritario e impositivo.

Affinché però la pedagogia libertaria possa diffondersi, occorre non solo che si evolva fra affini che operano nelle maglie del Potere grazie all’underground, ma che sia trasmessa ai suggestionati e dominati dal sistema. Per questo gli anarchici usano la parola e non temono il confronto personale. Sanno che se uno fissato con la trap ascolta Chopin, probabilmente si addormenta. Ma sono convinti che se ha vicino chi lo introduce con passione alla musica dell’anima, deve essere alessitimico per non innamorarsene. Ecco perché, prima di invitare alla pratica anarchica, educano a diventare padroni di se stessi. Non si è anarchici se non si è uomini liberi. E l’unico modo per essere liberi è disintossicarsi da ciò che narcotizza la volontà: il profitto. Intorno al quale l’ordine costituito edifica gli altri artifici mentali. Dopo tutto, se viene venduto come mezzo di realizzazione del sé, non è per nascondere il nulla che provoca?

Ma anche l’anarchia sarà sempre utopia finché i suoi attori penseranno e agiranno in termini di tornaconto. Deve germinare in un ambiente che esclude l’asservimento, l’alienazione, la disintegrazione della personalità, dove l’individuo possa abbandonarsi all’istinto per vivere la naturalezza dell’esistenza.

L’uomo è un organismo biotico. E in quanto tale, si perfeziona spontaneamente nella condivisione dei processi naturali. Siamo natura che prende coscienza di sé, diceva Sorel. Occorre lasciarsi andare al suo divenire per trovare la propria identità. In termini pratici, bisogna rinunciare agli artifici del progresso mercantile, consumistico e predatorio, della logica del dominio in generale, per immergersi nel selvaggio operando attraverso relazioni empatiche coi suoi elementi in un’interdipendenza in cui ciascuno è protagonista. Che non vuol dire spogliarsi degli averi per parlare agli uccelli come San Francesco. Sai quante cose interessanti può dire un lupo o un cinghiale, un nocciolo o una pianta d’origano, ad esempio?

Quando l’individuo vive senza profitto, immune da subordinazioni artificiali, e pratica un rapporto continuo col creato, coglie la propria essenza dalla connessione coi suoi elementi, dalla partecipazione alla sua evoluzione, dall’identificazione con le molteplicità. Ed è allora, quando l’unità, la propria, diventa infinito, il creato, che l’estasi esplode. Diversamente, l’esistenza è solo una parodia che non fa ridere.

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Compiuto questo slancio etico, il libertario può dedicarsi alla costruzione di realtà autonome, autogestite e autogovernate che erodano l’ordine da cui si è estromesso e realizzino possibilità alternative. E con questo afflato, lo stesso che lo porta a esaltarsi in quella meravigliosa attività che è l’inosservanza delle regole imposte, può diffondere la parola.

Ogni occasione è buona per manifestare i principi che lo guidano, raccontare le esperienze che lo vivificano, descrivere la gioia che provocano, trasmettere la conoscenza e il buonsenso in chi vive solo perché ha paura di morire. Non gli importa se viene considerato un folle o un divergente, se viene emarginato o punito. La consapevolezza di sé e la certezza di essere nel giusto, di cui si alimenta ingordamente, lo portano sempre a divulgare:

  1. Che il profitto è strumento di potere e il potere è il male assoluto perché si conquista e si mantiene con il raggiro, la manipolazione, la corruzione, il malaffare, la depravazione, l’intimidazione, eccetera e si conserva con la violenza.
  2. Che il profitto genera sofferenza sia perché non basta mai, sia perché per conseguirlo si rinuncia al sé e si sfrutta il prossimo, sia perché è sempre alienante, disumanizzante, umiliante, annichilente.
  3. Che negato razionalmente il profitto, il giudizio, il desiderio, l’utile e ogni forma di dominio si diventa padroni di se stessi.
  4. Che il padrone di se stesso è capace di abbandonarsi all’istinto per identificarsi con le infinite molteplicità.
  5. Che l’identificazione è condivisione spontanea con le entità animate e inanimate compiuta attraverso la partecipazione alle dinamiche naturali, in una simbiosi in cui la personalità si sviluppa coscientemente e autonomamente secondo necessità.
  6. Che partecipare al creato è amore. Non la passione, il sentimento, la pietà, o altre emozioni transitorie, bensì la capacità di donarsi incessantemente a esso, di proteggerlo, conservarlo, magnificarlo, in comunione con affini.
  7. Che unirsi all’ordine naturale è lo scopo di ogni esistenza in quanto unica via per cogliere e realizzare il sé nel tutto.

 

Concludendo: l’anarchia prima di essere condotta pratica è una scelta etica che ridefinisce il rapporto col mondo, con gli altri e con se stessi. Bisogna pensare disinteressatamente e agire armonicamente alle leggi eterne della natura e della necessità1. E poiché in natura la felicità è amore, nient’altro2, senza donarsi non c’è padronanza e la parola è il mezzo più diretto di cui dispone il libertario per offrirsi al prossimo. Almeno finché non viene messo a tacere.

NOTE

*1 William Godwin, Political Justice, 1793.

*2 Hermann Hesse, Sull’amore, Mondadori, 2016. Testo completo: “Quanto più invecchiavo, quanto più insipide mi parevano le piccole soddisfazioni che la vita mi dava, tanto più chiaramente comprendevo dove andasse cercata la fonte delle gioie della vita. Imparai che essere amati non è niente, mentre amare è tutto, e sempre più mi parve di capire ciò che dà valore e piacere alla nostra esistenza non è altro che la nostra capacità di sentire. Ovunque scorgessi sulla terra qualcosa che si potesse chiamare “felicità”, consisteva di sensazioni. Il denaro non era niente, il potere non era niente. Si vedevano molti che avevano sia l’uno che l’altro ed erano infelici. La bellezza non era niente: si vedevano uomini belli e donne belle che erano infelici nonostante la loro bellezza. Anche la salute non aveva un gran peso; ognuno aveva la salute che si sentiva, c’erano malati pieni di voglia di vivere che fiorivano fino a poco prima della fine e c’erano sani che avvizzivano angosciati per la paura della sofferenza. Ma la felicità era ovunque una persona avesse forti sentimenti e vivesse per loro, non li scacciasse, non facesse loro violenza, ma li coltivasse e ne traesse godimento. La bellezza non appagava chi la possedeva, ma chi sapeva amarla e adorarla. C’erano moltissimi sentimenti, all’apparenza, ma in fondo erano una cosa sola. Si può dare al sentimento il nome di volontà, o qualsiasi altro. Io lo chiamo amore. La felicità è amore, nient’altro. Felice è chi sa amare. Amore è ogni moto della nostra anima in cui essa senta se stessa e percepisca la propria vita. Ma amare e desiderare non è la stessa cosa. L’amore è desiderio fattosi saggio; l’amore non vuole avere, vuole soltanto amare”.

 

 

 

 

 

 

 

ORGOGLIOSO DI ESSERE STATO UN ECCELLENTE SOMARO

La scuola non mi è mai piaciuta. Ero piccolo e già mi sembrava una coercizione sadica. Odiavo i fatiscenti edifici in cui ci incarceravano, i banchi in cui ci incatenavano, il suono del gesso sulla lavagna e che dovessimo apprendere cose che volevano altri. Per questo quando entravo in classe mi piazzavo sempre vicino alla finestra dove per tutta la mattinata fissavo le chiome degli alberi ondeggiare al vento immaginando che da dietro i loro tronchi apparisse un cervo, un orso, anche un umilissimo topino che catturasse la mia fantasia. L’unica eccezione la lezione di religione. Anche se forse il merito era del decolté della professoressa.

Vero, non mancavano anche momenti divertenti come quando l’argomento sfiorava la realtà contingente. L’insegnante cambiava registro vocale neanche fosse spiato dal KGB e assumeva un atteggiamento sacrale trasformando il discorso in un’apologia dell’ordine costituito. Mazzini era un eroe nazionale, non un terrorista. Mussolini un dittatore, non un eletto dal popolo. La Costituzione dava dignità ai cittadini, non legittimava lo Stato. E così via. Per giustificare tanto entusiasmo manieristico e il malcelato desiderio di conservazione mi dicevo che non lo facessero apposta, che davvero fossero persuasi della giustezza del sistema di cui erano garzoni fedeli e partecipassero convinti alla sua conservazione. Salvo poi convenire che sarebbe stato ancora più infido perché se gli abusi possono essere fisici e psicologici, non è scritto da nessuna parte che i primi siano più gravi dei secondi.

Quando mi resi conto che la manipolazione aveva effetto sui miei compagni mentre su di me generava l’assoluta indifferenza, cominciai a dubitare di essere nell’ordine: un anaffettivo, un sociopatico, un pazzo che sarebbe finito in manicomio prima ancora di dare un bacio con la lingua. E così una mattina decisi che avrei cominciato a fingere con falsa leggerezza. Il piano era conformarmi al convenzionalismo imperante finché non sarei stato libero di esprimere la mia opinione. Ero giovane e fiducioso, non potevo immaginare che un adulto può riuscirci solo se vive in una baita a quattromila metri.

C’è un episodio in terza media che probabilmente fece da spartiacque fra ciò che ero e ciò che sono stato poi. Durante un’interrogazione affermai che le nazioni sorgono sullo sterminio delle popolazioni indigene e feci l’esempio degli Stati Uniti. La professoressa sussultò: «Ma è grazie a loro che siamo un paese democratico!». «Secondo me gli indiani stavano meglio prima!» le replicai mentre tornavo al banco. Fu una tragedia. Convocarono i miei genitori, coinvolsero lo psicologo dell’istituto, dovetti fare ammenda e trascorsi i giorni di sospensione togliendo le foglie secche dal giardino della scuola. Non lo dissi a nessuno ma stare nella natura anziché in classe era quello che volevo. E così cominciai a pensare che essere a-normale non fosse poi così terribile.

Fu allora che si rafforzò la convinzione che il dominio è una efferatezza che si conquista con l’arroganza malvagia e si mantiene con l’intimidazione perversa. Ma che può essere raggirato ignorandolo ed eluso sfruttandolo come lui fa con noi. E così se da una parte assecondavo la volontà delle istituzioni per non avere problemi, dall’altra le usavo per togliermi qualche soddisfazione. Come quando dopo un bel voto feci pressione sul professore di tecnica perché parlasse con il suo collega di educazione fisica, nonché allenatore della squadra di calcio della scuola, che mi teneva sempre in panchina a causa della reciproca antipatia. E alla prima partita da titolare segnai due goal. Tiè!

Non ricordo invece come e quando da ostile sia diventato insubordinato. Quando cioè ho maturato una consapevolezza libertaria. Forse il fatto che le uniche autorità che conoscevo erano quella violenta di mio padre, quella manipolatrice dei maestri e quella viscida dei preti, aveva progressivamente esaurito il mio ottimismo. Forse l’esperienza mi aveva insegnato che gli arroganti non sono mai gli ultimi e quando lo sono è perché scimmiottano i primi. Forse anarchici si nasce e in me è germogliato subito il fiore. Non so. So però che sono sempre stato orgoglioso di essere considerato un eccellente somaro.

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Sono passati così tanti anni da allora che ho smesso di contarli. Ma ho sempre avuto ben chiaro che esistono tre tipi di persone: i dominatori, i servi e i liberi.

I dominatori sono coloro che usano l’autorità per esercitare un potere che spesso diventa arbitrio. I servi sono coloro che si adattano alle situazioni e le sfruttano anteponendo l’interesse alla dignità. Sono persone remissive alle circostanze, rispettose delle leggi dietro cui si nascondono, accondiscendenti per profitto. Replicano i soliti gesti, desiderano le medesime banalità, sognano di dare un senso alla propria nullità. Si fanno chiamare resilienti perché coglioni suona male.

I liberi pretendono di essere se stessi. Non conoscono il pregiudizio e ogni esperienza è una scoperta. Considerano la socializzazione oppressiva, le regole servono ma quelle stabilite dagli altri sono prigioni, l’economia mercifica lo scibile affinché i soliti si arricchiscano, la morale è di chi non sa cogliere il giusto, l’autorità… beh, quella va semplicemente annientata! Non hanno bisogno di una guida, si affidano al mondo che li attornia per orientarsi. Si mimetizzano nell’ombra per non essere coartati, si rivelano nel creato, dove l’unico proposito è essere felici.

Non c’è bisogno che dica a quale categoria appartengono gli insegnanti e tutti i manipolatori che a essi si ispirano, artefici della volontà di potenza dei loro dominatori. Perché nella società moderna il Potere non può perdere tempo a educare col manganello. Si affida ai suoi subalterni per modellare i giovani a un futuro raggiante. Il suo.

Chi vuol essere se stesso pertanto, più che le stimmate del ribelle, deve possedere lo spirito del deviato, come i fautori del controllo sociale definiscono colui che ignora i diritti e le norme sociali. E non potrebbe essere diversamente. I primi sono stabiliti dal sistema per giustificare i doveri che le seconde impongono. Il libertario, ovverosia colui che è animato dalla sola volontà di vivere, nega ciò che la ostacola e pretende un ambiente armonico in cui interagire spontaneamente. Un mondo alla rovescia1 letale per chi ha bisogno di quello ordinario per trarre profitto.

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Da studente mi turbava che la mia materia preferita fosse anche la più manipolata. Amavo la storia. Non faticavo a studiarla. Mi divertiva ripeterla. Con facilità mandavo a mente le date, confrontavo le gesta dei condottieri, comparavo corsi e ricorsi con l’entusiasmo di un novello Vico. Mi sembrava una metafora che spiega la vita. Ne coglievo la straordinaria forza etica che dava sostanza alle azioni umane. Come quel gioco in cui unendo i punti sul foglio bianco la penna disegna una forma reale, conoscere il passato mi pareva il modo più appropriato per definire il presente. Ovviamente non avevo la capacità e la possibilità di svincolarmi dalla propaganda storiografica e dovetti attendere l’università per studiarla da autodidatta con la passione del ricercatore che insegue l’antidoto al male oscuro.

Ho cominciato leggendo Tucidite1, probabilmente il primo a considerarla come il prodotto delle azioni umane. Capito poco o niente, ho spostato la mia attenzione ai romani Livio e Tacito2 con l’intenzione di comprenderne la tecniche narrative. Mi sono poi immerso in svariate opere medioevali per cogliere l’influenza dell’annichilimento religioso, dopodiché ho divorato ogni testo mi capitasse fra le mani giungendo alla conclusione che: sino a quando i leoni non avranno i loro storici, i racconti di caccia continueranno a glorificare i cacciatori, come recita un vecchio adagio africano. E forse è a causa di questa sensazione di impotenza che più leggevo, più apprendevo, più mi sembrava di allontanarmi da quell’essenza che stavo cercando.

Finché non ho incontrato nuovamente Hegel.

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Ci eravamo conosciuti la prima volta al liceo quando il buon Abbagnano mi aveva spiegato il suo idealismo. Ero rimasto suggestionato dal concetto di assoluto immanente e condividevo che esso potesse essere colto in un istante non sempre ripetibile. Di contro disapprovavo, non poteva essere altrimenti, che la libertà esistesse perché lo Stato la concede ai cittadini. Uno a uno e palla al centro.

Quando però ci siamo ritrovati, ho compreso la grandezza delle sua opera. La sua visione della storia come successione razionale di accadimenti che rappresenta lo spirito del mondo attraverso quello dei popoli che si succedono nel tempo mi ha entusiasmato. Ovviamente dissentivo che i tedeschi fossero gli unici ad averlo incarnato, che fosse circoscritto alle sole questioni umane e che la filosofia rappresentasse il momento in cui comprendere che l’assoluto è Dio manifestatosi attraverso lo spettacolo delle passioni. Ma l’idea che esistesse un’anima universale che diviene nel tempo passando da un’entità all’altra, spogliata dalla fenomenologia, dal razionalismo dialettico e dal propagandismo, era affine alla mia concezione di unità in divenire creata dalla semiosi delle infinite molteplicità4 di cui ero consapevole grazie alle numerose e variegate esperienze con la natura.

Ebbene sì, anche se per un breve periodo, mi sono sentito egheliano. Un egheliano magari un po’ eterodosso, ma convinto che esistesse un assoluto che l’individuo può conoscere.

La realtà è, infatti, composta da esseri in continuo divenire. Divenire che si perpetua anche dopo la morte, quando diventano altro. Si nasce, si muta, si perisce, si rinasce. E così in eterno. In questo fluire perpetuo della materia, ogni singola volontà si trasforma incessantemente attraverso le infinite relazioni con gli elementi in una partecipazione che è consapevolezza dello spirito del mondo, la cosa in sé, in cui si dissolve con la morte e si rigenera nella vita, ma a cui può accedere con l’esperienza.

Concepita come narrazione della totalità delle connessioni che operano nell’ambiente, la storia diventa così il racconto dell’evoluzione unitaria dei suoi costituenti. Un’evoluzione che non è sviluppo teleologico né ciclico, ma casuale, dato dalle combinazioni improvvise e imprevedibili che uniscono le volontà nell’unità dinamica, viva e pulsante. Una Storia con la S maiuscola, che narra la fusione dell’umano e non umano senza più differenze e prevaricazioni, senza vincoli e senza scopi, se non quello di perpetuarsi nell’armonia eterna. Creature mortali che vivono scambievoli vite, dove certe specie si accrescono, altre a vicenda declinano e come staffette si passano la fiaccola della vita5. Un racconto universale che ignora la sistematica esposizione di fatti, che non è più l’esaltazione del dominatore di turno reso anaffettivo dall’avidità, che invece testimonia la grande terra-foresta6 dove le interazioni paritarie, cooperanti, sinergiche, solidali rendono gli attori artefici del bene comune. La natura.

NOTE

*1 Raoul Vaneigem, Il libro dei piaceri, Ortica Editore, 1979.

Tucidite, La guerra del Pelopponeso, 460 ac.

*2 Ab Urbe Condita, 9 ac per il primo e Historiae e gli Annales, 14 dc per il secondo.

*3 Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, raccolte e pubblicate nel 1837.

*4 L’eterogenesi dei fini è stata formulata da Vico, che la concepisce come possibilità di arrivare a conclusioni opposte rispetto alla finalità previste e ripres da V. Pareto nel Trattato di Sociologia generale del 1916, come non corrispondenza fra le conseguenze oggettive e la relazione mezzi-fini concepita dal soggetto.

*5 Lucrezio, De rerum natura, I sec AC.

*6 Così Davi Kopenawa definisce quello che i “Bianchi” chiamano “mondo intero” in La caduta del cielo, Nottetempo, 2010.

 

 

 

 

IL PATRIDIOTA

Giudicare è una pratica comune a tutti gli esseri. L’uomo giudica il prossimo come la pianta giudica un insetto, o un animale giudica chi invade il suo territorio. E non potrebbe essere altrimenti dato che ogni organismo è dotato di intelletto, attraverso cui coglie l’essenzialità delle cose, e di sensibilità, con cui prima le percepisce, poi le modula al sé. Che il destinatario non apprezzi non può pertanto essere un motivo per impedirlo. Inoltre trincerarsi dietro il non giudicate, per non essere giudicati1, oltre che un approccio liberticida, è un controsenso, dal momento che lo stesso Cristo, a cui i neutralisti si richiamano, non escludeva l’opinione, ma sollecitava a non essere giudice del tuo prossimo2 con occhio malato3, cioè a formularla senza pregiudizi o sentimenti negativi.

Detto questo, preciso che il mio pensiero nei confronti dei patrioti non è influenzato né dagli uni né dagli altri. Ne conosco a centinaia e ho avuto modo di riscontrare che, presi individualmente, fanno quasi tenerezza. Un po’ come i mastini che, tolta la divisa, li ritrovi a scherzare in coda in pasticceria la domenica mattina. Chiaro, quando sento uno di loro esaltare la patria e la nazione, non posso fare a meno di pensare che sia un idiota. Però non è quell’idiota che si proferisce a chi fa l’idiota, più un idiota detto a chi idiota si è ritrovato. Ẻ un idiota di incoraggiamento, diciamo. Con l’augurio che con un po’ d’impegno possa rinsavire.

Forse sono così radicale perché disprezzo i dogmi. Sono affine al dubbio e accolgo la casualità come una possibilità, per cui ho un’istintiva repulsione verso tutto ciò che è verità preconfezionata. E dopo la religione, la patria è sicuramente il massimo esempio di un pacchetto infiocchettato a puntino.

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Quando il principio incontestabile diventa immaginativo si parla di idealismo.

L’idealista è l’assertore di un ideale al quale crede incondizionatamente e per il quale spesso è orgoglioso di essere intransigente. Può avere risvolti pratici, ad esempio il razzista è talmente difensore dell’uguaglianza che non accetta il diverso; oppure spirituali, ad esempio il religioso è così fervente che manderebbe all’inferno chi non lo è. Partendo dal rifiuto della realtà, considerata troppo disordinata e imprevedibile, contrappone ad essa una fantasia ordinatoria e rassicurante. La assolutizza attribuendole i connotati della suprema giustezza e opera per realizzarla. E siccome l’evidenza glielo impedisce, l’ideale diventa un’incurabile ossessione.

Si dice che l’anarchia sia una forma di idealismo. Si dice anche che sia un’utopia, che gli anarchici siano violenti, brutti e cattivi. Si dice tante cose! Quando il Potere vede minacciati i suoi privilegi, replica agli antagonisti con argomentazioni suggestive in maniera che il sempliciotto si senta un sofista aderendo ad esse. Cionondimeno, se con idea si intende una visione pratica dell’essere e con idealista colui che ne persegue il modello, certamente l’anarchico può definirsi tale. A differenza della maggior parte degli idealisti però, come non vuole che altri gli impongano la loro scelta, non impone la propria.

 

Anche i patrioti sono idealisti. Idealizzano la terra in cui sono nati o vivono. Sentono di appartenere ad essa, provano un forte legame affettivo con il territorio, si identificano nei pregi e difetti delle persone, di cui apprezzano la lingua, le tradizioni, la religione, la cultura, la storia e tante altre cose che conoscono per sentito dire, ma che creano quella sorta di anima collettiva attraverso cui credono di realizzarsi come uomini migliori. Ottenuta questa condivisione emozionale e funzionale, occorre però un’organizzazione che la cementifichi: la nazione. E qui cade l’asino.

Finché si tratta di valorizzare il passato, l’ambiente o un intercalare per tollerare la realtà ci può stare. Quando però si inventa un sistema che con le sue istituzioni costringe all’obbedienza chi ne farebbe volentieri a meno, si chiama violenza. Accade infatti che i patrioti erigono confini, si danno istituzioni, plasmano la società, impongono la nazione e le sue regole a chiunque si trovi al suo interno e ne esibiscono ostilmente l’autorità a chi sta fuori. Puniscono chi dei primi non la accetta e non vedono l’ora di sterminare i secondi. E quando le contingenze impediscono di imporsi, non si accontentano di venerare i simboli, sventolare le bandiere, celebrare Costituzioni, ormai teorizzate e non praticate ovunque, bensì reprimono chi rifugge quella svilente pantomima.

Se si esaltassero quando vince la nazionale, si emozionassero con le Frecce Tricolori o glorificassero le banalità del Presidente di turno nella cameretta di casa, sarebbero affari loro. Invece pretendono la condivisione. E se non la ottengono la ingiungono prima con le buone attraverso la propaganda, poi con le cattive attraverso l’emarginazione.

Quando si è convinti di essere nel giusto finisce spesso che diventare ingiusti sia giusto. Cosa fa la differenza? Semplice, l’antiautoritarismo. Posso idealizzare ciò che voglio ma se obbligo gli altri ad accettare o adeguarsi alla mia idea sono un despota. Peraltro patetico perché senza trono. Non è un caso se gli anarchici non pretendono di cambiare la società civile ma vogliono svincolarsi da essa.

Poiché peraltro l’dea di patria si reifica nello Stato e lo Stato è la massima espressione del dominio, niente è più autoritario dell’imperio di un’entità astratta che si impone sugli individui e fa l’interesse dei centri di potere che la promuovono, i suoi partigiani sono fra i più attivi complici della disuguaglianza. Operano come paladini dell’ingiustizia non meno dei suoi artefici e forse per questo ostentano tanta arroganza. Basterebbe studiare la storia per capire che l’integralismo è il concime di gerarchie e soprusi. Ma perché svegliarsi da una catalessi tanto confortevole?

Due sono le spiegazioni. Una razionale, in virtù della quale lo Stato è un mezzo necessario per realizzare l’interesse personale, vedi il borghese che desidera ordine per mantenere e migliorare il proprio stile di vita. Una psicologica. Il patriota medio è quel tipo che non emerge nei processi di potere o non spadroneggia quanto vorrebbe. Per compensare questa frustrazione, quindi accrescere l’autostima, proietta il sé nell’idea di nazione e si identifica nel dominatore assoluto. In realtà vorrebbe soggiogare l’umanità, ma si accontenta dei cittadini del suo paese.

Come il folle delirante deforma la realtà, il fanatico la manipola in funzione del suo ideale. Nella mistificazione che lo pervade non si rende conto però che se si annulla per l’ideale può essere annullato, consentendo al Potere di usarlo per mantenere privilegi e privilegiati. Il suo gridare “siam pronti alla morte, l’Italia chiamò” diventa la colonna su cui erigere quel regno dell’eticità4 che giustifica ogni arbitrio. Sempre per il bene della patria, però!

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Per l’amor di Dio, un paese pur ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via5, dice il poeta. E infatti il libertario prima lo boicotta con della sana disobbedienza civile, poi fugge. Egli sa infatti che il patriottismo è l’embrione del nazionalismo, per cui un falso principio inventato dai despoti per schiacciare il supremo principio di libertà, come sostiene Bakunin.

Non può accettarlo e sente il dovere di osteggiarlo. Denigrate le sue rappresentazioni e violate le sue prescrizioni, si rifugia nella natura dove diventa cittadino del mondo, come Diogene si definiva quando gli chiedevano quale fosse la sua patria. Un cosmopolitismo da intendersi non nell’ottica illuminista, per cui occorre mettere da parte le specifiche differenze sociali e politiche per creare un’unità fra Stati, che è illusoria nonché funzionale al loro tornaconto, quanto nel significato di assenza di confini.

La scelta è radicale e produce effetti sia nelle relazioni sociali, che rispetto all’ambiente. Il presupposto è che nello stato di natura ognuno è padrone dello spazio che trova, dove è libero di realizzarsi come più gli aggrada. Ed è nomade in quanto non vincolato da frontiere reali o immaginarie. Ora è qui, ora è là e ovunque è casa. Non ha bisogno di una patria perché in ogni luogo è se stesso. La terra è la sua comunità.

Non quella predicata dalla società del dominio dove qualcuno comanda e tutti obbediscono, dove i diritti sono negativi e la socializzazione è conformismo. Tantomeno può considerarsi la mera associazione di libertari. Si tratta dell’unione delle infinite molteplicità che animano l’ambiente in cui vive. Dall’albero più maestoso al microrganismo impercettibile, ogni essere che partecipa attivamente o passivamente all’ecosistema è un compagno con il quale condividere la volontarietà, ciascuno agisce in autonomia ed è responsabile delle proprie scelte; la spontaneità, non ci sono costrizioni eteronome ma libera e paritaria manifestazione delle sovranità; l’autogestione, personalità che cooperano armonicamente affinché le cose divengano senza interferenze e per quello che sono; la cooperazione, si opera per realizzare l’appagamento comune necessario al proprio; lo scopo, la reciproca connessione che consente di condividere il tutto. Chi vive la natura è in ogni cosa. E in questa infinita moltiplicazione del sé la volontà si identifica nell’unità indivisa.

Fosse circoscritta in spazi definiti, la spontaneità sarebbe governata, l’armonia delle interazioni non più autentica ma programmata, la percezione dell’identità deformata. Le sue potenzialità verrebbero irrimediabilmente represse portandola al lento ma inevitabile annientamento. Cosa di fatto impossibile in natura visto che l’obbiettivo di ogni organismo è esistere. Possibilissima invece nel mondo civile governato dal tanatofilo umano.

NOTE

*1 Matteo, 7.

*2 Giacomo 4,12.

*3Matteo 6,23.

*4 In questo senso: G Le Bon, Psicologia delle folle, 1895.

*5 Cesare Pavese, La luna e i falò, 1949.

*6 Hegel, Fenomenologia dello spirito, 1807.

 

 

NO ANTIFASCISMO, SÌ ANTIAUTORITARISMO

L’antifascismo è quel movimento ideologico eterogeneo, in quanto riunisce soggetti anche molto diversi fra loro, caratterizzato dalla contrapposizione teorica e pratica al fascismo.

Attivo prima della Seconda guerra mondiale per replicare alla propaganda di regime e reagire all’atmosfera di prepotenza, intolleranza e terrore, dopo l’armistizio dell’8 settembre, giocò un ruolo fondamentale nella liberazione dal nazifascismo. Terminato il conflitto, allo slancio politico il Paese preferì la lavatrice nuova1 ed esso, salvo rare e nostalgiche manifestazioni, venne obliato fino agli Anni di piombo, quando la destra e la massoneria diedero vita a quei simpatici rigurgiti sfociati nel terrorismo di stato. Da quel momento il suo significato è andato oltre la mera negazione del ventennio per contestare qualunque idea e pratica reazionaria.

Moderatamente, però. Perché si stava aprendo l’alba di una nuova epoca che avrebbe portato alla realizzazione del golpe bianco uniformando la massa dal regressivo sonnambulismo alla meccanizzazione sentimentale dei nostri giorni.

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La ragione della contrapposizione al fascismo si spiega col fatto che esso è un aborto storico2. Meno enfaticamente, trattasi di un movimento politico in cui i frustrati di ogni rango si identificano nella banalizzazione del superuomo nietzschiano praticato con lo squadrismo e idealizzato nel nazionalismo. I suoi valori sono sintetizzati dalla formula: Dio, patria e famiglia. Dio come verità assoluta, patria come luogo da difendere, famiglia come centro degli affetti. Aggiungerei anche la violenza, ma in epoca di cancel culture non vorrei offendere la sensibilità dei sempre più numerosi fascistelli sulla piazza.

Lasciando perdere Dio perché concepisco l’ebrezza del rum non quella della fede e la famiglia perché se uno desidera essere ammaestrato dovrebbe fare l’animale del circo, più intrigante è il concetto di nazione. Nazione che rappresenta la sintesi delle individualità nella comunità omogenea, gerarchica e bellicosa3, in cui l’idolatria dello Stato soggioga l’individuo e strumentalizza gli istituti civili nell’ostentazione militarista e imperialista. E per non farsi mancare nulla, tutto viene condito da un pervicace sentimentalismo di appartenenza.

Il fascista è un servo devoto, orgoglioso di partecipare alla grandezza morale e materiale del popolo (italiano)4 di cui si sente fiero rappresentante. E lo fa con tale sincera devozione che ancora aspetta fiducioso quel favoruccio dall’assessore. Per la bandiera soffre, si esalta, inneggia, si arrabbia, aggredisce in un tourbillon di schizofreniche emozioni. E a coloro per cui la nostra patria è il mondo intero, nostra legge è la libertà, ed un pensiero ribelle in cor ci sta,5 è sempre pronto a elargire un po’ di sano, redentore, patriottico squadrismo.

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Tornando all’antifascismo, come detto, nel tempo il suo significato si è evoluto. Per non rimanere ancorato all’anacronistico rifiuto delle pratiche violente, intimidatorie e razziste di cui la dittatura si è resa protagonista, aveva due soluzioni: o prendere le distanze dalla mistificazione stato-centrica oppure consolarsi con l’idea che lo Stato sia un padre un po’ stronzo, ma si può chiudere un occhio perché ha promesso di comprare le figurine. Ovviamente ha scelto questa seconda.

Sintesi dell’antifascista moderno è il rifiuto della tirannia: condivide, infatti, tanto l’opposizione all’imperialismo capitalista, perché non si può essere eguali solo quando si consuma, quanto il disprezzo per gli autoritarismi sia di destra, come le dittature sudamericane, che di sinistra, come quella sovietica. Esalta quindi i valori democratici in opposizione a qualunque idea e pratica autoritaria.

Ma essi, se intesi come rispetto delle esigenze, della dignità e dei diritti altrui, sono legati alla sensibilità personale o collettiva, in quanto tali mutevoli nel tempo e variabili in base al contesto, per cui impossibili da determinare. Ecco perché è più corretto definire democratico chi si ispira o è conforme ai principi fondamentali della democrazia6, ovverosia quel metodo per prendere decisioni collettive con partecipazione personale e scelte definite a maggioranza7. Detto altrimenti, è colui che riconosce quella forma di governo in cui la sovranità è esercitata dai cittadini attraverso una consultazione popolare che può essere diretta, quando si occupano personalmente del potere legislativo, esempio è la polis greca, o indiretta, quando eleggono dei rappresentanti, esempio è il parlamentarismo. Qui però frana l’impalcatura e la società fa un bel capitombolo.

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La prima considerazione è che la partecipazione diretta non esiste più. Se nel medioevo, infatti, quando suonava la campana, gli abitanti del Comune si riunivano per dibattere i problemi della città, dall’Illuminismo in poi si parla solo di rappresentanza. La democrazia oggi infatti è solo indiretta. Ma se rispetto ai regimi precedenti il fatto che gli eletti e i sistemi elettorali siano scelti dai partiti è sicuramente un piccolo passo per l’umanità, in un contesto mercantile è soprattutto un grande passo per le oligarchie.

La seconda considerazione è che oggi esiste solo un modello di democrazia: quella liberale occidentale anglo-statunitense. E non potrebbe essere altrimenti, visto che per proteggerla e diffonderla i suoi artefici annientano qualunque alternativa.

Nella pratica i paradigmi che la caratterizzano sono:

  1. Pluralismo politico: può vincere chiunque ma i moderati vincono sempre. Il massimo per garantire fascismo eterno!8
  2. Suffragio universale: quella regola per cui tutti i cittadini, non solo pochi privilegiati, possono essere manipolati senza distinzione di sesso, età, razza, eccetera.
  3. Maggioranza: se il più forte vince, almeno il più debole ha qualcosa di cui lamentarsi.
  4. Stato di diritto: il rispetto dei diritti e delle libertà viene garantito dallo stato di polizia.
  5. Divisione dei poteri: principio fondamentale per sdoganare la divisione in caste.
  6. Libera manifestazione del pensiero: consiste nel duplice significato di tollerare il pensiero divergente quando si è conformato a quello generale e della libertà della stampa di scegliere chi la finanzia.
  7. Libera iniziativa economica: si realizza il sogno americano per cui chiunque può fare soldi se altri lavorano per lui e consumano i suoi prodotti.

Difendere la democrazia significa pertanto preservare queste distorsioni impedendo la realizzazione di possibilità davvero libertarie, orizzontali, egualitarie, non gerarchizzate né elitarie. Perché anche quando opera nel giusto, come ad esempio… come ad esempio… non mi viene in mente nessun esempio! Comunque, anche supponendo che il governo agisca nell’interesse dei cittadini, la maggioranza che lo ha votato, impone sempre le sue decisioni attraverso un sistema soverchiante, aggressivo e violento che annulla l’individualità. Niente di paragonabile col fascismo primigenio ovviamente, in quanto il tempo ha affinato i metodi, che sono diventati meno precipitosi e arroganti, più accorti, scaltri, perché no, ipocriti quanto basta a far credere ai sempliciotti che agisce nel loro interesse.

Ne consegue che, quando l’antifascismo richiama i principi della democrazia, intesa come quel modello di ispirazione illuminista e attuazione imperialista, ne legittima anche il metodo endemicamente oppressivo e dispotico. Riconoscendo lo Stato, infatti, ratifica l’azione di un governo che, coadiuvato da mastini-cacciatori di trasgressori, decide a nome di tutti nell’interesse di pochi. E mentre questi ultimi continuano a godere dei privilegi, economia e scienza perpetuano disastri umani e ambientali, i politici si spalleggiano per la conquista e la conservazione del potere. Non mi sembra un bel quadretto!

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Diverso dovrebbe essere il discorso per gli anarchici che, invece, non ambiscono a governare e vogliono eliminare lo Stato.

Vero che eludono il potere, rifuggono le istituzioni e disprezzano ogni artificio ingannatore. Anche loro però evocano sempre più frequentemente i valori democratici, sostenendo di fatto un modello politico-istituzionale centralizzato e autoritario antitetico ai propri principi.

La causa di questa dissonanza cognitiva e della profetica fantasia di poterlo cambiare sta nella letargia mentale indotta dal perbenismo a cui anch’essi ormai sono assuefatti. L’effetto, invece, è che non sono più capaci di rottura col sistema. Anche per loro l’antifascismo è diventato niente più che una leva identitaria. Un cliché con cui spacciarsi migliori nonostante la mediocrità conformista e politicamente corretta di cui ormai sono parte integrante. Uno slogan come Calimero, non a caso nero anche lui.

Non si è anarchici perché antifascisti. Gli anarchici sono anche antifascisti perché contro ogni arbitrio. La loro bussola non può essere data dai così detti principi democratici, ma dall’antiautoritarismo, che ne assorbe il significato estensivo e si concretizza nel rifiuto della società del dominio: dal profitto che lo alimenta alle istituzioni che lo conservano, dall’economia che lo diffonde alla scienza che lo sacralizza, dalla religione che lo benedice all’omologazione che lo disciplina.

Identitaria deve essere la volontà di estirpare l’arbitrio, la violenza, il sopruso, la prepotenza, il pregiudizio perpetrati costantemente e impunemente in ogni pratica sociale. Se non si eliminano questi squilibri endemici, se non si sopprime lo Stato che ne è la legittimazione etica, sono solo chiacchiere. Belle, interessanti, talora entusiasmanti, ma solo chiacchiere.

Non serve migliorare le istituzioni, bisogna sostituirle con altre che siano volontarie, acentriche, orizzontali, pluraliste, autogestite, solidali, in un sistema in cui gli individui siano padroni di se stessi e in quanto tali realizzino le proprie potenzialità in una permanente reciprocità. Occorre un’azione radicale di tipo olistico che accerchi il Potere creando comunità indipendenti che ne stritolino competenze e autorità. Questo è l’antiautoritarismo anarchico.

A quel punto, eliminata ogni sua manifestazione, il fascismo si dissolverà inevitabilmente e il Potere sarà costretto a cedere. O quantomeno, a confrontarsi e accettarle per la sua stessa sopravvivenza. Certo, poi bisognerà vedere se esse lo tollereranno. Ma questa è tutta un’altra storia.

NOTE

 

– 1 Oblio che comincia con la Amnistia Togliatti del 1946 con cui il governo De Gasperi, per superare le violenze della guerra e ripristinare la pace politica e sociale, concesse clemenza a tutti coloro che si erano macchiati di reati politici, di collaborazionismo, di concorso.

– 2 Manuel Giannantonio, Anonimous, ll miolibro, 2013.

– 3 Rubo gli aggettivi alla definizione che Gentile usa nel suo libro Fascismo: storia e interpretazione, Laterza, 2002.

– 4 Discorso di Mussolini del 24.3.24.

– 5 Pietro Gori, Stornelli d’esilio, 1895.

– 6 Definizione data dalla Treccani.

– 7 Norberto Bobbio intervistato da Renato Parascandolo della Rai il 28.2.85.

– 8 Umberto Eco, Il Fascismo eterno, La Nave di Teseo, 2020.

 

 

 

 

 

 

LAVORO? NO, GRAZIE

C’è un momento della vita in cui si diventa adulti. Non è il primo pelo sotto le ascelle o il primo bacetto con la lingua, né la prima volta che si schianta l’auto del papi col foglio rosa. Ẻ quando cessano gli obblighi scolastici e si entra nel mondo del lavoro. Ẻ lì che colui che fino al giorno prima era un ragazzo, improvvisamente diventa uomo e finalmente può essere sfruttato dal sistema.

Il lavoro è la ripetizione di una determinata prestazione manuale o intellettuale per un tempo indefinito. Ogni giorno il netturbino svuota la campana di vetro alle cinque di mattina. Il medico prescrive ricette ai pazienti per sedare le loro nevrosi. L’avvocato smista caffè per difendere il cliente, il magistrato li beve, ma quello del pubblico ministero è sempre più buono. L’impiegato perfeziona le tecniche di origami. L’operaio osserva il passaggio della trama ricordando malinconicamente le dita perse. E così via. Se alla routine narcotizzante aggiungiamo che è una costrizione in quanto la società del dominio non offre alternative per sopravvivere e che è sempre disciplinato da altri, siano essi il padrone, il capo o i clienti, davvero pochi sono i fortunati che vanno a lavorare senza sperare che l’autobus non sfondi il guard rail.

Certo, una soluzione ci sarebbe, pure abbastanza anticonformista: darsi al crimine. Ma oggi con tutta questa tecnologia è un casino anche delinquere!

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Di fatto lavorare è una pratica immorale e innaturale. Immorale perché implica essere sfruttati e sfruttare, perché la vita non può consistere nell’arricchire altri o nella rincorsa delirante alla materialità, perché in epoca di industrializzazione provoca direttamente o indirettamente danni ambientali. Senza considerare che il lavoro, qualunque esso sia e comunque venga svolto, sottrae tempo ed energie che altrimenti potrebbero essere destinati allo svolgimento di attività piacevoli, agli affetti, alla contemplazione della natura, al gioco e all’amore. E così tutti i giorni, tutti gli anni finché si è troppo vecchi per godere l’esistenza. Ma se non si ha rispetto per se stessi, come si può averlo degli altri?

Ẻ invece innaturale perché nonostante l’umano faccia lo sborone, è uno dei tanti organismi del creato, il cui obbiettivo è la vita, non alla superfluità che la nega. I non umani predano per nutrirsi, lottano per la sopravvivenza, cooperano per difendersi ed evolvere, dopo di che si esaltano nell’armonia che li circonda. Al contrario l’uomo, benché si narri di un tempo in cui giocare con i fratelli animali e interagire con le amiche piante lo esaltasse, crea finzioni malefiche perché incapace di cogliere la bellezza circostante. Difficile provare se tale deficienza logico-emotiva sia dovuta a un difetto congenito o se durante l’evoluzione abbia subito un trauma. Di certo le sue aspirazioni e le sue condotte non hanno niente a che vedere con la bellezza del mondo.

Sarà mica che l’estinzione del Cretaceo, anziché da un asteroide, è stata provocata dallo schianto di un’astronave occupata da questa specie inferiore?

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Se lavorare è immorale e innaturale, allora perché si lavora?

Come sempre quando mi pongo queste domande, anziché cercare nei libri, interrogo le persone. Diversamente da Socrate, però, attraverso il dialogo non aiuto il mio interlocutore a partorire la verità1 in maniera spontanea. Mi limito ad ascoltare. Spesso trattenendo la risata.

Finito l’esperimento, le risposte più gettonate sono state le seguenti:

A-Medaglia di legno a: “il lavoro permette di realizzare le proprie potenzialità”.

Ovverosia, siccome l’uomo possiede capacità che altrimenti non saprebbe utilizzare, le riversa nella sola attività che, volente o nolente, è costretto a compiere. Alienati.

B-Al terzo posto si piazza: “gli uomini hanno bisogno di uno scopo”.

Si tratta di individui privi di interessi e consapevolezza di sé, che per pigrizia, timore, indolenza, si rifugiano nell’obbedienza. Sono come gli agorafobici che si nascondono nella gabbia domestica. Patologici.

C-Sul secondo gradino del podio si piazza: “si lavora per il bene della società”.

I sostenitori di questa teoria asseriscono che se nessuno lavorasse, sarebbe il caos perché scemerebbe la coesione, la condivisione dell’interesse pubblico e la partecipazione alla stessa organizzazione sociale. Non ci sarebbe sviluppo e progresso e, ecco l’inevitabile chiusura apocalittica: «Sarebbe l’anarchia!». «Tipo quella dei vostri neuroni?» avrei voluto replicare.

Il lavoro è pertanto un dovere. E come tutti i doveri, va adempiuto. Chissà perché però essi vengono sempre stabiliti da chi pretende che altri li assolvano!

Quando l’umanità estinguerà il debito morale con l’autorità e ciascuno potrà decidere per se stesso, l’interazione non sarà coercitiva ma partecipativa. E il lavoro un malinconico ricordo di chi dovrà trovare un nuovo modo per sfruttare il prossimo. Integralisti.

D-The winner is: “si lavora per soldi”.

Il lavoro è un mezzo, il denaro un fine. Fine che serve per realizzare il benessere personale. Ma il benessere è il soddisfacimento dei bisogni, che possono essere primari o secondari. E quando ho domandato a quali si riferissero, le risposte sono state nell’ordine: spese domestiche, tecnologia, mezzi di trasporto, viaggi e via discorrendo. «E il mangiare?» Ho chiesto. «Quello ce lo consegna a casa il pachistano!» hanno risposto. Pragmatici.

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Dall’esperimento risulta pertanto che il lavoro viene percepito sia come uno strumento di sviluppo personale, poiché accresce l’autostima intorpidita dai vincoli collettivi o svilita dall’inettitudine, sia sociale, in quanto non conviene rimanere ai margini dei processi di potere.

Nessuno degli intervistati invece ha fatto riferimento alle necessità essenziali. Eppure fra loro erano presenti soggetti non abbienti. Perché?

Ci sono tre tipi di povertà: quella imprevista e provocata da fenomeni naturali, come la siccità dei territori desertici, o casuale, tipo la carestia che segue una calamità; quella indotta dal colonizzatore che sfrutta manodopera e risorse del suolo occupato, vedi il terzo mondo; quella dei paesi colonizzanti, che si manifesta quando non vengono soddisfatti gli standard definiti da chi mantiene e accresce i propri privilegi. In quest’ultimo contesto, il nostro, i bisogni primari e quelli secondari diventano un tutt’uno per cui il pasto non può essere frugale ma luculliano, la scarpa non è sufficiente calzi bene ma deve essere firmata, la vacanza non è il salutare ozio ma fare zumba in un resort sperduto chissà dove. E così via. Chi si uniforma ai modelli imposti dal mercato è in, chi no è out perché non contribuisce al suo sviluppo. E siccome nella società civile l’approvazione è ragione di sopravvivenza, adeguarsi alle sue regole è più importante dello stomaco che brontola.

Oltre tutto, qualcuno che scala i processi di potere ogni tanto c’è. Non ne conosco uno, ma se si vedono in televisione…!

Se il capitalismo ha un merito è quello di aver perfezionato tecniche di ingegneria sociale che hanno aggraziato il giogo. Un tempo il lavoratore era costretto a obbedire pena la frusta. In democrazia invece ciascuno può scegliere se essere deriso, disprezzato, isolato finché qualche teppistello gli dà fuoco, oppure socializzarsi producendo e consumando nell’interesse della collettività. Chi partecipa è un bravo cittadino, chi non lavora è un debosciato, un fancazzista, un nullafacente, un accidioso, un sociopatico che non è degno di beneficiare dello straordinario privilegio offertogli dalla civiltà di essere servo di se stesso. E poiché a nessuno piace sentirsi un reietto, visto peraltro che la schiavitù dei bisogni almeno dà un senso alla vita, il lavoro diventa cardine su cui si fonda la società del dominio e strumento di controllo sociale.

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Il progresso è irreversibile. E poiché non c’è progresso se la massa non lavora, lo è anche la subordinazione.

Coloro che provano a cambiarlo al suo interno o vengono assorbiti diventando complici a loro volta, tipo i vari movimenti antagonisti che la politica ha annichilito, o producono effetti più dannosi della causa, vedi le politiche ambientaliste che ipocritamente fanno gli interessi del capitale. Stesso risultato ottengono i ribelli che scioperano, boicottano, sabotano, manifestano per modificare o addirittura sostituire il regime con un altro. Perché anche quando vengono concessi maggiori diritti, in un sistema servile si è sempre servi di qualcuno. La disuguaglianza è infatti endemica alla società del dominio in quanto esso ha bisogno che l’individuo sia egoista, indifferente, competitivo, prevaricatore.

L’unica possibilità di affrancamento è non farne parte. Negare i suoi principi, le dinamiche, le manifestazioni e fuggire dalle sue grinfie. Molti rimangono nella rete. Ogni tanto però qualcuno riesce a liberarsi e costruire realtà volontarie, senza profitto, biosimbiotiche e autarchiche.

Volontarietà significa che ciascuno è libero di scegliere cosa fare, con chi stare, come determinarsi. Non è assenza di ordine, ma possibilità di definirlo personalmente.

Assenza di profitto vuol dire invece sovvertire l’ideale civilizzante per cui ogni condotta sia funzionale a interessi artificiali, il primo dei quali è il denaro. Finché scopo dell’azione è l’utile, la volontà è contaminata. Quando invece si concede genuinamente all’armonia è libera di realizzare la biosimbiosi attraverso cui si perfeziona nella cosa in sé.

Infine l’autarchia, ovverosia l’autosufficienza data dall’unione con l’ecosistema, fondamentale affinché non si crei un’autogestione di tipo mercantile. Nello stato di natura ciò che la terra produce è sufficiente al soddisfacimento dei bisogni materiali e spirituali. L’uomo accetta i suoi doni, usa senza modificare e poi divide le rimanenze. E così raccoglie, caccia, pesca, edifica, si difende e lavora non perché qualcuno gliel’ha imposto ma perché determina e condivide le regole e gli obiettivi della comunità a cui appartiene. Che non è solo il gruppo di persone con cui spartisce il territorio, ma l’intera biocenosi.

In questa meravigliosa epifania non si è condannati a far salire il macigno sul monte per vederlo cadere a pochi passi dalla cima, così da godere della fatica di ricominciare2, giacché il lavoro è solo un passatempo qualsiasi. In fondo, hai mai visto uno scimpanzé che timbra il cartellino? Un faggio che consegna le pizze o un acero che costruisce grattacieli? Pensi davvero che le formiche seguano le scie dei feromoni lasciate dalle compagne perché sono laboriose come vogliono farci credere? Ma dai! Non vedono l’ora di uscire dal nido e godersi l’aria fresca, te lo dico io!

NOTE

*1 Platone, Teeteto.

*2 Albert Camus, Il mito di Sisifo, Bompiani, 1942.

 

 

 

 

 

 

FERMIAMO LA SCIENZA

La scienza, intesa sia in senso stretto come ricerca rigorosa e sperimentale, sia estensivo come sofisticazione atta ad assicurare maggior comodità, non è altro che l’ennesimo espediente con cui l’uomo nasconde la propria precarietà. Teme la realtà e allora prova a dominarla giustificando con confortevoli menzogne la devastazione che lascia alle spalle. Il bello di quest’epoca fluida è che le falsità sono disseminate ovunque e hanno la tracotanza della metafisica, dello statocentrismo, dell’ideologia, la seduzione dell’industrializzazione, del mercato, del consumismo, della tecnocrazia e l’assolutismo dell’immarcescibile scienza, intorno a cui tutte ormai ruotano.

Una volta gli scienziati erano considerati un manipolo di folli. Molti venivano perseguitati, altri esiliati in virtù del principio che la natura era divina e gli uomini i suoi custodi. Finché qualcuno ha intuito che la conoscenza è dominio e, se applicata all’economia, accresce il profitto a dismisura. A quel punto si è avvalso di questi visionari per creare la macchina a vapore, il telaio meccanico, la locomotiva e altre immaginifiche innovazioni. Per concretizzare tanta genialità ha migliorato il tenore di vita della massa e l’ha manipolata a puntino in maniera che nessuno potesse fare a meno delle nuove sofisticazioni.

La svolta non è stata facile, né immediata. Perché le persone comprassero e comprassero e comprassero ancora, infatti, quei beni dovevano diventare necessari. Serviva un genio del marketing e Berlusconi non era ancora nato. Alla fine però il tormentone che avrebbe inebetito la ragione venne partorito: “Il progresso è la chiave del successo. Prendilo adesso!” O forse era: “Altro che Dio, col progresso è tutto tuo!” C’è pure chi dice fosse: “Senza progresso la tua vita sarà un cesso!” Anche se dubito la volgarità fosse consentita quando non c’era la televisione.

A quel punto, passare dall’aratro all’agricoltura intensiva, dalle candele alla domotica, dallo sfruttamento all’obbedienza volontaria, dall’artigianato all’industrializzazione globalizzata, dall’uso della natura alla sua devastazione, è stato un attimo. E il merito, impossibile non riconoscerlo, è solo della scienza, diventata il mezzo attraverso cui l’umano avrebbe potuto appropriarsi di qualunque cosa grazie a un’equazione.

E così, se un tempo c’era Dio e c’era la scienza, oggi c’è la scienza che fa Dio, al cospetto della quale tutti devono prostrarsi, pena la derisione sociale. Almeno in questo i suoi paladini sono più moderati del religiosi, che fino all’altro giorno mandavano al rogo chiunque osasse contraddirli.

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Affinché la sua autorità diventasse assoluta non era però sufficiente che fornisse le soluzioni ai bisogni più effimeri. Bisognava attribuirle un’aurea di solennità che la rendesse credibile ai più sempliciotti e incontestabile ai detrattori. Detto fatto: è bastato attribuire sacralità al suo metodo per emarginare chi ne dubitasse o lo contestasse.

La procedura è semplice. Si parte da un’idea, ad esempio che un determinato fattore possa influire su un certo processo, oppure dall’osservazione di un fenomeno. Si pongono domande e si giunge a un’ipotesi. A quel punto si realizzano gli esperimenti, al termine dei quali lo scienziato possiede dei dati. Se essi la confermano, si formula la legge. Altrimenti si elabora un’atra ipotesi e si prosegue con l’osservazione e la sperimentazione. Questo è il metodo su cui la scienza fonda la propria credibilità inconfutabile.

Che poi è il solito che usava mia nonna quando improvvisava gli ingredienti per fare i dolci. Solo raccontato in maniera più chic.

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«Splendido!» Grida il sempliciotto.

«Magari!» replica il diffidente.

Perché alla fine della sperimentazione la decisione finale non viene rivelata in sogno dagli spiriti Xapiri1, ma è la manifestazione del giudizio umano. Come tale tale fallibile. Fallibile nella conclusione, poiché un errore procedurale o la cognizione errata dei risultati dell’esperimento può portare ad una legge sbagliata. Fallibile negli effetti che possono essere taciuti o, nei rari casi di buona fede, ignoti al momento in cui viene formulata.

Gli scienziati conoscono tali anomalie, però le negano o, quando sono illuminati, le sminuiscono per mantenere il loro prestigio. Le élite e i vari ossequianti sono distratti dal profitto. Mentre il sempliciotto confida che le conseguenze compromettano qualcun’altro. Poi c’è il diffidente che studia, si documenta, si informa, ogni tanto reagisce e tutti lo prendono per un sociopatico. Perché ognuno deve occuparsi di ciò che sa e parlare di ciò che conosce. E poiché solo gli specialisti possono esprimersi su ciò che è speciale, la scienza è degli scienziati.

Difficile replicare se il mondo fosse un circolo di scacchi!

E comunque, se ognuno dovesse parlare di ciò che realmente conosce, cesserebbero le relazioni personali. La verità è che sostenere l’onnipotenza della scienza significa ignorare, voler ignorare, che le sue decisioni riguardano la vita di tutti.

Pretendere che gli individui omologhino le proprie condotte ad una volontà eteronoma è sempre una violenza. Quando si sfrutta l’ignoranza per soggiogare, è un abominio. Se poi ne scaturisce un profitto, è una truffa. Come tutte le volte in cui subdolamente si subordina la volontà personale a una dittatura morale per riprodurre la solita autocrazia in cui l’individuo è un mezzo per un fine.

Con l’aggravante che la scienza non si accontenta di soggiogare: deve distruggere per realizzare il progresso che stringe le catene.

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Detto che l’infallibilità scientifica è solo uno slogan, grottesco è ammantarla di oggettività.

Ẻ imparziale quando studia una pianta o la relazione fra specie, un po’ meno quando c’è da lucrare devastando l’ambiente, sviluppando armamenti o realizzando prodotti di ingegneria sociale. La storia ha infatti dimostrato che essa è uno strumento di dominio pervicace quanto la religione, che ha sostituito, sia perché fornisce mezzi e procedure attraverso i quali chi domina eserciti violenza, sia perché uniforma i bisogni della collettività.

Di fatto è sempre stata al servizio del Potere, che ne ha disposto per il proprio tornaconto. Almeno fino alla seconda metà del XX secolo, allorché ne perso il controllo. Da quando la tecnica ha sovrastato la conoscenza proliferando a dismisura le sofisticazioni, si è creata infatti una frattura fra il mondo reale e quello scientifico che ha ribaltato gli equilibri. I governi, che del dominio sono sempre stati il braccio operativo, improvvisamente hanno perso la propria autonomia a causa dell’incapacità di adeguarsi alle innovazioni in corso. E così per non dissolversi hanno delegato agli specialisti le decisioni primarie.

Il risultato è un vero e proprio autoritarismo scientifico, oggi tecno-scientifico, dove la politica gestisce il bene comune adattandosi all’oscillazione dei suoi umori e obbedendo insindacabilmente alle sue prescrizioni. Ormai il sapere non è più al servizio dell’umanità, ma l’umanità al suo. Unito al denaro, chiunque può disporre del mondo senza più inibizioni morali o ostacoli pratici.

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Usare il creato per soddisfare bisogni biologici è nelle cose. Realizzare invece inutili artifici altera l’equilibrio universale provocando danni irreparabili. Questo fa il progresso che concepisce eccitanti suggestioni spacciandole per necessarie. Alla scienza il compito di individuare la perversione migliore e sviluppare la dipendenza per aprire i mercati senza i quali l’economia stagnerebbe, regredirebbe, poi cesserebbe. E addio denaro.

Pensa all’agronomia, quel complesso di tecniche e tecnologie che dovrebbero rendere più efficienti ed efficaci le coltivazioni. Efficienti ed efficaci per chi? Le piante crescono, fioriscono e fruttificano spontaneamente da prima che esistesse l’uomo e lo faranno anche dopo. La natura non ha bisogno di interferenze per manifestarsi. Eppure ora si tempesta di agenti chimici, ora si produce artificialmente, ora si altera gli ecosistemi, ora si manipola la crescita per aumentarne la produttività con l’unico obbiettivo di globalizzare il consumo, quindi garantire, garantirsi, un maggior profitto in barba alle sue regole eterne.

Oppure pensa alla sfacciataggine con cui rinnega se stessa per trovare nuove frontiere commerciali. Vedi la transazione ecologica che, smentendo impudicamente quanto propinato in precedenza come assoluto, risolve l’inquinamento ambientale con rimedi più dannosi della causa per consentire all’industria di continuare ad arricchirsi. L’ecosostenibilità è una pagliacciata! L’unica cura contro lo distruzione della terra è smettere di essere complici del malaffare.

NOTE

*1 Gli spiriti richiamati dagli sciamani Yanomami. Da Davi Kopenawa e Bruce Albert, La caduta del cielo, Nottetempo, 2010.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

VIOLENTO SARAI TU!

Siamo materia e materia torneremo, una volta qualcuno ha detto. Ma siamo anche coscienza in quanto dentro di noi scorre un soffio vitale che ci rende consapevoli della presenza nel mondo. Una consapevolezza che, in barba all’antropocentrismo utilitaristico, appartiene sia agli umani che ai non umani, agli esseri animati e ai non animati, come sanno coloro che posseggono la capacità di connettersi con la natura. E come la scienza smentisce per continuare a depredarla impunemente.

Materia e soffio vitale si plasmano nei corpi dando vita al sé. Sé cosciente. Sé agente. Infinite seità identiche nella reciproca sostanza, che si armonizzano affinché essa si fonda nel tutto. Un equilibrio delle molteplicità che non significa pace e amore, benché quando il leone sente l’odore della gazzella la ama così tanto che la mangerebbe, bensì che la vita è un incessante simbiosi in cui ogni entità dipende dalle altre e, a sua volta, agisce su di loro realizzando insieme il divenire universale. Ecco perché la cooperazione, non il dominio, consente la sopravvivenza e l’evoluzione.

Così è per tutti gli esseri viventi e così sarebbe per l’uomo se si donasse alla natura.

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Ma per donarsi alla natura bisogna superare l’inquietudine della finitudine abbandonandosi alla casualità del divenire. Invece, l’uomo desidera la luna come l’imperatore Caligola1 e ora si inventa la morale per sfruttare il senso di colpa, ora crea il governo per sottomettere i sudditi, ora escogita un rango per asservire l’inferiore, ora assoggetta l’ambiente. Sempre domina per sedurre l’eternità. In fondo aveva ragione Demostene in quella che è forse la sua citazione più famosa: nulla è più facile che illudersi, perché ciò che ogni uomo desidera, crede anche che sia vero.

Se però nelle relazioni con il prossimo l’arroganza può essere sufficiente per obliare la precarietà, con la natura non funziona. Pur addomesticandola, avvelenandola, distruggendola, essa dimostra sempre la propria superiorità, consolidando l’inferiorità antropica. E non intendo soltanto le impressionanti manifestazioni di forza di cui continuamente dà sfoggio, che l’uomo definisce calamità perché lo umiliano. Basta infatti osservare l’erbetta che cresce fra le crepe dell’asfalto per comprendere quanto la sua potenza vitale sia manifestazione incontrovertibile di supremazia. E di fronte a tanta maestosità il superbo soffre e si vendica.

Come Lucifero, carico di risentimento e rabbia perché cacciato dal regno dei cieli a causa della sua protervia promette dolore e sofferenza, l’umano distrugge, brutalizza, minaccia con inesorabile fervore quel regno naturare da cui ormai è escluso. A nulla vale la lacrima che nascondono dietro il braccio per ciò che poteva essere e forse non sarà mai2.

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Ovviamente non tutte le persone hanno il coraggio dell’insolente rivalsa, La maggior parte si limita a non capacitarsi del motivo per cui se il lupo mangia l’agnello o l’edera parassita asfissia gli alberi, il più evoluto del pianeta non possa distruggerlo.

Sia chiaro, la violenza è un fenomeno naturale, l’uomo è solo il più malvagio a realizzarla. Quella praticata dai non umani infatti non soddisfa alcuna bizzarria poiché è funzionale alla sopravvivenza. Il predatore vuole sostentarsi e i maschi si scontrano per copulare o per il territorio. Quando gli animali non hanno fame, non cacciano. Se non devono accoppiarsi non si azzuffano. Solo se intimoriti aggrediscono. Stessa cosa vale nel mondo vegetale: il punteruolo rosso, ad esempio, non attacca le palme perché lo infastidisce il ciuffo di foglie che orna la cima della pianta, ma perché è un parassita che di essa si nutre.

Che si tratti di cibarsi, riprodursi o semplicemente reagire a un pericolo, in natura la violenza perpetua la volontà. Al contrario, l’uomo la perpetra per soddisfare i capricci. In fondo rispetto ai mammiferi, ai primati, agli uccelli, agli anfibi eccetera è un bambinone che ha solo quattro milioni di anni!

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La differenza fra il non umano e l’umano non è quindi l’intelligenza, ma la violenza. Questi è infatti l’unico essere che la pratica anche se non è necessaria.

Quando l’uomo freccia un cinghiale per fame, il suo atto è dominante, ma consente la conservazione propria o del gruppo di appartenenza. Così come se uccide il felino che sta per attaccarlo. In entrambi i casi essa è tollerata dalla natura. La vita dell’uno vale l’altra e vinca il migliore. Quando invece si barda come un marine per esporre un trofeo sulla parete oppure ricorre agli allevamenti di massa o all’agricoltura intensiva per soddisfare il mercato, quando tortura gli animali per i sadici esperimenti scientifici oppure devasta e inquina l’ambiente, nega l’alterità e danneggia l’armonia universale.

In natura infatti ogni organismo è volontà agente e le infinite volontà si connettono continuamente per condividere il divenire. Nel momento in cui questa dinamica viene pregiudicata o interrotta seguono alterazioni che inibiscono o negano la possibilità del singolo di realizzarsi in esso. Cionondimeno l’uomo devasta, distrugge, stermina senza pietà. E lo fa in nome del profitto, la più efficace trappola mentale che definisce la moralità delle condotte in base ai benefici che ne derivano.

Pensa a qualunque nefandezza compiuta e vedrai che quello è sempre la causa. Profitto che genera accumulazione. Accumulazione che produce autorità. Autorità che diventa potere e ineluttabilmente delirio di onnipotenza che si manifesta in arbitrio. L’industrializzazione, la scienza, la tecnologia, la civilizzazione altro non sono che strategie di potere, in cui un manipolo di delinquenti genera privilegi a discapito della vita.

Quando gli animali e le piante accumulano è per necessità, non per il piacere di essere più autorevoli. Il loro benessere deriva dal godimento di ciò che la natura offre. L’uomo no, non si accontenta. Come Odisseo ha bisogno di esplorare nuovi mondi. Non importa se la sua ciurma viene divorata da Polifemo, trasformata in maiali dalla maga Circe o impazzisce al canto delle sirene. Il lieto fine è il ritorno a Itaca, la materialità che sana l’irrequietezza che lo perseguita.

Di fatto l’umano è vittima di un autoinganno dove tutti sono manipolati e manipolatori. Una massa di pericolosi psicopatici! Ma la cura esiste ed è la vita selvatica, attraverso cui realizzare se stessi nell’armonia universale. Tornare a quell’Eden che i malvagi rinnegano, dove l’identità delle sostanza è eterna felicità.

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La civiltà è come un banchetto dove chi prima arriva spera di prendere il cosciotto più grosso, ma tutti seguono le regole del padrone di casa che ha già il piatto pieno.

Nascosto dietro le tende, protetto dall’ombra, c’è l’anarchico. Non gozzoviglia al tavolo dei signori. Disprezza la loro falsa magnanimità. Sa che la loro opulenza è immorale e compiacerli significa essere correi delle loro nefandezze. Non ha bisogno di ingozzarsi, stordirsi, sorridere, ammiccare, sottomettersi per illudersi di essere felice. Semplicemente lo è perché possiede già tutto. Per questo se ne sta lì, in attesa del momento giusto per rovesciare i vassoi.

Certo, poi deve scappare per evitare la ritorsione e non sarà libero finché non costruirà la propria realtà indipendente. Ma potrà sempre trovare rifugio nelle comunità clandestine che disertano l’imperio dell’oppressore consumandolo lentamente e collaborare con le altre per disgregarlo definitivamente. Oppure potrà fuggire e creare realtà affrancate dalle perversioni del profitto, aliene agli echi della socializzazione conformista, nascoste dalla morsa delle molteplici articolazioni del dominio, dove la spontaneità è scelta incondizionata, la fratellanza è benessere condiviso, la pluralità è esaltazione dell’individualità, la cooperazione è complicità creativa e la partecipazione alla natura è una festa.

E non avrà bisogno di violenza, a meno che non assuma le forme della rivolta contro un atto ingiusto, cioè contro natura, perché l’armonia sarà il suo nutrimento e la pluralità il riflesso della propria essenza. Tantomeno porterà rancore verso chi rifiuta tale bellezza. Avrà compassione del servo e un affettuoso disprezzo del suo soverchiatore, ormai ricordi di una brutta esperienza. Nelle narrazioni intorno al fuoco l’uno è il poveretto che si illude di realizzare le proprie potenzialità dimostrando di essere lo schiavo migliore, l’altro la metafora del frutto marcio che prima o poi cade diventando cibo per vermi.

Che la violenza rimanga ai civilizzati. E si scannino fra loro!

NOTE

*1 Albert Camus, Caligola, opera teatrale del 1939.

*2 Alexandre Cabanel, L’angelo caduto, 1868.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’ESPERIENZA INCREDIBILE DI CHI E’ CREDIBILE

Spesso mi chiedo se esiste una relazione fra arte e anarchia.

Non tanto come l’essere ribelli possa favorire la produzione artistica. Questo mi sembra scontato, come dimostrano gli infiniti casi di coloro che, perso l’animus sovvertitore perché arricchitisi o assuefatti al sistema, dimenticanono la vena creativa. Quanto al fruitore che si immerge nell’opera vivendo un’esperienza estatica assimilabile a quella provata dal libertario nel momento in cui si identifica con gli esseri che lo circondano e si fonde con la realtà per partecipare all’unità indivisibile.

La risposta è sempre positiva perché entrambe sono esperienze identitarie che consentono di percepire e, per alcuni fortunati, vivere la cosa in sé. Il più grande prodigio che l’individuo possa conoscere e a cui possa partecipare. L’unico che merita di essere raccontato.

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Si dice: penso quindi sono. Una volta credevo fosse una delle tante perle di saggezza di mia nonna, poi al liceo ho scoperto che Cartesio l’aveva affermato quattro secoli prima. Ho impiegato anni per riprendermi dalla delusione.

Il pensiero è quell’attività psichica mediante la quale l’essere prende coscienza di sé e del mondo. Alla fase cogitante segue il giudizio, attraverso cui si manifesta. Tanti giudizi quante sono le soggettività. Ma se nell’unità la contraddizione diventa identità, nell’interazione si differenziano in base alle storie che raccontano.

Prendi la reazione dell’osservatore di fronte a un’opera d’arte. Che so, il Campo di grano con corvi di Van Gogh. Taluno può soffermare l’attenzione sul contrasto cromatico fra il giallo vitale e il cobalto tenebroso. Altri sullo stormo di corvi che si leva cupo o sul cielo agitato o sui sentieri serpeggianti. Qualcuno può cogliere il ritmo vorticoso delle pennellate con le quali il pittore proietta la sua sofferenza sulla realtà circostante. Qualcun altro può spingersi oltre condizionato dalla suggestione dell’orecchio mutilato. Insomma, ad ogni punto di osservazione corrisponde un’interpretazione della volontà cristallizzata nell’opera. Ma se esistono infinite volontà che esprimono altrettanti giudizi, è possibile stabilire se uno è migliore degli altri?

Mi spiace deluderti, ma la risposta è sì. E per non perdere tempo, dico subito che dipende dalla credibilità di chi lo manifesta.

Credibile è ciò che ha la capacità di ottenere credito, cioè ispirare fiducia, come recita il dizionario. Nella società un’affermazione è tale quando chi la esprime possiede autorità riconosciuta da tutti. Può essere acquisita per merito, ad esempio il botanico capisce di piante più dell’uomo comune. Può essere del leader che impone le sue regole ai sottomessi. Può essere dell’autocrate, come il prete, il governo, le istituzioni o chiunque detenga il dominio in virtù dell’aurea sacrale che si è auto-conferito. In ogni caso essa è la prerogativa di una élite a cui corrisponde l’accondiscendenza della massa.

Considera l’affermazione anarchica “il governo è sempre tiranno”. Pur essendo una frase vera, viene pronunciata da soggetti che la manipolazione mediatica definisce non credibili. Con la conseguenza che anch’essa non lo è. Al contrario, se un giudizio falso come “gli anarchici vogliono il caos” o “gli anarchici sono dei criminali” viene reso da un’autorità apparentemente credibile, come per magia diventa apodittico. Il Potere conosce questo meccanismo e così fa quello che gli pare.

Scendendo più in basso, invece, la credibilità dipende dal carisma determinato dal rango, dalla professione svolta, dalle attitudini personali, dalla conoscenza, dalla sensibilità e da altri attributi. Sono però filtri soggettivi che sottolineano l’autorità del dichiarante senza tuttavia rilevare alcunché sulla effettiva conoscenza della realtà esaminata e giudicata. Quindi sulla veridicità della sua affermazione.

Ne consegue che giudicare il giudicante per il suo retaggio è come scommettere l’intera posta su Golia solo perché è grosso. E poiché la credibilità di un giudizio non può dipendere dalle ragioni per cui chi lo manifesta sembri o meno degno di fiducia, occorre scavare oltre la superficialità. Ma per farlo, bisogna cambiare la prospettiva: non soffermarsi sugli attributi del referente, bensì concentrarsi sull’esperienza che ha vissuto. Ovverosia valutare quanto sia stato in grado di affrancarsi da ciò che è per immergersi nella realtà che deve essere giudicata per quello che è.

L’uomo è pertanto credibile quando la sua esperienza è onesta. Quando cioè le competenze, i condizionamenti sociali, gli interessi e gli orientamenti personali e tutto ciò che preconfeziona la coscienza e contamina il sé lasciano il posto alla spontaneità. Soltanto una volontà libera può accedere alla verità creando relazioni affettive, simpatetiche, empatiche che consentono di trasformare la condivisione in unità della sostanza.

Come capire questa sincerità? Facile: la verità è sempre nei silenzi.

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Torno al rapporto con l’arte perché spiega il concetto meglio di altri esempi.

L’opera artistica rappresenta la visione della realtà secondo il suo autore. Ma è anche il luogo in cui si incontra con quella del fruitore.

Il posto è misterioso, in alcuni casi impenetrabile come una selva. Difficile orientarsi e le conoscenze apprese spesso rischiano di far di girare intorno più e più volte. O ci si abbandona allo sconforto e si comincia a tirare calci agli alberi col rischio che una pina cada in testa, oppure ci si lascia guidare dalla natura. Allo stesso modo, di fronte alla creazione dell’artista, bisogna abdicare le presunzioni, i pregiudizi, le conoscenze e donarsi ad essa. Solo facendone parte si può comprenderla.

L’attore deve essere libero di abitare l’opera. Vivere la dimensione altra per trasformarsi in volontà nuova. Ma perché si realizzi questa dissoluzione e ricomposizione, come lo sciamano che dilata i confini percettibili immergendosi nel sogno, la volontà deve abbandonarsi alla casualità dell’istinto. Volare con le note, fluire fra le pennellate, formarsi e sformarsi plasticamente. Ed è allora, quando penetra nella materia e interagisce con i suoi elementi, quando il vecchio sé muta in un sé semioticamente nuovo, che l’esperienza s’illumina d’immenso. Improvvisamente il mistero diventa comprensibile, il sogno reale. Tutto ha un senso. Ecco l’idea. Rivelata dall’improvvisa connessione di volontà, quella dell’autore e quella dell’attore, che deflagra nell’ebrezza estatica. Sarà poi compito della ragione conservare e donare al mondo questa possanza attraverso il giudizio. Giudizio che sarà sempre vero perché chi lo esprime avrà compreso l’essenza grazie all’esperienza che lo ha reso creatore.

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In questi termini, la credibilità di chi vive un’opera d’arte è la medesima dell’individuo che si unisce alla natura per diventare il tutto.

Anche in questo caso egli è puro. Solo dopo che si è liberato dai pregiudizi che pervertono la volontà, potrà perdersi e ritrovarsi. L’esperienza sensoriale, se protratta e compiuta con affettuosa contemplazione, provoca un acquietamento che schiarisce il pensiero, rallenta e calma le pulsioni, sfuma e poi cancella intorno, induce alla dissociazione con la quale la volontà passa dal corpo agente a quello osservato, toccato, gustato, odorato, trasformandosi lentamente ma inesorabilmente in volontà dell’animale, della pianta, del fenomeno naturale, dell’oggetto inanimato. In quella corporeità nuova, ma così reale, prova istinti, sentimenti, emozioni, pensieri non umani, che trasformano la coscienza di sé in un nuovo sé. Una fusione che è identità spirituale e materiale. E quando questa trasposizione viene reiterata con infinite entità, scatena una connessione simbiotica universale in cui la coscienza della cosa in sé, la volontà del creato in divenire, esplode in tutta la sua rivelazione.

Non c’è niente di mistico in questi processi. Basta cercare, trovare e fare propria la bellezza. E poi esaltarsi nell’estasi. L’idea dell’artista e la volontà naturale sono verità che il sensibile, all’intellegibile compete riferirlo, individua e vive grazie all’esperienza trans-dimensionale, che è tanto più reale, tanto più viva, tanto più credibile, quanto il sé riesce a donarsi alle molteplicità e condividere con esse il tutto.

In fondo, cos’è la natura se non la più meravigliosa opera d’arte?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’EGUALE LIBERTA’ COME ANTIDOTO DI OGNI CONFLITTO

Una società nevrotica difficilmente accetta i cambiamenti, le contraddizioni, le diversità. Il divergente mette in dubbio le sue convinzioni e induce a reazioni ai limiti del persecutorio. Viviamo un’epoca in cui principi giusti come il rispetto e la tolleranza verso il prossimo vengono pervertiti diventando paranoia. Con la conseguenza che qualunque manifestazione non conforme ai dettami preconfezionati si considera sessista, razzista, bullista, ipocritamente divisiva. Ma quando si ostacola il pluralismo attraverso principi che diventano vessatori si ha sempre tirannia. Soprattutto se il conformismo perbenista mira allo sfruttamento di nuovi mercati.

Poiché si definisce condotta offensiva qualunque azione verbale o fisica, almeno al pensiero è lasciato il piacere di concepire le peggiori sordità, che lede l’onore, il prestigio, la dignità di una persona, il rischio è di comprendere uno spettro di condotte che sbilancia gli interessi sempre e troppo a favore della presunta parte lesa. Anche quando l’offesa non c’è. Anche quando la reazione è paranoica. Anche, perché no, quando è stupida.

Se mi rivolgo a qualcuno dandogli dell’imbecille senza motivo, è ovvio che reagisca. Ma se invece si è comportato da imbecille, dovrebbe ringraziarmi perché gli offro la possibilità di correggersi. Faccio un esempio: Tizio invoca il suo dio per aiutarlo a realizzare un dato obiettivo. Caio sente e lo apostrofa scherzosamente che non esiste e se esistesse avrebbe cose migliori da fare. Tizio risponde che è un cafone perché non rispetta la sua fede e lo manda all’inferno. A quel punto Caio replica che l’inferno è sulla terra anche per colpa dei babbei come lui. E poi si sa come va a finire.

Ciò dimostra come le relazioni personali operino su un crinale periglioso, dove basta un niente per cadere nel precipizio. La sensibilità religiosa di Tizio ha infatti turbato quella agnostica di Caio, che con una battuta ne ha dissacrato le convinzioni. Certo, il primo poteva evitare di vagheggiare e il secondo doveva ignorarlo poiché i fanatici non perdono occasione per manifestare il loro integralismo, ma comparare i peccati serve solo a chi vuole omologare le condotte.

Situazioni di questo tipo si presentano frequentemente perché la mente comune è intrisa della logica del dominio in cui necessariamente la prevaricazione deve realizzarsi o essere ostentata. Le persone non sono ciò che sono, ma l’immagine che vogliono altri abbiano di loro o che altri hanno creato e loro condiviso. Ciascuno è una maschera sociale che deve essere riconosciuta e accettata, pena la perdita dell’autostima. E in un contesto competitivo, nessuno vuole smarrirla perché ritrovarla è un bel casino.

Se a questo si aggiunge che la morale sociale, le leggi e tutte le regole imposte hanno innalzato il livello di suscettibilità, magari fosse sensibilità, si spiega come oggi gli individui agiscano determinati esclusivamente dall’emotività isterica dei bravi consumatori e non come uomini coscienti di sé.

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L’omologazione ipocrita e artificiosa dei comportamenti ha portato a una deformazione delle relazioni paragonabile a quella subita dal sistema immunitario a causa dell’ipertrofia terapeutica: una volta la malattia era un evento naturale, spesso doloroso, a volte tragico, ma sempre parte dell’esistenza. La precarietà della vita terrorizzava, eppure la fitoterapia1 più o meno rudimentale era l’unica salvezza e, religione a parte, non esistevano artifici o sofisticazioni dietro cui nascondere l’angoscia della transitorietà. Adesso invece, fra il mito del superuomo in salsa narcisistica, l’ossessione dell’igiene, l’uso salvifico dei farmaci istigato dai media e la fragilità interiore acuita dal sistema che induce a trovare sicurezza in condotte compulsive, senza dimenticare l’influenza dell’industria farmaceutica assunta a rango di oligarchia, sono tutti ipocondriaci che soffrono come marmocchi dopo un graffio.

Allo stesso modo, le relazioni umane non sono più sincere e dirette. La spontaneità è stata sostituita dall’artificiosità. Il detto non è mai pensato e l’azione è sempre interessata. Ciascuno recita una parte. E quando accade che qualcuno non rispetti il copione, ecco il dramma. Nessuno sa improvvisare perché tutti hanno disimparato l’autenticità. Nudi, imbarazzati, scoperti di fronte alle proprie fragilità, gli attori si accusano reciprocamente. Poi il più arrogante offende l’altro e si allontana minacciando di non rimettere più piede sul palco. Nessuno interviene. Nel teatro cala un silenzio tombale. Finché si ode la voce strozzata del regista che grida: «Ma ‘ndo vai?»

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Diverso è il discorso per l’anarchico. Egli concepisce le relazioni non come competizione, ma come sintesi. La sua realtà è costituita da pluralità di entità -animali, vegetali, pure i bipedi!- che si fondono armonicamente attraverso la partecipazione condivisa. Una biosimbiosi che si compie solo dopo aver rifiutato la logica del dominio, affinché le relazioni non siano sottese agli ordinari rapporti di forza, ma tendano reciprocamente all’armonia. Non solo quella umana, ma del biotipo in cui interagiscono.

Quando l’individuo allarga i confini della sua comunità per includervi il suolo, le acque, le piante, gli animali o, collettivamente, la terra stessa in una eticità della terra che esalta il comune diritto di esistere2, non c’è bisogno di artefatti. Ciascuno vive l’esistenza uniformandosi ai ritmi e alle leggi della natura. L’obiettivo è fondersi nell’identità, non predare per interesse. Non si domina, emargina, elimina, sopraffà l’altro in quanto necessario al compimento del sé, che si realizza nella condivisione.

Ecco perché nella comunità antiautoritaria le relazioni sono dirette, sincere, istintive, prive di sofisticazioni tanto con le entità materiali e immateriali, tanto con i propri simili. Si chiama eguale libertà ed è quella legge universale che disciplina armonicamente l’azione di chiunque abiti il mondo. Consiste nel conoscere se stessi, nel manifestare pienamente la volontà di vivere e nel legittimare quella degli altri in una coesistenza che esalta le pluralità senza vincoli imposti.

E se per gli animali e le piante la giustizia è endemica, l’uomo, corrotto sin dalla nascita, deve emanciparsi dalla logica del dominio per imparare con l’esperienza ad essere natura. Divenuto padrone di sé dopo aver razionalmente rifiutato preconcetti, superstizioni e illusioni, si affida all’istinto per intraprendere un processo spirituale e pratico, mentale ed etico, che opera come un’impollinazione, dove il polline, la volontà, mediante gli agenti impollinatori, le relazioni spontanee, crea la gamia, l’identificazione con le entità, e la seguente produzione del seme, l’estasi data dalla partecipazione al tutto. Una fusione edificata sulla reciprocità, in cui eguaglianza e libertà sono complementari poiché l’una non si compie senza l’altra.

Ovviamente chi non vuole evolversi ha pari dignità di esistere, ma la sua vita è un’inutile spreco di energia e un fastidio per coloro a cui offendere e irridere i suoi conformismi non è solo un piacere, ma un dovere.

NOTE

*1- La fitoterapia è l’uso delle piante o degli estratto per curare le malattie e mantenere il benessere psicofisico.

*2- Aldo Leopold, Pensare come una montagna, Piano B edizioni, 1949.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RAZIONALITA’ DEMENTE

Caratteristica universale degli esseri viventi è quella di associarsi in comunità per difendersi e perpetuarsi. Ma se per tutti vale la regola biologica della cooperazione e l’eventuale leader agisce nell’interesse del gruppo, l’organizzazione umana è verticistica e il capo ne approfitta. Ogni tanto scappa qualche eccezione, solertemente repressa per non dare il cattivo esempio.

Con la tirannia il despota domina perché investito di una sacralità religiosa o pagana intangibile. La democrazia invece scarica sull’elettore la responsabilità della propria sottomissione. La prima si forma in maniera semplice: prendi un ragazzino bullizzato dai coetanei o a cui il padre ha dato qualche labbrata di troppo, lo fai crescere con quella sana instabilità che lo renda psicopatico e da adulto sarà un’eccellente sterminatore. E che fai, non obbedisci a uno sterminatore?

Più complessa invece la genesi della democrazia: quando qualcuno ha troppo, gli altri non hanno niente e così prima rumoreggiano, poi schiamazzano, poi minacciano. Per tenerli buoni si inventano religioni, distrazioni e ogni tanto si dà loro qualche contentino. Una volta domesticati sorge però il problema che vogliono vestire come il padrone, cacciare insieme a lui, disporre dei suoi beni, mangiare al suo tavolo. Insomma, diventano presuntuosi. E allora si invitano al banchetto, ovviamente non nella sala principale perché la stalla è più confortevole, dove potranno scegliere gli avanzi che più li aggradano.

Mentre nella tirannia c’è un despota, sai che è quello e lo odi o lo ami, il governo del popolo istituzionalizza la gerarchia con la complicità dei sudditi. E tutto si svolge in maniera liquida. Per mantenere il laibniziano migliore dei mondi possibili, non servono guerre, quelle sono più utili all’economia, non serve violenza, almeno finché qualcuno non reagisce. Ẻ sufficiente indottrinare a scuola, governare le famiglia, educare con i media, isolare i dissidenti in maniera che la collettività scelga di obbedire. Robetta per la propaganda dei nostri Signori. Che intanto continuano ad abbuffarsi grazie a chi lavora per loro, consuma i loro prodotti, ottempera le loro regole temendo di tornare a rosicare ossa spolpate.

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In democrazia tre sono i soggetti istituzionali: Il potere economico, quello governativo o politico e i cittadini. Il primo e il terzo sono preesistenti al secondo. Il primo usa il secondo, che non disprezza affatto, per controllare il terzo. Il secondo fa quello che dice il primo a discapito del terzo. Il terzo è manipolato dal primo, ma obbedisce al secondo. Per farla semplice: i Signori, ovverosia gli oligarchi, le categorie professionali, le industrie e tutti i centri di potere decidono cosa e come deve essere la società affinché il loro profitto prosperi. Il governo esegue applicando le leggi, imponendo la socializzazione conformista, reprimendo i dissidenti e attuando quant’altro ammansisca la massa, che accetta tacitamente perché obbedire è l’unico modo che conosce per andare a letto tranquilla. La democrazia non è pertanto la conseguenza di un atto di forza. Non è stata imposta. Ẻ il primo sistema giuridico che si fonda sull’inerzia. E infatti per inerzia va avanti.

Non ci sono dubbi che passare da un regime tirannico a uno illusorio sia stata una trasformazione rilevante. Ma se una cosa è migliore di un’altra, non è detto che lo sia in assoluto. Il popolo infatti ha accettato la democrazia non perché convinto che fosse la scelta corretta, non è neanche mai stato interpellato1, ma perché era l’unica alternativa a cui adeguarsi. E si è convinto che fosse quella giusta perché poteva sperperare il salario nei beni reclamizzati dal mercato. Un sogno per chi era abituato a cibarsi di pane e cipolle, a indossare gli abiti dei nonni e aveva alle spalle la guerra. Se poi si aggiunge che consentiva ai fascisti di riciclarsi nell’ombra, il sistema democratico era l’offerta che non si poteva rifiutare2.

Il consenso tacito della collettività è pertanto una scelta razionale perché finalizzata a un’utile. Sembrava e sembra infatti la soluzione più idonea a realizzare l’interesse dei Signori di accrescere la ricchezza approfittando della complicità collettiva e della massa di evitare la miseria grazie alla certificazione della subordinazione. Detto diversamente, l’evoluzione della civiltà ha portato alla democrazia in quanto trasposizione sociale della logica del profitto che la ragione persegue. E così la capacità che secondo Kant avrebbe dovuto far uscire l’uomo dalla minorità, anziché liberarlo dalle catene, gliene ha fornite di più confortevoli. Poi gli ha dato la chiave e lo ha invitato a chiudere il lucchetto con un rassicurante: «Tranquillo amico, sono per il tuo bene!» «Per il mio pene?» «Ho detto per il tuo bene, idiota!» Al che il poveretto lo ha chiuso imbarazzato, ringraziando pure.

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Detto che la democrazia è una scelta razionale, si può affermare che sia anche giusta?

Si dice razionale un ragionamento che arriva per deduzione a una conclusione ed è vero, quindi giusto, quando lo è ogni suo connettivo logico. Passando dalla teoria alla pratica, una scelta si definisce tale quando produce un risultato utile, indipendentemente dal fatto che i mezzi per conseguirlo siano corretti o sbagliati. La contraddizione fra il principio e la sua applicazione è evidente e spesso rileva in termini morali. Ma nessuno ci fa caso perché la morale serve per punire i presuntuosi che si autodeterminano.

Di questa incoerenza è permeata la democrazia.

Peraltro, oltre agli abbietti motivi che l’hanno determinata, osservando in maniera imparziale le sue dinamiche si scopre che i principi di cui si dichiara paladina non vengono applicati. E poiché è falso ciò che non corrisponde al vero, cioè la realtà smentisce le premesse, la democrazia è una finzione.

Solo qualche esempio. Non è vero che essa garantisce l’eguaglianza in quanto propone un’economia fondata sul libero mercato dove il più forte detta le regole. Non è vero che assicura la libertà perché impone il monopolio del potere con la violenza e lo mantiene con l’intimazione dei mastini, l’estorsione del tributo, la vischiosità delle istituzioni, erodendo al contempo, grazie anche alla crescente invasività della tecnologia, gli spazi in cui essa può manifestarsi. Non è vero che opera nell’interesse collettivo perché, per definizione, realizza quello della maggioranza. Non è vero che le persone non sono in grado di autodeterminarsi giacché quando non sono interdette dal profitto o manipolate da chi persegue il proprio, dimostrano di saper e poter agire nell’interesse comune. Non è vero che la complessa modernità esige che le decisioni siano prese da professionisti della politica perché l’individualità non è mai demandabile, perché se le persone fossero davvero così incapaci lo sarebbero anche di scegliere i rappresentanti, perché essi delegano a loro volta ad altri esperti spogliandosi delle funzioni istituzionali. Non è vero che… Qui mi fermo perché il presuntuoso non è chi si reputa superiore, ma chi primeggia approfittando delle debolezze altrui.

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Di solito quando taluno decide sulla base di premesse che ritiene corrette e poi si rivelano sbagliate, la prima cosa che fa è correggersi trovando soluzioni più appropriate. Non è il caso della democrazia. Nonostante tutto, essa è ancora considerata il miglior sistema giuridico possibile. I Signori non mollano l’osso e i sempliciotti sono talmente sedotti dalla loro protervia che ogni alternativa viene definita sobillatrice. E allora come trovare il giusto in questa fantasmagorica falsità?

Ẻ giusto ciò che è bene.

Bene è però uno di quei termini che significano tutto e il loro contrario. Per l’economia è bene sfruttare gli individui in nome della crescita. Per la politica è bene usare la collettività per mantenere i privilegi. Per il capo è bene umiliare il sottoposto perché sia di esempio. Per la massa è bene l’indifferenza per non aver grattacapi. Si tratta pertanto di un concetto relativo, che varia in base al tempo e al luogo, alla percezione personale o sociale. Qualcuno ha provato a oggettivarlo, ma le conclusioni sono sempre contaminate o dal mediocre interesse o dall’assolutismo idealistico.

Per definirlo occorre quindi cambiare il punto di vista. Il riferimento non può essere esclusivamente la società umana perché il miasma che la caratterizza ammorba ogni suo aspetto. Al tempo stesso non può essere cercato nel trascendente a cui l’animo aspira quando percepisce la multidimensionalità ma non sa spiegarla perché i suoi istinti sono annichiliti dalla materialità. La soluzione è guardarsi intorno e scoprire che oltre le cimiere, oltre i grattacieli, oltre il traffico, oltre la realtà travisata dei notiziari o quella mistificatoria dei post, oltre la castrazione del lavoro e la dipendenza da profitto, esiste un mondo incontaminato che una volta ci apparteneva e in cui potevamo essere liberi perché non determinati da regole imposte ed eguali perché vivere era un interesse condiviso. Lo so, non sembra messo bene, ma neanche noi lo siamo. E forse tornare a completarci a vicenda gioverebbe a entrambi.

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Per capire cosa è il bene a cui deve tendere l’uomo bisogna quindi partire dal presupposto incontrovertibile che è un essere della natura. Ẻ natura. Ciò che lo devia da tale identità danneggia lui e l’armonia circostante.

Non posso chiedere a un cavallo di spostare un macigno o a un’aquila di marciare come un soldato. Non perché l’uno non abbia la forza e l’altra la coordinazione, tantomeno perché non sono intelligenti, in quanto ogni essere lo è a modo suo e nel contesto di riferimento. Ma perché l’indole dell’equino è correre libero, del volatile è sfrecciare nel cielo. Se vengono costretti ad agire diversamente dal loro istinto o non ci riescono o soffrono. Allo stesso modo il dominio, da cui deriva il dovere civilizzante, travisa l’essenza umana. In natura infatti la prevaricazione è funzionale alla conservazione non al profitto e le uniche regole sono quelle necessarie alla sopravvivenza non all’accumulazione. Così per i non umani, così sarebbe per l’uomo se le prigioni che ha creato non gli impedissero di vivificarsi nelle infinite connessioni con le molteplicità.

Affinché le interazioni siano simbiotiche occorre quindi un ambiente armonico dove le volontà esplorino la realtà e vivano la profondità dell’esperienza. E poiché solo la natura, essendo intrinsecamente incorrotta, può garantire il fine ultimo di fondersi nell’unità, essa è il bene supremo. Per cui giusto è ciò che è naturale, cioè secondo natura: ogni essere deve manifestarsi per ciò che è, ogni processo deve svolgersi così com’è. Ingiusto è ciò che contraffà la sostanza e manipola la sua processualità alterando l’armonia in cui le entità si realizzano. Giusto è quello che la rispetta, conserva, protegge, valorizza, magnifica. Ingiusto è quello che ne sabota, condiziona, deturpa, altera, soggioga, violenta, modifica, distrugge l’autenticità. Ovverosia quanto prodotto dalla civiltà dalla prima domesticazione ad oggi.

Piante e animali lo sanno e usano coscienza e ragione per perpetuarsi e l’istinto per abbandonarsi alla sua armonia. L’uomo, invece, ancora si affida all’illusione che il solo pensiero possa renderlo migliore di quello che è. Se però non ha ancora capito che la conoscenza non è superficiale deduzione, ma autocoscienza universale della cosa in sé3, forse non è così tanto intelligente.

NOTE

*1 Con riferimento al referendum del 2.6.1946, come può considerarsi attendibile la scelta fra due sistemi giuridici di cui uno ha portato alla dittatura e alla guerra?

*2 Citazione dal film Il Padrino, 1972.

*3 Secondo Gustav Theodor Fechner la ragione consente di conoscere la dimensione corporea dei viventi, non la loro spiritualità: “la nostra coscienza è chiusa alla loro”, afferma in Nanna o l’anima delle piante, 1848

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CONTINUIAMO A FARCI DEL MALE! L’ANTROPOCENTRISMO.

In più di un’occasione ho affermato che il primato umano è un’invenzione della società del dominio in virtù del quale essa si arroga il potere di sfruttare e distruggere per soddisfare i propri interessi senza sensi di colpa.

Una volta la legittimazione dell’arbitrio era metafisica. Dio ha creato il mondo poi gli uomini, dopodiché ha detto: riempite la terra, soggiogatela e dominate i pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia1 affinché lo governassero come bravi amministratori2. Ogni tanto c’era qualche ribelle come San Francesco che ribaltava il tavolo sostenendo che la natura è nostra sorella madre che ci sostiene e ci governa3, ma ormai la frittata era fatta. L’uomo aveva asservito l’ambiente alle sue necessità, i viventi ai suoi servigi, i propri simili alle sue meschinità. E quando la teologia non ha retto l’urto delle innovazioni scientifiche, l’antropocentrismo utilitaristico è diventato il principio ispiratore di ogni pratica antropica: dal Big Bang sono nati gli atomi, poi le galassie, le stelle e i pianeti e quattro miliardi di anni fa circa il primo organismo da cui discende anche l’individuo, l’essere più efficiente, produttivo e performante della terra. Hanno omesso il più obbediente perché non faceva figo.

Che il primato fosse merito di caratteristiche biologiche come lo sviluppo encefalico o la stazione eretta, il linguaggio del sé narrativo o la capacità di pensiero astratto, l’attitudine ad associarsi con intenzionalità condivisa o l’abilità a sfruttare la cultura cumulativa, con la teoria evoluzionistica il narcisismo antropocentrico era salvo. E pure apodittico perché, spogliato della metafisica e della teoretica, si affidava all’infallibilità del metodo scientifico. Una credibilità conquistata sul campo grazie alla prodigiosa capacità di trasmettere il sapere provvisorio come assoluto, di dissimulare i profitti come interesse pubblico e di elargire progresso in cambio di qualche cavia. Un rapporto costi-benefici che i signori non potevano ignorare e i sempliciotti dovevano assecondare perché quello sanno fare.

Oggi la scienza afferma che l’uomo è il numero uno in quanto l’evoluzione lo ha reso l’essere più intelligente. Sancendo una dicotomia insanabile con il sensibile, la ragione diventa verità a cui sottomettere il resto. L’unicità sta nel pensiero. Un privilegio di cui gli animali non dispongono perché per obbedire hanno bisogno della frusta. Quanto alle piante, sono talmente refrattarie che bisogna abbatterle. E se il cogito ha sempre ragione, i crimini che perpetua sono sempre giusti.

Metterlo a disposizione del bene infatti sembrava patetico, meglio utilizzarlo per raffinare la violenza. Non quella spontanea e tollerata in natura perché funzionale alla sopravvivenza, bensì quella razionale, che concepisce la realtà come mezzo per un fine. Che porta alla sopraffazione fisica e psicologica, all’annullamento dell’alterità per appropriarsi della sua sovranità e trarne vantaggio. E così si è passati dall’industrializzazione alla sofisticazione globalizzata, dalle volgari catene al più raffinato allevamento intensivo, dall’emancipazione alla catastrofe in un batter di ciglio!

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Ma se l’intelligenza umana lascia qualche perplessità, non ci sono dubbi su quella degli altri esseri viventi.

La prova? Semplice, non agiscono per profitto, non accumulano banalità, ma vogliono vivere.

L’uomo sa maneggiare un computer, mentre le formiche si orientano nel deserto. Quale delle due competenze è più importante? In natura tutte le specie sono intelligenti a modo loro e nel loro contesto. La manualità, la creatività, l’elaborazione dell’esperienza, l’apprendimento, la trasmissione della cultura nello spazio e nel tempo e altre specificità sono solo effetti dell’unica vera capacità che conta, ovverosia quella di fare la scelta giusta al momento giusto nelle sfide poste dall’ambiente4.

Gli esempi che lo confermano sono infiniti: dal batterio Escherichia Coli che decodifica gli impulsi adattando il proprio metabolismo al contesto esterno, all’eccezionale memoria degli elefanti, all’organizzazione sociale delle formiche, alle piante che sono dotate di sensi, si riproducono, si difendono, cooperano, interagiscono, hanno simpatie e antipatie, posseggono coscienza dell’ambiente e dell’alterità. E poiché queste capacità non sono attivate da un tizio in una cabina di pilotaggio tipo Haran Banjo nel Daitarn III, il monopolio umano dell’intelletto è una farsa. Di sicuro l’uomo è capace di realizzare grattacieli, ponti, monumenti, opere d’arte, bombardieri tascabili, ma attribuire queste doti a una presunta superiorità distorce e reinterpreta l’evoluzione dal suo esclusivo punto di vista. Anche il mio cane vede il mondo dalla sua prospettiva, ma non pretende di essere migliore di me!

Il pregiudizio culturale dell’antropocentrismo ignora l’evidenza empirica per la quale ogni essere possiede specifici bisogni e funzioni e si è evoluto per soddisfarli nella maniera più efficiente possibile. Ne consegue che l’umano rappresenta solo una delle infinite forme di vita possibili, che si è sviluppata e si svilupperà né più né meno, né meglio né peggio delle altre, bensì adeguatamente alle sue necessità biologiche.

A dispetto di questa evidenza però, l’uomo continua a guardarsi alla specchio e canticchiare: «Oh, come sono bello! Oh, come sono intelligente!» Ignorando che visto da una formica, una farfalla, un faggio o una trota è nient’altro che un essere stupido, limitato, violento, un fastidio di cui farebbero volentieri a meno. Per il creato è invece pari a un qualunque cefalopode, roditore, insetto, alga, muschio, rampicante, benché assai meno utile e più dannoso.

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Peraltro la storia dimostra che ciò che oggi sembra verità, domani sarà motivo di ludibrio. Assolutizzare il cogito è un errore perché sappiamo a mala pena che il cervello è costituito da strutture e nervi comunicanti attraverso le sinapsi e controlla i pensieri, la memoria, il linguaggio, i movimenti, gli organi. Parliamo invece delle sue potenzialità con ipotesi e suggestioni.

La teoria dell’intelligenza multipla5 ad esempio, lascia intuire che l’uomo disponga di potenzialità ignote che gli consentirebbero di realizzare attività allo stato inimmaginabili o di concepire realtà inspiegabili. Se ad essa associamo quella del multiverso6, cioè la possibilità che esistano altri universi fuori dal nostro spazio-tempo che si sovrappongono fra loro, qualora un giorno fosse provato che il tangibile è costituito da dimensioni parallele non comunicanti e contraddistinte da dinamiche che la mente può percepire, identificare, vivere, ciò che oggi viene considerata superstizione diverrebbe realtà. Penso all’attività sciamanica che, guarda un po’, viene praticata dai nativi di tutto il mondo che abitano lo stato di natura, quell’ambiente puro dove l’istinto, il sensibile, non il pensiero, definiscono la conoscenza. Stessa cosa si potrebbe dire della massa ed energia oscura di cui vediamo gli effetti ma non riusciamo a identificare le cause. E allora perché non ipotizzare uno switch metodologico non più fondato sulla razionalità ma sulla sensibilità?

Anche se l’intelletto consente alla carrozza di andare dove vuole il cocchiere, sovente è un paraocchi che nasconde la realtà circostante. Esso opera infatti attraverso processi analitici-teleologici in cui l’azione è funzionale a un fine. Fine che è sempre il profitto. Profitto che determina le scelte spogliando l’individuo della sua autenticità. Per essere padrone di se stesso deve invece abbandonarsi all’istinto e agire spontaneamente, come insegnano gli esseri del mondo, che conoscono la ragione e la usano quando è necessario. L’esempio forse più evidente è il linguaggio: negli uomini la comunicazione è stereotipata in funzione dell’utile a cui mirano, nei non umani invece, pur essendo mediata a sua volta dall’esperienza, dalla cultura, dalla interazione, è sempre diretta, mai simulatrice. E se la loro sensibilità prevale sul giudizio non è perché sono inferiori, ma perché sanno, lo hanno capito molto prima di noi, che fondendosi nell’armonia naturale, cooperando nella meravigliosa biocenosi che è il mondo, realizzano il benessere proprio e universale. Soltanto chi rinuncia, scelta razionale, ai desideri effimeri e si unisce, azione spontanea, al tutto può essere davvero felice.

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Molti non credono alla storiella del figlio prediletto creato a immagine e somiglianza dell’Onnipotente. Tanti non si accontentano di sapere che se lo scimpanzé, il più evoluto fra i meno evoluti, viene trasferito dalle foreste a New York impazzisce in vetta all’Empire State Building7, mentre se l’uomo fa il percorso inverso le trasforma in lussuriosi centri commerciali. Per gli apostati e gli scettici due sono i porti sicuri. Quello legalista, per cui se ammazzi un uomo è omicidio, se uccidi un animale è un passatempo, se disboschi una collina sono pronte le autorizzazioni per le villette. E quello fondato sull’esclusività umana dell’anima, che esisterebbe a prescindere dal creatore identificando la nostra unicità. I nostalgici sono fantastici. Affossano un regime per ripristinarlo con forme a loro più vantaggiose!

Lasciando il primo agli invasati e concentrandosi sul secondo, con il termine anima si considera quella forza vitale insita in ogni essere vivente sede di sentimenti, pensieri, coscienza, che si esprime attraverso il corpo. Il platonismo, la cristianità e le sue negazioni, financo il razionalismo e la tecnicizzazione la concepiscono come qualcosa di immateriale che aspira all’intellegibile, siano idee o Dio. Essendo però un concetto astratto che definisce l’umanità, attribuirlo ai non umani comporta umanizzare ciò che non lo è. Ogni organismo è infatti volontà di vivere cosciente e agente la cui dinamicità, sensibilità, affettività, docilità, consapevolezza di sé, dell’alterità e del mondo e altre capacità si manifestano in base a quelle che sono le peculiarità fisiologiche. Se anche avessero un anima, non potrebbe pertanto essere paragonata alla nostra. Ogni antropomorfizzazione è sempre e solo un espediente mentale che autorizza a sottomettere o eliminare il diverso quando è utile a rafforzare la propria autostima.

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Come dice correttamente Stefano Mancuso, se l’uomo incontrasse un extraterrestre probabilmente non saprebbe riconoscerlo8. E così, associando il primato all’esistenza del cervello, inteso come organo, e alle sue funzionalità, poiché i vegetali non ne hanno bisogno e gli animali lo hanno sviluppato in maniera differente, li considera inferiori.

Ma i primi sono organismi decentralizzati, che risolvono i bisogni attraverso strutture diffuse, distribuite nel corpo così da risolvere problemi, soddisfare bisogni, preservare la vita creando connessioni reticolari. Comunicano, si riproducono, si manifestano, sono dotati di sensi e intelligenza come qualunque altro essere vivente. La loro volontà possiede un io narrativo, si chiami coscienza o come si preferisce, che si replica nelle infinite semiosi, che è tangibile in quanto effettuano scelte in base alla necessità. Allo stesso modo, gli animali sono esseri evoluti al massimo delle loro potenzialità così da conseguire i medesimi obbiettivi vitali. Anch’essi conoscono la propria individualità e non hanno bisogno di artifici per esprimerla. Pur agendo egoisticamente, si completano con l’alterità, con cui cooperano nella perpetuazione della natura.

Se volessimo trovare un primato umano quindi, non sarebbe certo la sua maggiore attitudine intellettiva, adattativa, evolutiva, che ogni specie dimostra di possedere in relazione alla sua identità biologica e alle sue necessità, ma la maggiore stupidità. Non comprendendo l’appartenenza al tutto, soffre la finitezza e cura la frustrazione che ne deriva con il dominio. Enfatizzando le proprie capacità, si attribuisce la potestà sugli esseri del mondo per dispone a piacimento. Così facendo però, oltre ad essere sempre infelice perché non è mai se stesso, ogni essere è tale solo quando genuinamente si fonde alle molteplicità, altera l’armonia delle cose indispensabile affinché le simbiosi avvengano spontaneamente.

Comunque sia espresso quindi, il primato umano è una menzogna. Menzogna che nella società del dominio serve per giustificare le nefandezze provocate dal profitto, unico valore autostimante riconosciuto. Finché quest’ultimo non viene eliminato, l’antropocentrismo sarà metodo di giudizio e di condotta, con inevitabile sfruttamento, umiliazione, distruzione, morte della terra e dei suoi elementi.

Certo, qualcuno potrebbe replicare che senza profitto non ci sarebbe benessere e potrebbe portare come esempio la miseria in cui vivono le popolazioni che non ne dispongono. Ma non sarebbe difficile dimostrare che esse non sapevano cosa fosse prima di essere colonizzate e se continuano a soffrirla è perché i loro dominatori non hanno ancora smesso di sfruttarle. Altri addirittura potrebbero rilevare che non è possibile realizzare pratiche ecologiche senza economia in quanto è inverosimile che le persone rinuncino alle comodità acquisite9. Ma è proprio questo il punto: l’anarchico non propone l’ennesima formula per affrontare la transizione, auspica invece la inforestazione10, ovverosia un nuovo rapporto con la terra in cui mangiare, dormire, giocare, interagire con essa realizzi l’individualità.

Ciò detto, mi rendo conto che l’uomo comune non sia capace di immaginare questo stravolgimento. Nonostante tutto però, oggi mi sento ottimista. Proprio stamani ho visto un bambino che disegnava gli occhiali, i baffi, il moccico che ciondola dal naso e un pisello elefantiaco alla foto dell’Uomo vitruviano11 di Leonardo sul suo libro di scuola. Dissacrare l’umano quale misura del mondo non cambierà le cose, ma è sicuramente un ottimo inizio.

NOTE

*1 Genesi 1,28.

*2 Luca 19,12; Matteo 24,45.

*3 San Francesco, Cantico delle creature, composto intorno al 1224.

*4 Emmanuelle Pouydebat, L’intelligenza animale, Corbaccio, 2018.

*5 La teoria delle intelligenze multiple è formulata da Howard Gadner e ricomprende l’intelligenza linguistica, musicale, logico-matematica, cinestetica, interpersonale, intrapersonale.

*6 Proposto per la prima volta da Hugh Everett nel 1957.

*7 – Riferimento a King Kong, film del 1933.

*8 Stefano Mancuso, Fitopolis la città vivente, Laterza, 2023

*9- Paolo Pecere, Il senso della natura, Sellerio, 2024.

*10 Termine utilizzato da Baptiste Morizot, Sulla pista animale, Nottetempo, 2018, con cui intende “andare alla foresta tanto quanto essa si trasferisce a noi”.

*11 Disegno realizzato da Leonardo da Vinci intorno al 1490 e conservato presso la Galleria dell’Accademia a Venezia.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

STRATEGIA DI CONSERVAZIONE

Fatti, non parole! è il motto della civiltà. E i fatti sono che non si dà niente per niente. Ma quando l’interazione è uno scambio con contropartita, la volontà viene snaturata. Non agisce più spontaneamente, le necessità diventano artefatte e le sue potenzialità represse dalla ricerca spasmodica, affannosa, ossessiva del tornaconto. Di conseguenza, anche la realtà con cui interagisce non è più luogo armonico in cui manifestare la propria autenticità, ma ambiente in cui predare senza bisogno. E poiché la prima regola della mercificazione è che per il profitto vale tutto, sfruttare, saccheggiare, distruggere, uccidere diventano azioni compiute senza rimorso. Per di più impunite, in quanto sanzionarle significherebbe riconoscere l’immoralità del sistema che alimentano. Intanto i più deboli soccombono, le biodiversità si estinguono, i viventi vengono manipolati geneticamente o allevati intensivamente, i virus si diffondono, l’aria si fa irrespirabile e poi il buco dell’ozono, il cambiamento climatico, la desertificazione e quant’altro viene ideato dall’allegra brigata grandi affari-politica. Mentre i sempliciotti, veri responsabili del disastro perché basterebbe dessero segni di vita per sovvertire lo stato delle cose, si eclissano nell’uniformità data dagli scintillanti intrattenimenti profusi dal progresso.

La civiltà è quel modello sociale in cui un manipolo di buontemponi gestisce la collettività approfittando della sua apatia. Le dice cosa deve e non deve fare, come interagire, pensare, divertirsi, godere addirittura. Attraverso la legge la disciplina. Con la morale ne colpevolizza le trasgressioni. Con l’economia la munge e con la socializzazione la solubilizza nell’obbedienza, la sola verità che le è dato conoscere. L’individuo moderno crede di essere libero perché può scegliere il padrone, ma non è mai stato tanto represso. Lo spazio in cui agisce e la direzione che segue sono programmati. Il tempo è un algoritmo di adempimenti da svolgere. Pure l’affettività è ormai preconfezionata. Della sua naturale essenza non è rimasto niente. Non sa cosa significhi essere padrone di se stesso. E quando si illude di essere libero, è solo perché il controllo è così invasivo che non teme la sua autonomia.

Una volta i filosofi discutevano se l’uomo fosse corpo o anima. Oggi è evidente che la civiltà ha cancellato entrambi. Il primo è merce di scambio, la seconda è rimossa dall’utile che ne deriva. E lui cosa fa? Niente. Neanche un sasso è tanto indifferente quando un piede lo schiaccia!

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Dal punto di vista personale la noncuranza è una strategia conservativa. Forse non proprio virtuosa, ma se gli irresoluti sono più numerosi degli audaci un motivo ci sarà. Il problema casomai è quando impongono la loro ignavia sperando di trarne profitto. Ma si sa, la viltà si alimenta sempre della doppiezza!

Certo, ogni tanto qualcuno si rende conto che forse non è come gli hanno fatto credere. In un ordine fondato su valori mercantili però, anche le rivoluzioni che saltuariamente lo agitano diventano rivendicazioni di rango volte a ottenere le medesime possibilità di chi spadroneggia i processi di potere. Pensa alla controcultura degli anni sessanta che reclamava i diritti delle donne o dei neri fino a quel momento esclusi dal sistema capitalista. Dopo lotte e sacrifici hanno finalmente ottenuto il risultato di essere reazionari più di coloro che avversavano.

La remissività è nella natura umana. L’uomo è un essere fragile e la sua fragilità, come tutte le cose del creato, ha un valore ambivalente. Se da una parte lo rende capace di opere artistiche straordinarie, di invenzioni scientifiche surreali, di autocoscienze complesse che fanno la fortuna degli strizzacervelli, mi piacerebbe comunque capire come si può affermare con certezza che le formiche, gli elefanti o le sequoie non abbiano i loro Michelangelo, Einstein e Freud, dall’altra lo rende l’unico essere vivente che per spirito di conservazione regredisce anziché progredire. Teme il cambiamento perché persuaso che al male non ci sia fine e così si affida all’autorità di turno. In questo modo, se la morsa improvvisamente asfissia, può sempre dire che la responsabilità è sua. Senza mai disobbedire, però.

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Eppure in natura ogni essere è autonomo e, quando prevista, la gerarchia è una necessità a cui il singolo può decidere di non aderire. Per questo la rivoluzione è prima di tutto un atto spirituale che consiste nel rompere con l’ordine costituito per cominciare un’esistenza che con esso non abbia niente a che fare. Finché si crede che qualcuno o qualcosa possa cambiare la trama della propria vita non si è padroni di se stessi!

Faccio un esempio. L’uomo sta distruggendo l’ambiente e la sesta estinzione1 è già iniziata. Da più parti si propone di ripristinare il patto con la natura in cui la sua magnificenza sia declinata al futuro e non al passato. Che in termini concreti significa applicare una serie di strategie correttive in cui le persone devono rinunciare a parte dei confortevoli privilegi materiali elargiti dal progresso e i governi devono impegnarsi a trovare soluzioni che lo orientino verso scelte ecosostenibili.

Pensiero stupendo, mi viene da canticchiare. Meglio non dire, però2.

Sono adorabili questi profeti dell’ecologismo che desiderano salvare il mondo come i turisti bramano proteggere gli animali che vivacizzano i loro safari!

La verità è che la denaturalizzazione è una realtà che ha molteplici cause, tutte riconducibili all’avidità umana. Non serve intervenire sul riscaldamento climatico se non si impedisce lo sfruttamento intensivo, non si pone un freno alla crescita demografica o non si contrasta la deforestazione e l’inquinamento. Non basta correggere la singola azione quando opera in un sistema marcio. Se non si agisce radicalmente sull’economia che genera sopruso, sull’industrializzazione che preda l’ambiente, sulla tecnologia che trasforma e consuma e soprattutto non si elimina il principio per cui il profitto prevale sul resto, la fine è certa.

Finché le persone non cessano di collaborare col male, ogni proposta è un pour parler. Utilissimo per nutrire chi riempie i salotti televisivi o vendere libri, un po’ meno per evitare la rovina. Non è infatti al futuro che bisogna guardare, ma al presente. E il presente è che la catastrofe può essere fermata solo eliminando la società del dominio. Occorre che ogni individualità si convinca che deve essere padrona di se stessa, che può esserlo soltanto svincolandosi dai pregiudizi che la determinano e che deve operare in un ambiente che premi il disinteresse e stimoli la spontaneità. Una consapevolezza che matura personalmente risolvendo le fragilità nell’abbandono e si concretizza con scelte radicali che portano a una nuova era silvestre in cui la ragione utilitaristica lascia il posto alla meraviglia dell’ascolto, del fiuto, del gusto, del tatto, della contemplazione, della connessione e delle altre infinite capacità sensoriali ignote al barbaro civilizzato, che la natura invece stimola spontaneamente.

Rifugiarsi nel selvaggio e difenderlo a ogni costo e con tutti i mezzi possibili è ciò che deve essere fatto per se stessi, per l’alterità e per l’ambiente, luogo in cui la volontà si perfeziona nell’armonia reciproca. Se ciò non diventa scopo spirituale prima ancora che esistenziale, oltre alle scontate implicazioni ambientali e alla perpetuazione della gerarchia, l’individualità sarà un cliché, i piaceri autocompiacimenti transitori, l’esistenza una consolazione retorica e la volontà un nulla, utile al massimo come antitesi dialettica al tutto.

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Quando un frugoletto disegna, non riproduce i canyon di Manhattan, le auto ferme in tangenziale o i siti di smaltimento dei rifiuti tossici. Traccia le curvature delle montagne, raffigura gli animali e gli alberi e fra il sole e le loro chiome abbozza qualche nuvoletta e stormi di uccelli. Questo perché l’uomo non può negare di essere stato, un tempo, felice come i cervi di bosco3. E un animo puro a quell’armonia originaria si ispira e aspira. Ẻ infatti a quest’impulso primordiale e selvaggio che il ribelle tende quando fugge dalle macerie dell’anima per recuperare la sublime capacità di decidere della propria vita.

Immagina cosa sarebbe se domani non esistesse la civiltà. Verrebbe meno lo sfruttamento, la violenza, le predazione, la repressione, scomparirebbero i quartieri residenziali e le slums, le industrie, il cemento, la tecnologia, le istituzioni i mastini che le proteggono e quant’altro viene in mente. Saremmo noi e la natura. Nudi nella sua immensità. Spaventati certo, perché educati a temere l’orso che si avvicina indiscreto e non l’estorsione dell’autorità, ma dopo verremmo travolti dal piacere dei colori, degli odori, della freschezza, dalla curiosità della scoperta, dal desiderio, quasi un bisogno, di simpatizzare con gli animali, di svagarsi in un prato o interagire con le piante. Ci abbandoneremmo esaltati, attoniti per non averla apprezzata prima, ma anche colpevoli di averla offesa per troppo tempo. Saremmo volontà unica perché non l’amore per i soldi, non la fede, non la fama, non la giustizia… datemi solo la verità, diceva Thoreau4. Che consiste nel respirare come gli alberi, nel correre come gli animali, nel divenire come le correnti dei mari, nell’essere equilibrio di interazioni paritarie e affettive con le entità del mondo.

La voglia di vivere si realizza nella natura selvaggia perché se il corpo determina la specificità dell’intelligenza, dei bisogni, delle capacità, la sostanza è la stessa delle molteplicità che la popolano. Si autodetermina attraverso la condivisione e si realizza nella fusione unitaria. Una natura che non è riserva che sollazza i ricchi, né ristoro dall’esistenza alienata del civilizzato. Non è fonte di vita, energia, benessere che va protetta e conservata perché utile o per simpatia. Non è il deus sive natura che divinizza il mondo5, tantomeno l’eterno uno concesso da Dio all’uomo per favorire nuove esperienze che ispirino fiducia in se stessi6. Non è mezzo per un fine, né sistema o teoretica. Non si racchiude in formule meccaniche o categorie ordinabili. Non è definibile se non come vita. Banalmente vita. Immanentemente vita in cui le azioni di attori si intrecciano formando un flusso condiviso senza ideatori, iniziatori, proprietari, padroni7. Ẻ semplice volontà cangiante in cui quella di ogni essere si perfeziona contribuendo all’autocoscienza universale del suo divenire.

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Mentre il civilizzato si affanna a cercare la felicità bramando scampoli di esistenza che ricordino esperienze piacevoli, il libertario sa dove e come trovarla. Anche se non esiste un manuale del bravo ribelle e tutto è lasciato all’improvvisazione e alla sperimentazione, dissolta l’individualità nella comunione con la natura, sente che deve sostituire il profitto con la gratuità. Le cose di cui ha bisogno, quelle più preziose, non si comprano. Ci sono. Sono lì, disponibili a tutti perché tutti ne godano. Disinteressato alle superfluità materiali, non chiede, ma dà. Si offre alle alterità per unirsi nell’universale. In questo modo le relazioni esaltano l’antiautoritarismo, poiché l’eguaglianza delle diversità favorisce la simbiosi, e la cooperazione, in quanto il benessere personale dato dalla partecipazione è realizzabile solo se condiviso.

Gratuità, antiautoritarismo, cooperazione… non male come inizio!

Ricominciare dallo stato di natura è pertanto l’unica via per riappropriarsi del sé. L’autodeterminazione è possibile dove niente è artefatto, imposto, manipolato, pregiudicato dall’ipocrita mano umana, dove le differenze si combinano, la vita è un’avventura e morire equivale a vivere, il gesto è spontaneo, il sentimento profondo, la scoperta sorprende, la sensualità esplode. Ẻ nell’impervio cortese del selvatico che l’uomo deve addentrarsi con la curiosità del bambino, sperimentare con la vivacità del ragazzo, cooperare con la maturità di chi conosce il giusto. Luogo incontaminato dove esso non si negozia e non si sofistica, ma è carnale e celebrale, stimolato da quel senso morale che solo il creato sa offrire.

Contro gli effetti della necrofila mercificazione dello scibile la soluzione esiste e se apri la finestra è proprio davanti a te. Anche se stamani c’è un po’ di nebbia che copre le montagne, hai due soluzioni: raggiungerle per cominciare una nuova vita, oppure buttarti di sotto. Morire è più dignitoso che arrendersi.

Preferisci il mare? Vero, anche la sua immensità inebria, ma interagire con un crostaceo, un mollusco o un cefalopode è un po’ più complesso che con una mucca, un capriolo o un lupo. Un passo alla volta!

NOTE

*1 Leakey Richard e Lewin Roger, La sesta estinzione, Bollati, 2015.

*2 Patti Pravo, Pensiero stupendo, canzone del 1978.

*3 Friedrich Holderlin, Iperione, 1797.

*4 Henry David Thoreau, Walden, 1854.

*5 Baruch Spinoza, Etica, 1677.

*6 Ralph Waldo Emerson, Nature, 1836.

*7 James Lovelock, Gaia, 1979.

Diversamente da Lovelock, non credo che la terra sia un unico organismo, Gaia appunto, capace di autoregolarsi e di replicare ai fattori che turbano gli equilibri naturali. L’intreccio (Termine usato anche da Bruno Latour in La sfida di Gaia, 2020, ma riconducibile a Humboldt in Kosmos, 1845) delle azioni compiute dagli attori organici e inorganici è infatti spontaneo e casuale, assolutamente privo sia della soggettività unitaria del superorganismo, che della provvidenzialità Assoluta riconosciuta dai filosofi naturalisti fino al materialismo scientifico del XIX secolo. Ẻ interazione delle volontà egoiste che condividono il medesimo scopo, la vita, per il quale realizzano condotte simbiotiche che producono il tutto armonico. Di cui peraltro sono consapevoli grazie alle molteplici connessioni spontanee che reiterano la vitalità dell’estasi.

 

 

 

 

 

 

 

 

MA SE I DIRITTI NATURALI SONO DELL’UOMO, QUELLI UMANI SONO DELLA NATURA?

Guardare i manifestanti che attraversano le vie del centro è sempre un’attività struggente. Mi emoziona quell’assortimento di umanità, che d’improvviso cancella competizione e differenze per cantare in coro. Forse sarebbe più efficace incrociassero le braccia, boicottassero e sabotassero i prodotti delle multinazionali da cui dipendono o facessero finta di lavorare, ma il conformismo viene indottrinato come una virtù e il risultato è che il dissenso diventa una goliardata con tè alla fine della marcia.

I diritti non si chiedono, si prendono. Essi appartengono all’individuo in quanto tale. Quando mancano è perché qualcuno se ne è appropriato e rivendicarli significa legittimare l’abuso. Solo la lotta in tutte le sue manifestazioni possibili, seppur non risolutiva, restituisce dignità all’offeso. Una reazione mai violenta per evitare che il più forte si esalti nel reprimerla, però decisa, determinata, efficace che lo danneggi dove più gli preme: il profitto.

Ancor meno vanno reclamati quando l’usurpatore è lo Stato. Ogni sua concessione è sempre un credito che prima o poi viene riscosso. Si definisce diritto, infatti, quel potere di agire o essere, concesso e garantito dall’ordinamento. Ovverosia non esiste finché una norma non ne consente l’esercizio. E lo consente non perché l’individuo è nu bravo guaglione, ma in cambio di un tributo. Detta in altro modo: se i diritti sono innati, per disporne bisogna pagare. Chiamano progresso il loro riconoscimento, ma è una delle varie forme di sofisticazione del mercato.

E poiché l’anarchico disprezza le logiche mercantili, se ne appropria e li esercita senza vincoli. Osservando divertito gli altri che continuano a comprare ciò che è loro per natura.

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Sarebbe un errore attribuire questo artificio mefistofelico a Hobbes, Locke e compagnia cantante. Vero che il contrattualismo ha istituzionalizzato la sovranità statale, ma la pratica del più forte che concede protezione, privilegi, potestà in cambio di proibizioni, doveri e prestazioni è vecchia come il Potere. Il dominante non dominerebbe se il dominato non fosse accondiscendente. E il solo modo per renderlo tale è illuderlo che l’obbedienza gli consenta di partecipare al banchetto dell’oppressore.

Per sanare l’arbitrio già Aristotele distingueva fra un giusto che non viene riconosciuto, quello così detto naturale, e un giusto che viene stabilito, quello legale. L’uno che opera dappertutto1 e in ogni tempo2, l’altro che ordina inderogabilmente. Il filosofo riconosce la necessità di una giustizia altra rispetto a quella ufficiale, caratterizzata da regole comuni preesistenti, necessarie e universali, spesso non coincidenti col diritto positivo. Ẻ l’embrione del giusnaturalismo che concepisce un diritto ispirato alla giustizia e all’equità, non mutabile in base al contesto e al tempo, immediatamente percepibile anche dal singolo, la cui moralità prevalga rispetto alla norma cogente, che invece subisce le debolezze, i pregiudizi, gli interessi, i limiti della natura umana.

Il concetto verrà ripreso qualche secolo dopo. Tommaso D’Aquino lo reinterpreta affermando che esiste una legge superiore di derivazione divina che manifesta l’ordine cosmico a cui la ragione accede per capire cosa è bene e cosa è male. Un insieme di principi etici generalissimi, definiti da Dio con la creazione, che condizionano il legislatore nella formulazione del diritto positivo. Per cui se la legge umana corrisponde a quella naturale, cioè di Dio, è vera legge e tutti debbono rispettarla perché buona e giusta3.

Bisognerà aspettare un bel po’ prima che gli illuministi compiano una vera e propria rivoluzione copernicana4. Dopo Grozio, che ancora riconosceva la fonte divina, il giusnaturalismo razionalistico intriso di individualismo affranca il diritto naturale dai dogmatismi religiosi e lo restituisce alla ragione. Con l’uomo al centro del mondo e tutto che gli ruota intorno, non c’è bisogno di scomodare il trascendente. Basta la natura razionale5 di un mediocre governo.

Nasce così lo stato di diritto per cui la legge è esercizio di una funzione pubblica e diritti e doveri diventano il retto e il verso di una medaglia6. Si apre l’epoca delle costituzioni borghesi, come Marx definisce le dichiarazioni che garantiscono nero su bianco la vita, la libertà individuale, l’autodeterminazione, il giusto processo, l’esistenza dignitosa, la salute, la libertà religiosa e di manifestazione del pensiero, il voto, eccetera. Un costituzionalismo che prolifererà fino alle varie Dichiarazioni Universali del XX secolo, la cui ombra oscura ancora oggi, quando parliamo di diritti di terza e quarta generazione perché abbiamo dimenticato quelli della prima.

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Gli ordinamenti giuridici moderni hanno quindi recepito principi e valori universali. Ma questi possono essere definiti jus naturale?

La risposta è no.

Intanto per un vizio semantico. Se parlo di diritto naturale considero che siano attinenti alla natura intesa nel suo complesso, non a specifiche peculiarità. Invece sia i principi fissati dal giusnaturalismo che quelli statuiti nelle costituzioni riguardano esclusivamente l’uomo decretando una serie di limiti a chi esercita il potere. Il proposito è sacrosanto e sancirlo è stato un merito, ma non si può sottovalutare che la natura, quella vera, intesa come complesso di molteplicità che abitano la terra, sia completamente ignorata, abbandonata alla discrezione di chi può decidere se e come sterminarla. Né si può sostenere il contrario affidandosi al generico richiamo costituzionale alla tutela dell’ambiente delle biodiversità e degli ecosistemi7. Come prova la continua, nonché impunita, attività predatoria e distruttrice perpetrata in nome del profitto o per sadico divertimento. Ne consegue pertanto che i diritti naturali sono semplicemente diritti umani, l’ennesimo prodotto della visione antropocentrica del mondo che permea ogni attività antropica.

Inoltre essi mutano nel tempo adattandosi al contesto sociale di riferimento. Quelli della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948 non sono gli stessi della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino del 1789, ad esempio. Anche la natura è cangiante, ma rimane sempre eguale alla propria unicità. Per cui se cercassimo dei principi generali ad essa riferibili, dovrebbero essere immutabili. Aggiungendo che i diritti sono previsti sotto forma di concessioni dalle costituzioni statali e che lo Stato è la più pervasiva manifestazione di dominio, si evince che rappresentano solo l’ennesimo strumento manipolatorio con cui assoggettare il sempliciotto.

Occorre pertanto cambiare prospettiva.

Bisogna tornare all’immanente, dove umano e non umano sono indistinti e la natura è fonte di riflessione ontologica. Più precisamente lo stato di natura, quella condizione armonica in cui entrambi si fondano e agiscono scevri da contaminazioni. Fra la vita organizzata e Dio, entrambi costrutti artificiali attraverso cui l’uomo e la sua comunità possono dominare il non umano, si sceglie la bestia8. Ẻ rinunciando a ciò che ci illudiamo di essere che possiamo diventare ciò che siamo realmente. L’incontaminato non è la fantasia di un passato remoto, ma la negazione del presente antropizzato.

Sono pertanto inutili gli approcci meccanicistici delle scienze e tutte le conoscenze acquisite che ambiscono a comprendere l’ignoto con l’unico scopo di dominarlo. La natura non è un orologio, tantomeno esiste l’orologiaio di cui parla Cartesio. Sarebbe pertanto un errore confondere la sua legge con quella fisica. Questa è una formula che rileva una conformità dei fenomeni dedotti e sperimentati, la prima è un principio supremo che pervade le cose del mondo. Esperimenti ed espressioni algebriche possono descrivere il caso, ma alla volontà si accede con il sentimento. Tutti ne dispongono. Più difficile è che sia sincero.

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Esiste una sola regola naturale: l’armonia delle cose.

La natura è l’insieme degli esseri viventi, animali, vegetali ed entità inanimate, che operano attraverso dinamiche acquisite, secondo un ordine che ne consente la conservazione e perpetuazione. Questa processualità infinita è la Volontà universale. Ogni organismo partecipa in base alle proprie attitudini, predisposizioni, abilità. E lo fa spontaneamente perché altrimenti non sopravvivrebbe. La singola volontà si realizza infatti sviluppando incessanti connessioni simbiotiche con l’alterità attraverso cui conosce la prospettiva dell’altro, che diventa propria, entrambe costituenti il tutto.

Tale partecipazione non è indotta dalla cultura, dalla religione, dal diritto in quanto l’essere è cosciente del giusto. I non umani non hanno bisogno di pensare e scegliere, sono guidati dalla volontà istintiva in quanto sanno cosa è bene e cosa è male ed è bene conformarsi all’ordine naturale. Mentre infatti la ragione è sempre funzionale, decido questo per guadagnare quello, animali e piante vogliono solo esistere. Attraverso i sensi, il linguaggio, la condotta sviluppano rapporti di affettività affinché il benessere personale coincida con quello dell’altro e insieme si eternizzino nell’ecosistema in cui vivono.

Un equilibrio spontaneo dove anche la violenza è funzionale: si preda o si reagisce ad essa per sopravvivere. Il lupo mangia il vitello non per dispetto, ma per conservarsi. Quando l’orso lo attacca mentre riposa non è che è invidioso perché non dorme da giorni, ma perché ha fame. Il loro istinto è il medesimo delle mandrie di antilopi che si riuniscono per difendersi dai felini, dello stormo di uccelli che si protegge dal rapace, delle piante che si scambiano informazioni per trovare i nutrienti o l’acqua o che usano gli insetti per impollinare in cambio del nettare o i volatili per spargere i semi in cambio di un luogo sicuro in cui costruire il nido.

Fondamentale in natura è pertanto che gli esseri non interferiscano in questa armonia. Ogni alterazione dell’ordine causa sempre sofferenza, spaesamento, isolamento, danno. I non umani ne sono coscienti e si adattano spontaneamente. Per l’uomo invece il progresso, la crescita, la modernità, l’utilità, ogni sciocchezza è buona per giustificare lo sterminio di una specie, l’inquinamento di un territorio, la distruzione di un ecosistema. Sana l’ossessione della propria precarietà creando falsi idoli, che corrompono l’autenticità indispensabile al bene comune. Con l’effetto che il suo massimo benessere è dato dal mantenimento dello stato di disforia in cui tira avanti.

La sola cura contro la corruzione della società del dominio è rinunciare alle sue perversioni e immergersi nello stato di natura. Riappropriarsi del sé in un ambiente dove ogni organismo sovrano si realizza spontaneamente cooperando con gli altri affinché la dignità del singolo sia estasi condivisa. Ẻ nel tripudio selvaggio dei sensi, nella gioia della sopravvivenza, nell’identità col tutto, che l’essere può vivificare in eterno.

Finora l’umano non l’ha capito. Se vuole sopravvivere però dovrò imparare molto presto.

NOTE

*1 Aristotele, Etica Nicomachea.

*2 Digesta o Pandectae, 533 dc.

*3 Tommaso D’aquino, Summa Theologiae, 1265-1273.

*4 Norberto Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi, 1990.

*5 Grozio, De iure belli ac pacis, 1625.

*6 Norberto Bobbio, ivi.

*7 La costituzione Italiana all’art 9 comma 3 afferma: La Repubblica tutela l’ambiente, le biodiversità e gli ecosistemi anche nell’interesse delle future generazioni. La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali”. All’art 41 comma 2 aggiunge che l’attività economica non possa svolgersi in modo da arrecare danno all’ambiente.

*8 Per Aristotele si acquisisce dignità attraverso la vita organizzata istituzionalmente e “chi non è in grado di entrare nella comunità”, la polis, è “di conseguenza o bestia o Dio”. In Aristotele, Politica, in Opere, Laterza, 1973.

 

 

 

IMPROCRASTINABILE

Si dice improcrastinabile di una cosa che non può essere differita. Va fatta qui e ora, altrimenti il danno sarà talmente grave da non poter rimediare.

Ecco perché sostengo che l’anarchia sia improcrastinabile.

Per salvare sé e il mondo l’uomo non ha alternative a rifiutare la società così detta civile, abbandonare le sue deità ed edificare una realtà completamente nuova. Senza profitto e senza l’ossessione dell’accumulazione può edificare quello stato di natura in cui libertà ed eguaglianza sono pratiche ordinarie e la simbiosi con l’ambiente è principio vitale.

L’uomo ormai stagna in luoghi putridi di vizi, menzogne e malversazioni, dove conduce esistenze talmente tossiche che ogni droga è buona pur di non pensare. Si affanna compulsivamente per soddisfare bisogni inutili e delega il resto a fantomatici esperti che si arricchiscono grazie alle sue nevrosi. Ma, soprattutto, se socializzando si trasforma nel servo fedele di cui il l’ordine ha bisogno per mantenere i privilegi, intimamente è una personalità evitante che interagisce per manipolare, sfruttare, dominare al solo scopo di conseguire un tornaconto che dia un senso al nonsenso.

Anche nello stato di natura l’uomo pensa a sé. Ma è un sé per gli altri. Il suo interesse è rivolto alla salvaguardia della vita personale e del gruppo di appartenenza e all’appagamento dei bisogni necessari per i quali basta soddisfare la propria fame sotto una quercia, dissetarsi al primo ruscello, distendersi sotto lo stesso albero che ha fornito il pasto1. Nonché alla conservazione, protezione e cooperazione con l’ambiente con il quale è talmente amalgamato da creare un unicum di relazioni intime, affettive e di condivisioni imprescindibili al benessere comune.

In natura infatti la terra dona in abbondanza. Non c’è proprietà. Non c’è profitto. Le eccedenze sono considerate inutili e se vengono prodotte si pensa a come distribuirle. Ognuno soddisfa le priorità biologiche, fisiche e mentali, e poi si dedica alla condivisione delle attività con gli altri membri del gruppo, al gioco, allo studio, all’ozio, che non è infingardaggine ma quella condizione di quiete fisica e psichica che concilia lo spirito con l’armonia circostante, alla tranquillità mentale, alla contemplazione attraverso cui partecipare al tutto.

Se la società della morte indottrina a non avere alternative affinché il cambiamento sia temuto e la soggezione accettata, il libertario che vive nello stato di natura si abbandona alla mutevolezza delle cose e in essa trova la ragione della propria esistenza. Negato il profitto, rinuncia alle frivolezze, alle illusioni, ai sacrifici, alle vessazioni che esso impone. Con spontaneità selvaggia possiede la profondità dell’esperienza. Non ha bisogno di artifici che compensino la sua finitezza. Tantomeno ricorre a simbolismi rassicuranti. Ẻ nella spiritualità che conosce se stesso. Grazie alla contemplazione, alla percezione, alla condivisione sensuale, all’identificazione simbiotica, apprende la verità. E la verità è che ogni essere del mondo esiste per consentire la perpetuazione della vita, quella processualità inesauribile in cui perdersi dolcemente.

Un’elevazione che non si deve confondere con il fideismo idealistico perché le verità artefatte sono sempre spudorate menzogne2, né con l’ingenua immaterialità. Ad eccezione delle persone aride, chiunque possiede il senso del trascendente, cioè la percezione di una volontà o realtà superiore a quella umana. Tutto sta nel concepirla al di là di questo mondo oppure, come fa l’anarchico, afferrarla qui e ora attraverso l’esperienza personale. L’azione libertaria è immanente e consiste nell’instaurare relazioni simbiotiche con gli esseri del mondo. Una fusione diretta, vera, concreta, conseguenza di una metamorfosi spirituale che ha la dolcezza di un frutto maturo, la freschezza del vento del nord o il conforto di una chioma rigogliosa. Non può essere bramata, tantomeno indotta. Così fosse, infatti, si manterrebbero gerarchie che, presto o tardi, riprodurrebbero le distorsioni della società del dominio. Deve essere volontaria, spontanea, istintiva. Solo così scalda il sangue, accappona la pelle e, perché no, commuove.

«Che fai, piangi?»

«Ma no… sono solo felice!»

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Non esistono soluzioni transitorie. Quelle proposte sono palliativi. Se non addirittura leve propagandistiche per arricchire chi sta provocando la catastrofe. La società del dominio è distruzione, nichilismo, alienazione, disumanizzazione e inesorabile estinzione. Non si tratta di come e perché essa avverrà, ma quando. Se l’umanità non vuole dissolversi, deve evolvere. E per evolvere deve abbandonare le fissazioni, gli inganni, le depravazioni, i pregiudizi che la schiavizzano per appropriarsi del sé e condividerlo con le molteplicità. Deve avere il coraggio del nuovo inizio e la fierezza del guerrigliero. Deve abbandonare la società del dominio e fuggire nella natura selvaggia. Solo in un ambiente privo di interessi materiali che oscurino l’istinto e in cui la volontà possa esprimersi pienamente, riuscirà a creare le infinite connessioni affettive attraverso cui partecipare al tutto. Deve diventare maestoso come un albero, libero come un uccello, empatico come un delfino, cooperante come una formica, appagato come un orso dopo che si è pappato tutto il miele. Deve diventare natura! Come peraltro già sarebbe, se non lo avessero educato che fa più trendy atteggiarsi a stronzo egoista.

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Non fosse che in una società che annulla gli istinti, rinunciare ai confortevoli artifici a cui si è assuefatti può sembrare un rischio anche per il più convinto dei libertari.

Per questo in molti di loro continuano ad alzarsi la mattina per andare in fabbrica o in ufficio, consumano beni offerti dal mercato, usano la tecnologia, seguono i cliché sociali, e così via. Un adattamento che è pur sempre accettazione dell’oppressione. E così il ribelle moderato, pur essendo cosciente di sé, al sé rinuncia. Vive la condizione del dissidente, al massimo del disertore, adattandola al contesto in maniera da non subire le conseguenze dell’emarginazione, del disprezzo, della punizione. Di fatto è e sarà un incompiuto. Anche quando intraprende una lotta personale contro il sistema con azioni antagoniste oppure trova affini con i quali costituire comunità volontarie, autogestite, autonome cessando ogni contribuzione al tiranno, se compresso in una realtà corrotta, viene corrotto a sua volta.

Un modello di questo affrancamento si è visto durante la pandemia allorché i governi hanno isolato le popolazioni per giustificare le loro terapie criminali. Sono nati spontaneamente gruppi di cittadini che lavoravano, si assistevano, si coordinavano clandestinamente nell’interesse comune in barba alle prescrizioni. E quando è stato imposto l’inoculamento del siero sperimentale, hanno preferito la vita alla morte. Si è trattato di qualcosa di straordinario, cancellato dal ritorno alla normalità. Perché quando all’entusiasmo ribelle non si affiancano progetti di vita condivisi, la fiaccola si spenge e si fa nuovamente buio.

Un altro esempio di separazione dall’ordine costituito è la pratica del collettivismo agrario3 attraverso cui si realizza una concreta armonia fra individui e ambiente. In esso il legame inscindibile con la terra porta ad una gestione autonoma del bene comune in cui ogni famiglia partecipa senza ingerenze alle vicende dell’altra condividendo i medesimi diritti, benefici, doveri, secondo accordi liberamente definiti. Anche in questo caso, però, benché la rottura sia pratica e la complicità sia attiva, ora la soverchiante egemonia monoculturale, ora la mercificazione globalizzata tarpano le potenzialità sovvertitrici rendendo l’alternativa un mero fenomeno locale.

Stessa cosa avverrebbe se la società del dominio accogliesse alcuni principi egualitari. Supponiamo che venga garantito in maniera universale un profitto di base minimo così da rendere il lavoro non più un mezzo di sopravvivenza. Le persone che ne beneficerebbero sarebbero tutt’altro che libere. Dipenderebbero dal Potere e obbedirebbero alla sue imposizioni, quantomeno per riconoscenza. Un po’ come oggi avviene per i dipendenti pubblici, i burocrati, i funzionari, e tutti coloro che collaborano con l’oppressore per non perdere i propri privilegi. Senza considerare che la gerarchia fra chi mantiene e chi è mantenuto istituzionalizzerebbe le differenze sociali cancellando quell’ipocrisia che ogni tanto rende la democrazia più umana della tirannia.

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Se deve essere cambiamento, deve essere personale e deve consistere nell’abbandono radicale dell’ordine costituito. Quando infatti i principi libertari si insinuano in un contesto coercitivo, non è sufficiente difendersi dalle sue manipolazioni, reagire alle sue repressioni o rifiutare le sue perversioni. La sua azione prepotente e soffocante impedirà sempre di vivere nell’armonia che è nell’opera d’arte riuscita4.

Ecco perché arriva il momento in cui l’anarchico capisce che agire al suo interno implica esserne complici. Decide così con chi stare, accettando i rischi dell’insubordinazione, e allora abbandona ciò che è stato per diventare un uomo nuovo. Lo fa fuggendo nello stato di natura, cioè in quella realtà non antropica e autentica in cui la volontà finalmente pura si esalta nell’identificazione con i suoi elementi. Un ambiente appartato e nascosto, scevro da coercizione, superfluità, dovere, in cui abbandonarsi agli umori, agli odori, ai suoni, ai sensi. Dove contemplare e riconciliarsi. Dove la diversità attizzino la creatività istintiva. Dove non vergognarsi delle nudità. Dove sporcarsi di terra. Dove il pensiero sia fantasia suggestiva e non pragmatica sistematicità. Dove condividere l’abbondanza e il tempo libero sentendosi parte del tutto anziché appendice di un meccanismo. Dove la comunione del bisogni e dei desideri escluda padroni, crimini, tributi, divisione del lavoro, quindi disuguaglianza e gerarchie. Dove celebrare il rinnovamento e la fertilità della terra. Dove intenerirsi davanti allo sguardo struggente di un cerbiatto o meravigliarsi ai colori sgargianti di un fiore. Dove la pioggia bagna le membra, il sole scalda lo spirito, il cielo e la notte accompagnano l’avventura. Dove erigere una dimora sicura e confortevole, sostentarsi con ciò che si raccoglie e caccia, vivere l’esperienza profonda della simbiosi spontanea. Dove salire sul pendio e gridare all’infinito quanto è bello essere vita.

Non è poi così difficile. In fondo, se ci pensi bene, per milioni di anni gli esseri umani hanno vissuto da anarchici.

NOTE

*1 Jean Jacques Rousseau, Discorso sull’origine della disuguaglianza”, 1754; Henry David Thoreau, Marietti editore, 2019, scritti nel 1863.

*2 Kurt Vonnegut, parlando del Bokonismo, la religione immaginaria creata nel suo libro Ghiaccio Nove del 1963, riferendosi ad essa, ma con l’intento di estendere il concetto a tutte quelle esistenti, afferma: “tutte le verità che sto per dirvi sono spudorate menzogne”.

*3 Tipo la Comunità delle Regole di Spinale e Manez, disciplinata con legge provinciale 28.10.60 n 12 e Statuto del 1964.

*4 Federico Fellini, La dolce vita, 1960.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

COS’E’ LA FELICITA’

Il Potere si è fatto furbo: non ordina, seduce. Promette benessere in cambio del corpo, necessario per lavorare, e della mente, necessaria per consumare. Con una mano aliena in fabbrica, in ufficio, in strada o dovunque paghino tre soldi da dissipare in consumi imposti ed estorsioni legalizzate, nell’altra tiene la caramella dell’accettazione sociale con cui premia chi si illude di realizzare la propria felicità se genera quella del più forte. Intanto l’economia si frega le mani, la politica è sempre più lorda di pervertimento, la massa affonda nella melma compiacendosi del suo sapore.

La chiamano socializzazione, ma è l’espediente attraverso cui controllare l’individuo. E per chi disattende il dovere di dissolversi in essa, quei pochi recalcitranti isolati, disprezzati, emarginati dalle sue dinamiche comandate, i mastini sono sempre pronti. A qualcosa dovranno pur servire!

Aveva ragione La Fontaine quando diceva che il nostro nemico è il nostro padrone. Con il capitalismo tecno-consumistico però, esso non ha più un volto umano ma corrisponde al ruolo che ciascuno assolve per assimilarsi al branco. L’annientamento del sé in cambio del riconoscimento sociale quale unica fonte di felicità.

Ma è proprio necessario essere infelici per avere la felicità?

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Tanto per cominciare, si dice “sono felice”, non “ho la felicità”. Sembra una sciocchezza, ma le parole sono importanti e queste affermano che essa è uno stato personale che attiene all’essere, non all’avere. Ẻ un sentimento, non un bene di consumo che si può smerciare. Avere non è essere, ma sembrare felici.

Trattasi poi di uno stato soggettivo, per cui è difficile trovare sia una definizione universale, che un’uniformità di cause scatenanti. Può essere determinata da condizioni personali come l’età: una cosa può generarla a venti anni e non a cinquanta; lo stato sociale: l’affamato gioisce davanti a un tozzo di pane che invece disgusta l’abbiente; la personalità: io sto bene quando scrivo, Mevio quando fa i calcoli matematici. Solo per fare qualche esempio. E, come se non bastasse, muta pure per il soggetto stesso che, senza motivo apparente, oggi può rallegrarsi di un evento, che forse domani lo rattristerà. Siamo tutti così volubili!

Il capitalismo ha provato a standardizzarla omologando personalità, bisogni e desideri: un lavoro profittevole, maggiori comodità, l’arrivismo sfrenato, possedere più beni, consumare fino all’esaurimento, eccetera. E poi ha colonizzato ogni luogo col suo modello di società uniformata, reazionaria e conservativa affinché l’individuo fosse manipolabile, prevedibile, volontariamente succube. Ma trattasi di finzioni che provocano uno stato di sospensione momentanea. Uno stare bene determinato dal riflesso sociale, quindi eteronomo, non soggettivo. L’illusione distrae, non cancella il baratro. In questo modo, infatti, la volontà affoga in artifici consumati i quali deve crearne di nuovi in un circolo vizioso e senza fine. Non bisogna essere illuminati per capire che i beni, i traguardi, gli interessi, i desideri, gli egotismi, i profitti creano bagliori di appagamento temporanei e subordinati alla contingenza, pertanto effimeri.

Perché invece la felicità sia piena e vera occorre svincolare la volontà da qualunque determinazione indotta. Deve godere di ineludibile spontaneità. Spontaneità che per manifestarsi richiede un ambiente che non ne pregiudichi le potenzialità. Un luogo vergine dove l’individuo diventi padrone esclusivo della propria sovranità e finalmente si percepisca non come entità isolata che si barcamena per sopravvivere, bensì come elemento di uno spazio, di un tempo, di una materia mutevole, senza principio né fine. In esso non simula eternità, è eterno.

Spogliatosi della precarietà insita nell’essere e che la socialità amplifica, l’anarchico contempla senza condizionamenti, instaura connessioni sensoriali e intellettive, si immerge nella sostanza delle cose producendo identità empatiche. Ora è pianta, ora è animale, ora è roccia, ora è vento e così via in un’immedesimazione simbiotica fra molteplicità che diventa fusione nella comune partecipazione. Replicata l’esperienza all’infinito svanisce la relatività in luogo di una partecipazione esaltante, senza regole, né tempo, né confini, illimitata e indeterminata, in cui vivere, non sopravvivere, nella condivisione dell’unità in continuo, eterno divenire.

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Asserire che l’unica forma di felicità è quella data dalla relazione genuina con la natura che porta a fondersi nella sua immensità non significa essere primitivi della foresta o Baba che rifuggono la materialità per cercare l’elevazione spirituale. Vuol dire invece ripristinare l’equilibrio naturale che le artificiosità hanno pervertito.

La volontà si realizza quando sfoga gli istinti, soddisfa i bisogni, afferma le proprie possibilità, impara a relazionarsi attraverso l’autodeterminazione. E perché ciò avvenga deve evolvere in totale spontaneità, senza doversi adattare ai condizionamenti né obbedire alle imposizioni. Solo se completamente libera dalle necrofile subordinazioni mondane che ora la ammorbano, spesso ne alterano l’essenza, trova la propria identità. Per questo si sviluppa laddove niente è contaminato, guarda caso il suo ambiente primigenio.

Quanto gli artefatti creati dal consorzio sociale sono effimeri e fuorvianti, tanto l’ordine naturale è spazio entro il quale la volontà prende forma in tutta la sua integrità. La purezza si conquista con la libertà, ma la libertà si esercita e si mantiene quando si relaziona spontaneamente con le diversità creando connessioni armoniche. La Natura non è una fuga, ma lo stato in cui scoprire e realizzare se stessi. Una perfezione che, se condivisa con affini, è piacere sublime.

Riconoscere il primato dell’autenticità rispetto all’obbedienza coartata o automatizzata implica innanzi tutto rifiutare ciò che deprava le coscienze trasfigurando il sé: dalla logica del profitto alle idee fisse, al progresso barbaro e schiavizzante causa di ogni perversione. Divenuti padroni di se stessi, occorre dedicarsi a un’esistenza diretta ed empatica con l’ecosistema affinché l’alterità sia identità. Nessuna sofisticazione. Nessuna superfluità. Nessuna gerarchia. Nessuna prepotenza e malversazione. Nessun costrutto artificiale o obbligo prescritto da forze preordinate. Nessuna trasgressione alla propria indole. Ma entità interagenti, cooperanti e adattative che si relazionano in maniera egualitaria per compiere l’obbiettivo condiviso di perfezionarsi attraverso la biosimbiosi.

Quando la volontà opera in un ambiente non condizionato da pulsioni predatorie e distruttive, quelle esaltate da qualsiasi logica del dominio, è padrona di se stessa e istintivamente cerca l’identità nelle molteplicità contigue. Impara a connettersi ad esse, crea quelle interrelazioni che la portano alla percezione prima, alla fusione poi nel divenire universale della vita. Ed è nell’estasi dell’indistinta unità delle cose, che il dare e ricevere amore infonde felicità.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LA GRANDE BELLEZZA

Parlare di bellezza è difficile perché non esiste una definizione assoluta. E non esiste in quanto ognuno ha la presunzione di avere la propria. A ragione, peraltro. Perché quando mi emoziono innanzi a un’immagine, una melodia o un ricordo struggente, quell’esplosione di sentimenti è mia, solo mia, ed è una delle poche cose che posticipa il proposito di farla finita.

Tutti credono di conoscere il significato, ad esempio, di parole come libertà o eguaglianza, ma quando chiedi loro di applicarle scoppiano le guerre! Questo perché certi concetti oltre che astratti in quanto non conoscibili attraverso la realtà, o meglio, apofatici rispetto ad essa, sono anche iperonimi, cioè comprendono più significati. Quello di bellezza non è da meno e come sempre in queste circostanze meglio affidarsi all’empirica. L’esperienza personale può sembrare un parametro banale, ma cosa non lo è in una realtà peritura?

Primo caso. Osservo il Gruppo del Sassolungo e mi emoziono. Qui è semplice: la maestosità delle Dolomiti sprigiona l’immensa potenza della natura innanzi alla quale anche l’animo più arido percepisce la propria finitezza.

Secondo caso. Quando guardo C’era una Volta in America la storia irrisolta di Noodles e dei suoi compagni commuove sempre. Il motivo è evidente: i veri paradisi sono i paradisi che si sono perduti diceva quel mattacchione di Proust riferendosi alla nostalgia di ciò che è stato, poteva essere e non sarà più.

Terzo caso. Ascolto una musica di Chopin e la sua capacità di cogliere le venature degli stati d’animo tocca l’anima. Facile anche questa: era semplicemente un genio e come tutti i geni aveva dimestichezza con la cosa in sé.

Potrei proseguire ma ogni ulteriore esempio confermerebbe che la bellezza è un ménage a trois: l’attore interagisce con l’oggetto, quando improvvisamente appare l’emozione che si diverte col primo. Primo che apprezza assai consapevole che quel momento di autenticità sia precluso dall’ordinario, dove la realtà opprimente annienta la personalità asservendola alla funzionalità socializzante.

Si può pertanto definire bellezza ciò che consente alla volontà di percepire l’infinito a cui appartiene e di provare al contempo un senso di languido spaesamento dovuto al desiderio, quasi un bisogno, di congiungersi a esso. La sua percezione caratterizza l’attimo precedente l’estasi dell’unione, che può compiersi esaltando la volontà oppure svanire immalinconendola. Riferendola al tangibile, è la qualità che il soggetto coglie nell’oggetto grazie alla quale la propria identità può fondersi con esso acquisendo coscienza del sé quale parte del tutto in divenire. Una rivelazione potente che esplode nell’emozione, l’espressione più sincera della soggettività.

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Ogni entità è volontà che reagisce agli stimoli interni ed esterni in maniera fisiologica e cognitiva. Un animale gioisce, soffre, gode consapevolmente come l’umano. Idem le piante, benché la scienza lo neghi perché la ragione non comprende il sensibile. Quanto agli oggetti inanimati, vero che sembrano morti, sapessi però quanto calore c’è sotto la loro scorza dura!

La realtà è quindi costituita da infinite volontà interagenti, ognuna diversa dall’altra. E siccome il processo simbiotico è soggettivo, non può essere uniformato né concettualmente né concretamente. Di sicuro però vale il principio dell’hic et nunc: occorre che il referente sia un determinato oggetto, quello e non un altro; occorre che nel momento in cui il soggetto si relaziona ad esso, la volontà sia sensibile alle sue qualità.

Ẻ evidente che il mare visto da Capoliveri non è come la pozza che si forma intorno al tombino quando piove. Quindi è indubbio che alcune cose siano oggettivamente più belle di altre. Se però quando osservo il panorama non sono ispirato o sono distratto, mi lascia indifferente. Così come può lasciare indifferente chi non possiede la capacità o non riesce a coglierne la maestosità. Ecco perché la bellezza, oltre ad essere provocata, è casuale, istantanea e sempre personale.

Difficile capire se sia una virtù dell’oggetto a cui l’attore si abbandona, oppure se sia negli occhi di chi guarda. Ẻ la storia dell’uovo e della gallina. Chi è nato prima? Ancora una volta al dubbio soccorre l’esperienza: se per me è bello, anzi è un capolavoro, Il deserto dei Tartari di Buzzati, per mio nipote è un testo noioso perché non ci sono sparatorie o sesso sadomaso. Sono giovani, che ci vuoi fare! Se per me è bello il film Schindler’s List, qualcun altro invece lo detesta perché brucerebbe gli ebrei, oppure lo ama perché si indentifica in Amon Goth. Sono razzisti. Vorresti, ma mica li puoi eliminare! Indipendentemente dalle caratteristiche di ciò che provoca il turbamento quindi, se l’agente non possiede l’attitudine, se non percepisce la sostanza, se la volontà non si indentifica nella sua essenza, non c’è emozione, non c’è bellezza.

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Nonostante queste ovvietà, l’estetica, quella dottrina che studia il fenomeno artistico, si è spesso concentrata sul referente definendo una serie di criteri variabili nel tempo e nel luogo attraverso cui assolutizzarla in maniera da non subire l’ingannevole sensibilità dell’osservatore. Superando il gusto autoreferenziale l’oggettivizzazione prende peraltro due piccioni con una fava: da un lato l’individuo non si autodetermina ma si affida a chi gli dice cosa e come pensare e per cosa e come emozionarsi, quindi lo controlla. Dall’altra si crea una pletora di esperti che non basterebbero i campi di pomodori del meridione per farli lavorare tutti.

Per questi professionisti del concetto un corpo, un’azione, un’immagine è bella quando si conforma a parametri definiti. E così la condotta deve uniformarsi a principi morali condivisi, mi viene in mente l’intrepido eroe che afferra il suicida sul cornicione perché togliersi la vita è considerato moralmente riprovevole -capitasse a me lo denuncerei per violenza privata!-, l’opera pittorica deve possedere armonia, simmetria, prospettiva, il giusto chiaroscuro, eccetera; quella musicale deve considerare la frequenza, il ritmo, la metrica, la sinergia fra voce e andamento e così via; quella cinematografica deve rispettare canoni fotografici, narrativi, interpretativi, registici e bla bla bla. In questo modo il bello non è più una miccia sensuale che rischia di deflagrare nelle mani dell’inetto, ma viene ingabbiato nel giudizio, assimilato a un calcolo matematico, adattato a uno schema prefissato affinché anche gli impulsi siano prevedibili.

Eppure mi innamoro di una ragazza non perché ne ho misurato la simmetria degli zigomi, sezionato le labbra o soppesato le dimensioni delle poppe. Non credo comunque avrebbe molto appeal approcciarla con il metro da sarto o la bilancia! Mi innamoro perché guardandola negli occhi il pensiero svanisce, la fantasia si inebria di immagini e sensazioni vivaci e la mia volontà si scioglie nella sua. Il mio non è un giudizio, ma un sentimento spontaneo e irrazionale. Quello stesso che a volte mi fa commuovere, trepidare, eccitare.

La ragione non potrà mai conoscere il bello perché è sempre contaminata. Anche quando si vanta di essere disinteressata, è interessata a dimostrare la propria integrità. Predefinirlo significa manipolare l’individualità subordinandola a criteri mutevoli. Al massimo può interpretarlo o rappresentarlo. Al contrario invece l’istinto è quella attitudine che consente di cogliere le sfaccettature del mondo trasformandole in propellente della volontà. Certo, anche i sensi possono essere educati. Se vivo in un contesto che esalta l’armonia delle forme, probabilmente sarò propenso a preferire Leonardo a Kandinskij. Però il primo lo giudico in base alle sensazioni artefatte stimolate dalla ragione, nel secondo mi immergo e frullo fra i suoi elementi come una pallina nel flipper. Dove mi divertirò di più?

Per mediare fra queste posizioni antinomiche la cultura mercificante fa leva sulla maggioranza. Se opinione comune dice che la Gioconda è bella, deve essere bella per tutti. A parte che quel ritratto mi è sempre stato antipatico perché la tipa sembra tirarsela un po’ troppo, il conformismo favorisce le vendite ma porta alla mediocrità. La società civilizzata che su esso si fonda è la prova dell’annichilimento umano e la sua fiducia nel progresso è impegno a ad annullare i pochi sprazzi di genuinità rimasti. E non potrebbe essere altrimenti quando si impedisce all’essere di manifestarsi per quello che è. Limitare le potenzialità della volontà significa uccidere l’individualità. La ragione non accede pertanto al bello, ma lo distrugge. Diversamente, la volontà pura può coglierlo perché è desiderio di vita pulsante che si manifesta attraverso riflessi d’istinto.

Non la devi immaginare come uno spiritello che guida il corpo, giacché è impercettibile e indefinibile. Ẻ in tutti gli organismi e nell’unità costituita dai medesimi. Ẻ impulso primigenio di conservazione e perpetuazione insito in ogni entità. Essa diviene con l’unico scopo di fondersi nel tutto, la cosa in sé, a cui appartiene ontologicamente, quella processualità a cui si unisce sviluppando connessioni simbiotiche con le molteplicità.

Generalmente ciò si compie attraverso l’interazione fra organismi. Ma può avvenire anche quando la singola volontà percepisce la grande bellezza mediante la figurazione della sua unità. Ẻ il caso del panorama mozzafiato. Mentre il soggetto lo osserva, la volontà avverte la vitalità degli elementi che la costituiscono, coglie le infinite connessioni che la animano, si indentifica nelle loro trasformazioni, e muta essa stessa. Ovviamente l’interdipendenza non è reale, ma rilevarne la possanza la eternizza a sua volta, seppur fugacemente. E così il nostro amico vibra tutto emozionato!

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La bellezza salverà il mondo dice Dostoevskij ne L’idiota. Quale bellezza salverà il mondo? chiede il giovane Ippolit al principe Miskin2. La risposta che dà lo scrittore russo è l’affrancamento dalla tragedia della realtà cupa, enigmatica, violenta da cui il protagonista cerca di emergere.

Ẻ un inizio, ma non è sufficiente. La semplice fuga è fine a se stessa. Occorre creare le condizioni affinché la volontà possa perpetuare la vita, non esaltare la morte celebrata dalla società del dominio. In fondo che ci vuole, basta essere ciò che si è: natura.

La bellezza non è pertanto il vero aristotelico o l’idea platonica che diventa corpo, non è la perfezione divina o l’armonia delle forme, non è mai definita in funzione di un giudizio, né è astratta, ma è lo stato di natura. Quel luogo incorrotto in cui il pathos di Dionisio reifica ciò che Apollo ha negato. Solo in questo ambiente incontaminato infatti la volontà è libera di identificarsi nell’unità, insieme a esseri che fanno altrettanto.

Lo so, sembra impossibile che l’umano possa abbandonare le perversioni della civilizzazione per fuggire e ridefinirsi nella natura. Eppure ogni tanto palesa quelle attitudini selvagge che, se coltivate, eviterebbero la fine. Sono attimi fugaci, ma così intensi che talvolta rendono quel bipede spelacchiato quasi bello. Parlo delle occasioni in cui si monda dal torbido e si dona, collabora e ama disinteressatamente, allorché ogni suo impulso diventa sincero, l’esperienza una scoperta, il gesto solidale. Philia, eros, agape3 si combinano magicamente fondendosi nella stessa sostanza.

Forse pecco di ingenua fiducia. Di sicuro però, senza questo slancio evolutivo verso l’autenticità, l’umanità non ha più ragione d’essere. Ẻ un peso per se stessa e un danno per le infinite specie che vogliono vivere. Estinguersi a causa di un meteorite sarebbe triste ma accettabile. Per colpa della stupidità dell’essere più involuto sulla terra sarebbe deprimente. E anche un po’ umiliante.

NOTE

*1 Agostino, Soliloqui, 1,3

*2 Dostoevskij, L’Idiota, 1869.

*3 Per i classici greci la Philia è l’amicizia, l’Eros è il desiderio romantico, l’Agape è l’amore spirituale.

 

ETA’ DELL’ORO

La famosa filosofa tedesca Lodetta Giustan affermava che la civiltà consiste nel processo di adattamento alle innovazioni tecnologiche succedutesi nel tempo. Poiché il loro scopo è sempre stato conseguire un utile, è pertanto corretto definirla come l’evoluzione delle pratiche mercantili che hanno determinato le trasformazioni umane.

In antitesi a questa concezione teleologica-utilitaristica, culture anche molto diverse fra loro oppongono quella che noi occidentali chiamiamo Età dell’Oro. Consiste in un tempo di prosperità e abbondanza in cui non c’è Dio, Stato, proprietà, leggi, lavoro, commercio, gli uomini vivono armonicamente senza odiarsi, sfruttarsi, competere, guerreggiare, guadagnare, condividendo la ricchezza della natura1. Poi nei vari miti accade sempre qualcosa che fa arrabbiare qualcuno, qualcun’altro comincia a dominare la terra, a guerreggiare con il vicino per appropriarsi della sua, si dà un nume che educhi dall’alto, crea un governo dispotico per mantenere l’ordine, colonizza nuove frontiere. Segue la rivoluzione scientifica, l’industrializzazione, fino al progresso tecnologico dei giorni nostri giorni. Insomma, non appena la natura viene sostituita dalla civiltà, gli umani diventano le merde che conosciamo.

E fra chi attende ricominci il ciclo, chi la provvidenziale redenzione, noi empirici registriamo che da quando l’uomo si è separato dalla terra, vivere non è più una gioia. Vero, prima indossava pelli, dimorava sotto le stelle e rischiava di essere sbranato dalle fiere. Oggi invece la civiltà concede il privilegio di nutrirsi di alimenti manipolati geneticamente, di abitare in confortevoli monolocali con vista ciminiere, di scegliere se crepare investiti da un auto, cadere con l’aereo o di cancro. Ma alla domanda se siamo felici, non sappiamo rispondere. E non lo sappiamo perché non lo siamo. Perché nonostante il progresso elargisca confort a ripetizione, ciascuno sa, e se non lo sa lo sente nel profondo del cuore, di essere una pantomima di se stesso.

I non umani non interferiscono sulla natura dello cose e quando lo fanno non modificano la sua armonia perché da essa traggono appagamento. L’uomo invece è così razionale che la distrugge per profitto. Per questo le dottrine a servizio del dominio concepiscono lo stato di natura non come una condizione evolutiva, ma come età nefasta e immorale rispetto alla quale legittimare l’ordine esistente. L’esempio più lampante è dato dall’illuminismo, i cui paradigmi fondano e influiscono ancora sulla cultura contemporanea.

Dopo la rivoluzione scientifica e la conseguente meccanizzazione industriale, era indispensabile plasmare la società in funzione del progresso tecnico. Chi deteneva il potere economico aveva bisogno di persone educate all’obbedienza, al lavoro, al consumo, quindi di un Leviatano che le forgiasse. E così i famigerati filosofi della ragione hanno stravolto il significato dello stato di natura, trasformandolo in quel mondo senza regole, caotico e pericoloso che ancora oggi suggestiona le menti dei sempliciotti inducendoli alla servitù volontaria in cambio di una parvenza di sicurezza. Hanno compiuto, come spesso accade quando occorre legittimare l’arbitrio, un’opera di propaganda che intorpidisse le coscienze e consentisse ai dominatori di perpetuare i propri privilegi.

Prima Hobbes ha affermato che quando le persone sono troppo libere e troppo uguali realizzano la guerra di tutti contro tutti perché l’uomo è un divoratore di altri uomini. Al che, per garantire l’ordine, sono costrette a stipulare un accordo in cui rinunciano ai diritti per trasferirli al Leviatano2. Con premesse diverse ma conclusioni affini, Locke ha sostenuto che nello stato di natura l’uomo è libero, eguale, riconosce i diritti innati, rispetta e fa applicare le leggi senza bisogno che qualcuno gli dica cosa fare. Poi però afferma che le persone sono volubili per cui è necessario un Principe a cui la comunità deleghi il compito di garantire la certezza della legge3. Su queste due versioni si fonda lo stato di diritto, il sistema giuridico che disciplina la società industriale e che in tempi di tecnocrazia si è fatto più repressivo, si sa mai i robot si ribellino.

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Fortunatamente se ogni epoca ha i suoi manipolatori asserviti, ha anche i suoi eversivi. Rousseau era uno di questi. In barba alla derisione dei colleghi, egli ripristina la dignità dello stato di natura affermando che in esso l’uomo era libero, eguale, nonché buono e solidale. Viveva con semplicità e non aveva ambizioni, ma condividere l’esistenza con il creato lo rendeva felice. Poi un giorno a qualcuno è venuto lo sghiribizzo di recintare un terreno. Ha approfittato degli animali che stavano al suo interno, ha sfruttato gli affini per coltivarlo. E siccome dominare lo eccitava, per evitare che altri si appropriassero dei suoi beni, si è inventato il famoso contratto sociale a cui tutti erano vincolati senza aver prestato consenso. E così si è istituzionalizzata la disuguaglianza4.

Il filosofo usa questa ricostruzione elementare quanto efficace per affermare due cose: la prima è che nello stato di natura l’uomo è pacifico, tollerante, collaborativo e rispetta le leggi innate in armonia con gli esseri del creato perché non esistono distorsioni che lo depravino. La seconda è che nel momento in cui qualcuno impone che la tal cosa gli appartiene e nessuno possa disporne, ovverosia quando sacralizza la proprietà, acquisisce un’autorità, cioè una posizione di privilegio, che si trasforma in potere diretto o delegato, cioè la possibilità di imporre cosa fare e cosa non fare, che poi diventa arbitrio, cioè agire nel proprio interesse soggiogando quello altrui.

L’outsider che tutti deridevano, è pertanto il primo pensatore dell’epoca moderna che in maniera laica attribuisce all’accumulazione la causa dei rapporti di forza che fondano la civiltà. Ma ciò che più affascina è che il suo stato di natura sia tutt’altro che una finzione giacché corrisponde alla condizione decritta nelle cronache dei gesuiti in cui vivevano gli indigeni dell’America colonizzati dagli europei. Ormai essi non esistono più perché sono stati sterminati in nome del progresso. Basterebbe però osservare i nativi che ancora abitano le foreste e quelli che vivono le estremità del pianeta per rendersi conto che gli incivili di ogni luogo ed epoca prosperano in pace e serenità finché qualche arrogante non impone i suoi modelli per sfruttare loro e le risorse del loro territorio.

Non è casuale che l’uomo abbia vissuto per millenni in una situazione di anarchia permanente. Come insegna l’antropologia non plagiata dal mercantilismo, finché non esiste la proprietà non c’è domesticazione, competizione, nevrosi, sfruttamento, supremazia, inquinamento, giurisdizione, e quant’altro caratterizzi la predazione civilizzante. L’uomo è nomade, le relazioni prevalentemente amicali. L’economia e i commerci vengono considerati pratiche superflue perché si produce per sé e gli scambi avvengono attraverso il dono. La cooperazione è conservazione e i conflitti rappresentano rituali di perpetuazione. Ciascuno respira, mangia e pensa con la natura, gioca e interloquisce con i suoi elementi e grazie a essi si sfama in abbondanza e si cura quando necessario. La profondità dell’esperienza esalta l’individualità attraverso la dissoluzione nell’unità. L’esistenza è sicuramente un rude esercizio di sopravvivenza, ma veder sorgere il sole è una gioia e vederlo tramontare una grazia.

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Ẻ in questo stato di natura che il libertario sente il bisogno di fuggire.

Ẻ come se, ormai esasperato dal mondo che lo circonda, sprofondasse sulla poltrona vecchia a cui è tanto affezionato. Afferrasse un foglio bianco, sopra il quale tirasse una linea verticale. Da una parte scrivesse “stato di natura”, dall’altra “civiltà”. Sotto la prima aggiungesse: pace, armonia, libertà, eguaglianza, solidarietà reciprocità, abbondanza, simbiosi, spiritualità, felicità… Sotto la seconda: guerre, sopraffazione, ingiustizia, distruzione, mercificazione, violenza, industria, globalizzazione, inquinamento, morte…

Sospira senza proferire parola. E comunque cosa potrebbe dire di fronte all’evidenza? Sa solo di non voler più fingere. Vuole essere uomo!

Rifiuta la sopraffazione, l’oppressione, il dominio, la distruzione che lo nutre. Vuole gentilezza, condivisione e fratellanza. Vuole godere dei diritti innati e desidera che anche gli altri essere viventi facciano altrettanto. Vuole abbandonarsi alla spontaneità irrefrenabile. Vuole esprimere gli istinti, le passioni, le pulsioni nella sua forma più impetuosa. Vuole creare relazioni con le molteplicità attraverso cui conoscere se stesso e partecipare alla processualità del tutto. Vuole essere selvaggio che si nutre di armonia, con la quale interagire adattandosi alle sue continue trasformazioni.

Straccia il foglio. La decisione è presa. Qui e ora altrimenti sarà la catastrofe. Se non quella del pianeta, la sua.

Dopo la botta d’adrenalina, lo coglie però la tristezza.

Da solo non potrà mai cambiare le cose ed è più facile finisca il mondo piuttosto che le persone si ribellino al dominatore. L’esperienza gli ha insegnato che se anche facesse saltare in aria infrastrutture, non lavorasse e non producesse, smettesse di consumare, togliesse i soldi di banca, rubasse ai ricchi per dare ai poveri, eccetera, verrebbe sempre il momento in cui un suo gesto, un banalissimo gesto, lo ricondurrebbe all’obbedienza.

Decide quindi di fuggire dove non può essere trovato e dove può costruire la propria realtà.

Con nonchalance calza le scarpe, indossa la giacchetta e il cappellino. Sistema la sciarpa davanti allo specchio. «Cara vuoi venire con me?» chiede alla moglie. «Andiamo all’Ikea?» lei gli risponde. Senza replicare apre la porta dell’altra camera: «Ragazzi volete venire con me?» chiede ai figli. «Andiamo al centro commerciale?» Non la chiude nemmeno. Al cane basta uno sguardo per balzare sugli attenti. Gli carezza le orecchie e insieme escono di casa.

Cammina, cammina e cammina. Attraversa le campagne coltivate. Raggiunge la collina. Comincia a salire finché non trova un bosco. L’aria si è fatta più fresca. Il sole balugina fra le frasche. Ẻ tutto un gracidio, un fruscio, un cinguettio misterioso ma eccitante. Continua a camminare finché non si perde. In un’altra occasione si sarebbe spaventato, ora invece gli sembra piacevole non sapere da dove è venuto e come tornarci.

Ẻ quasi sera e deve trovare un riparo per riposare perché il giorno seguente comincerà a edificare la propria esistenza in quel luogo incontaminato. Il fuoco lo riscalda, le stelle lo accompagnano e quel precotto di stramonio diluisce i pensieri, esalta i sensi, lo trasforma nelle molteplicità.

Mai era stato così libero!

L’indomani non avrà bisogno di produrre né coltivare. Niente divisione del lavoro, organizzazione gerarchica, prevaricazione. Potrà esprimersi senza conflitti e non avrà bisogno di sanare la finitudine con surrogati di felicità. Animali e piante sprizzano vitalità e l’aria è un turbinio di profumi, colori, sapori. Una molteplicità da far girare la testa. Gli è bastato incrociare uno scoiattolo, osservare una famiglia di cinghiali, sollevare lo sguardo e veder sorridere le chiome per capire che la natura provvederà a nutrirlo, a fornirgli un tetto sotto cui dormire, ad assicurargli le necessità essenziali, a condurlo nell’esperienza per essere esperienza a sua volta. Magari un giorno incontrerà un fuggitivo come lui e il giorno dopo un altro ancora e così via e insieme creeranno una comunità di umani e non umani che coesisteranno senza sopraffazione, senza obbedienza, senza umiliazione, senza violenza, ma ciascuno libero di essere se stesso insieme ad altri che lo sono già.

Chiunque voglia aggregarsi sarà il ben venuto. Si presenti però con l’umiltà della comparsa, che a renderlo attore ci pensa il creato!

Per chi è più timoroso, incerto, vile e preferisce la sicurezza dell’asservimento ai rischi della libertà, invece, non rimane che alzarsi con un lamentoso «ohioi!» dalla poltrona in cui è sprofondato, ciondolare verso la finestra, scostare la tenda e guardare il cielo. Attraversare gli strati dell’atmosfera, volare fino allo spazio interstellare e oltre i confini della galassia, perdersi nel vuoto canticchiando: “extraterrestre portami via, voglio una stella che sia tutta mia. Extraterrestre vienimi a pigliare, voglio un pianeta su cui ricominciare…”5.

NOTE

*1 Mito descritto da Esiodo in Le Opere e i Giorni, e ripreso da numerosi autori classici come Ovidio, Metamorfosi.

*2 Hobbes, Leviatano, 1651.

*3 Locke, Trattati sul governo, 1690.

*4 J. J. Rousseau, Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza tra uomini, 1755.

*5 Eugenio Finardi, Extraterrestre, 1978.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’ANARCHICO NELLA SOCIETA’ DEL DOMINIO

L’anarchia è un’attitudine, un sentimento che nasce nel momento in cui, di fronte all’ingiustizia, l’individuo decide di rimuoverne la causa e ristabilire l’ordine armonico naturale. Ma questo anelito libertario come può realizzarsi in un contesto prevaricatorio capitalista?

Non è un’iperbole definirlo il più nocivo assetto sociale emerso nel corso della storia umana1. Quale evoluzione moderna della logica del dominio in cui il più forte soggioga il più debole per il proprio interesse, a differenza dei precedenti non ha bisogno di ricorrere a dio, al retaggio, a qualunque astrazione metafisica per giustificare il suo arbitrio: approfittare degli altri per un tornaconto è semplicemente giusto. Che si tratti di governo e sudditi, di datore di lavoro e operai, di capo e collaboratori, di uomini e donne, di bianchi e neri, eccetera, il denaro, la proprietà e l’accumulazione definiscono il rango, cioè l’autorità da cui deriva il potere, che diventa arbitrio. Inevitabile che l’anarchico lo osteggi per non essere complice. Cosciente infatti che schiavizza le menti, deforma le coscienze e distrugge il mondo, nega gli inganni, i fanatismi, le perversioni comandate che lo eternano e si autodetermina creando una nuova prospettiva della realtà, delle relazioni, delle cose.

La tecnologia, ad esempio. Viviamo un’epoca in cui il benessere è sinonimo di comodità. E ci può stare visto che faticare non ha mai migliorato l’esistenza di nessuno. Non fosse che per realizzare prodotti tecnologici bisogna distruggere l’ambiente e sfruttare l’uomo. Al che l’anarchico si fa una semplice domanda: la sofisticazione giustifica i danni? Questione che in termini morali diventa: le compensazioni effimere scusano le sofferenze degli esseri umani e non umani? E si dà una risposta secca e decisa: no! No perché la dipendenza da pixel non è un motivo sufficiente per colonizzare e devastare ecosistemi, sterminare e schiavizzare popolazioni. Così come un autoveicolo non giustifica l’inquinamento o una cura sperimentale non motiva il sacrificio delle cavie. Vero che l’uno porta da un luogo a un altro in breve tempo e con i vestiti puliti, mentre la seconda può salvare vite umane, ma in cambio di quanta morte si ottengono questi privilegi?

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Le persone non sono merce da consumare e poi gettare quando non servono più. E la natura non è un ambiente da contemplare solo nella scampagnata domenicale. La realtà è il tutto e il tutto è composto dalle infinite molteplicità connesse fra loro. Un’armonia condivisa in cui i beni non sono più ossessioni capricciose che compensano la precarietà esistenziale generando falsa autostima, bensì ausili con cui soddisfare i bisogni primari affinché mente e corpo siano liberi di cercare la felicità nel mondo circostante. Se non assolvono questa funzione sono semplicemente inutili e dannosi.

Tale rivolgimento etico è possibile pensando e agendo in maniera divergente. Quando il profitto è la giustificazione logico-teleologica del dominio, l’antropocentrismo è il presupposto ideologico. Razionalizzato da Aristotele, elaborato dalle varie correnti cristiane e cristallizzato dalla scienza, la religione moderna, esso pensa il mondo come un’organizzazione gerarchica capeggiata dall’uomo che, in virtù del suo primato, può saccheggiare a piacimento e senza rimorso. L’anarchico sovverte questa prospettiva tassonomica e definisce una nuova eguaglianza fra umano e non umano. Attraverso l’esperienza sensoriale, emotiva, spirituale con la natura, si fonde con l’indistinto per partecipare al suo divenire. In questo modo l’equilibrio è connessione incessante, scambio reciproco e condivisione consapevole. Una rivoluzione che abbandona gli egotismi antropici e crea una dinamica caratterizzata da relazioni affettuose ed egualitarie fra intersoggettività attraverso cui fondersi nel tutto.

Cionondimeno finché risiede nella società del dominio è un dissidente, non un rivoluzionario che cambia l’ordine delle cose. E poiché il suo afflato libertario viene anestetizzato dal sistema, compensa la mortificazione con la lotta. Tre i suoi obbiettivi principali: il mercato che crea diseguaglianza, l’omologazione che sopprime l’individualità e il governo che protegge l’uno e incentiva l’altra.

Quanto al primo, il suo slancio disertore e sovversivo aspira a sviluppare un’economia clandestina fondata sui principi autarchici della volontarietà, autogestione, solidarietà, eguaglianza, cooperazione, equa partecipazione alla produzione e distribuzione, eccetera. Al contempo, però, realizza azioni continuative e selvagge, reattive e destabilizzanti, pianificate, coordinate, condivise, volte a destabilizzarlo per conquistare spazi di autonomia.

Fra le principali condotte si rilevano:

-Lo sciopero permanente e senza trattativa.

Se nessuno lavora, non c’è produzione. Se non c’è produzione, addio profitto dei Signori. E a cascata dei meschini opportunisti. Massima soddisfazione col minimo sforzo.

-Il boicottaggio, sabotaggio e contrabbando delle merci.

Vale quanto appena detto. Con l’aggiunta che, oltre al danno da mancato guadagno, l’impresa deve sopportare anche i costi di fabbricazione. Inoltre favorisce l’artigianato, l’orticoltura e altre forme di produzione personale e comunitarie in luogo della massificazione globalizzata. Il mercato deve essere dell’individuo e per la comunità, non di tutti nell’interesse di pochi.

-La rinuncia all’acquisto.

Da esercitare quando i beni sono prodotti con attività immorali come lo sfruttamento umano e ambientale. Penso all’agricoltura massificata, che usa senza scrupoli sostanze tossiche e lesive delle biodiversità. Penso all’allevamento intensivo, in cui gli animali vengono impudentemente torturati per tutta la loro esistenza. Penso alle merci fabbricate schiavizzando la manodopera o alla già citata tecnologia per cui si colonizzano e depauperano persone ed ecosistemi. Penso alla produzione industriale e globalizzata, dove la singola impresa inquina e danneggia quanto l’insieme degli abitanti di intere metropoli. Penso allo sfruttamento mentale, tipo quello che genera ipocondriaci disposti a vendersi per una pasticca. Che poi fosse di quelle buone!

-Gli assalti e aggressioni alle istituzioni, l’abbattimento di infrastrutture, gli attacchi informatici, il furto e la distruzione di beni, di attrezzature, di kwow how, e tutte quelle azioni brillanti ispirate al codice penale.

Si tratta di dimostrazioni efficaci, ma non per tutti. Oltre a una buona dose di intraprendenza, infatti, bisogna saper reagire ai mastini che non vedono l’ora di mordere e ai farisei che trepidano per avere l’occasione di mostrare la propria intransigenza.

-Cessare i rapporti con quegli istituti che alimentano il mercato e approfittano di esso per arricchirsi.

Chissà perché mi vengono in mente le banche!

Chiudere i conti, non usare carte di credito, non chiedere o interrompere i finanziamenti. Una volta destabilizzate, sparirà la finanza, l’industria non reggerà l’impatto e l’economia tornerà ad essere scambio faccia a faccia. Affrancarsi da questi strozzini è un atto liberatorio come un gesto dell’ombrello fatto di cuore.

-Senza dimenticare l’occupazione o squatting.

Occupare significa prendere possesso e disporre di ciò che per legge non appartiene. Iniziativa che, oltre agli evidenti riflessi pratici, possiede un altissimo valore morale giacché cancella l’istituto fondante il dominio: la proprietà.

Può avere ad oggetto beni in uso o abbandonati. Un esempio del primo sono i fabbricati aziendali conquistati per impedire la produzione. Poiché però la solerte violenza di Stato ne caratterizza la temporaneità, la sua funzione è più propagandistica che concreta. Più efficace è invece l’occupazione di siti fatiscenti, dismessi, abbandonati o incustoditi, che vengono restituiti a nuova vita per essere utilizzati in occupazioni artistiche, educative, produttive, come centro operativo per attività sovversive, oppure quale luogo in cui organizzare l’autogestione della comunità, senza tuttavia mai perdere lo spirito nomade.

 

Se queste ed altre azioni danneggiano l’usurpatore, indubbiamente possono anche procurare disagi al dissidente. Quando l’impresa non guadagna, egli non riceve il salario; quando non consuma, perde l’identità sociale; quando compie crimini può finire in gattabuia. Eppure, gli costa meno incorrere nella pena prevista per la disobbedienza allo Stato di quanto gli costerebbe obbedire, perché in questo caso sarebbe come se valesse di meno, diceva Thoreau2. Senza trascurare comunque che la comunità anarchiche forniscono sempre sostegno, collaborazione e difesa. Mica sono la collettività civile, che salvaguarda solo coloro che può sfruttare!

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Il mercato non è l’unico destinatario dell’azione anarchica. Privilegi e privilegiati non esisterebbero senza la compiacenza dei governi e della società.

Luogo omologante per eccellenza, quest’ultima è il mezzo con cui il Potere subordina la massa ai suoi interessi. Attraverso le tradizioni, le moraline, i pregiudizi, la standardizzazione conservatrice, aggiungo scienza, cultura e religione quali manifestazioni illustri del suo spirito conservativo spacciato per ipocrita progresso, approfitta delle fragilità individuali per plasmare alla servitù volontaria.

Difficile fare un elenco di azioni praticabili contro l’omologazione perché scelta, fini e modalità operative dipendono dal contesto e ogni realtà è un caso a sé. Innegabile, però, che la resistenza incessante e l’insubordinazione selvaggia siano le vie prioritarie per affrancarsi dal suo giogo e le comunità volontarie e clandestine siano lo strumento per rovesciare le sue strutture, disattendere le sue manipolazioni, opporsi ai suoi diktat. Insomma, se l’anarchia è creatività, la socializzazione è il luogo in cui sbizzarrirsi!

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Quando i costrutti ideologici, le lusinghe del mercato e i settarismi della collettività non sono più sufficienti a uniformare le condotte, ecco il governo. Magari ammantato con quel tocco di ipocrisia idealista per cui è dei cittadini e per i cittadini o di ineludibilità trascendente per cui senza violenza non si impedisce la violenza. Tanto i sempliciotti che credono alle favole o che riconoscono la dipendenza come condizione necessaria per la propria esistenza3 non mancheranno mai!

L’opposizione al tiranno deve essere razionale, mai aggressiva, sia a causa della sproporzione delle forze in gioco, sia per non generare nuovo dominio. In particolare l’anarchico disobbedisce attraverso un insieme di condotte attive o passive tipo:

-La trasgressione alla legge.

Ci sono i remissivi, che obbediscono perché gli viene detto di farlo; ci sono i sempliciotti, che nell’ossequio si identificano; ci sono i furbetti, che sfruttano la regola per interesse. Poi c’è il refrattario, che agisce secondo volontà. Egli non trasgredisce per sfizio, né perché è un sociopatico. Infrange la legge perché essa è un’imposizione arbitraria e… E non solo, ma questo basta.

-Non partecipare alla farsa delle elezioni.

Astenersi dal rituale autoreferenziale del voto significa innanzi tutto non considerarsi interdetti che hanno bisogno del tutore. Ma anche non collaborare con le istituzioni mantenendo intatto il diritto di ribellarsi alla loro arroganza, non contribuire alla pantomima inscenata dalle elitè privilegiate, disconoscere il governo che si alimenta di arbitri, raggiri, manipolazioni, favoritismi, malversazioni, ricatti, scambi, convenienza e chi più ne ha più ne metta.

Nel migliore dei casi chi vota è un illuso, nel peggiore un complice. L’anarchico non è né l’uno, né l’altro. Sa che l’uomo è imperfetto. Per questo vuole che nessuno abbia potere.

-Ignorare i servizi erogati dalle istituzioni.

Poiché lo Stato usa i diritti per creare servitù, diffidare, evitare, sfuggire alle sue lusinghe rende liberi. Peraltro qualunque prestazione esso fornisca realizza l’interesse di infami oligarchie che speculano sui bisogni umani stringendo la catena della schiavitù.

Nei casi in cui usufruirne è inevitabile, invece, prendere senza dare non è immorale ma solo reciprocità.

-Smettere di contribuire economicamente al suo mantenimento.

Senza giri di parole, non pagare i tributi. Le tasse versate per ottenere una prestazione e le imposte per contribuire al finanziamento di servizi collettivi sono una forma di pizzo con cui si alimentano i malaffari che perpetuano il Potere e nutre i parassiti del dominio. Il governo pretende di essere socio delle aziende, comproprietario dei beni, protettore dei risparmi, esattamente come la criminalità organizzata. Con due differenze: che i servizi di quest’ultima sono molto più efficienti dei suoi e che la sua estorsione è autocratica4.

 

Queste le attività che può svolgere l’anarchico non ancora fuggito dalla società del dominio. A parte quelle invasive o violente, che ho più volte criticato perché inutili, si possono sintetizzare nella non partecipazione alle sue attività. Nel momento in cui l’individuo si spoglia di ogni proprietà, non lavora, non consuma, non si indebita e non obbedisce ai suoi ordini, diventa un clandestino. Così sottrae consenso e priva il Potere del profitto indispensabile alla sua sopravvivenza. E applicando la non interferenza necessaria a garantire l’armonia delle cose, comincia a respirare un po’ di quell’aria fresca nella quale presto si immergerà.

NOTE

  • Bookchin, Per una Società Ecologica, Eleuthera, 2016;
  • Henry David Thoreau, Disobbedienza civile, 1849;
  • Judith Butler, La vita psichica del potere, Mimesis, 2013.
  • Argomento controverso quello dei tributi. Come nessun’altro tira fuori il frustrato che è in ogni moralista. L’elenco degli ipocriti è infinito e va dal sottoposto che lamenta di essere costretto a pagare illuso che altrimenti il salario potrebbe crescere, all’affarista per cui l’accumulazione è scopo di vita e  nessuno deve toccarla, al parassita che succhia per sopravvivere, all’aguzzino che senza evasori chissà come sfogherebbe il suo sadismo, all’intellettuale omologato per compiacere il proprio narcisismo, all’artista che ricorda la fame dei tempi andati, ai media che del clamore hanno bisogno per vendere, aumentare le inserzioni, avere profitto. Mannaggia, sempre a quel bastardo si torna!

 

 

 

 

 

 

 

DAL DOMINIO ALLA COMUNITÀ AUTARCHICA

Non ci giro intorno: finché le persone si identificheranno nel profitto, libertà ed eguaglianza rimarranno retorica. Maggiore è l’accumulazione, maggiore è il potere che ne consegue e, di conseguenza, chi ha di più prevale su chi ha meno, chi ha meno su chi non ne ha, chi non ne ha se la prende con gli immigrati!

Ironia a parte, gli squilibri umani, sociali, naturali che esso provoca dovrebbero essere sufficienti per disprezzarlo e dedicarsi a una nuova concezione di esistenza. Invece non è così. Le persone sono talmente narcotizzate dal desiderio di accumulare che si comportano come l’affamato davanti alla tavola imbandita, che afferra e divora qualunque cosa finché non sviene esausto. Mentre però a lui basta vomitare per riprendersi, la vita non consente seconde opportunità.

Di sicuro il bombardamento incessante messo in atto dal capitalismo ha raso al suolo i neuroni dell’uomo moderno. Ma la causa di tale dipendenza non può essere solo il condizionamento mediatico o il desiderio di emulare l’ostentazione dell’abbiente. Altrimenti non si spiegherebbero le infinite guerre fra miserabili che logorano l’umanità dalla notte dei tempi.

La vera ragione per cui l’individuo ha bisogno di identificarsi nella materialità è invece la necessità di compensare l’inquietudine data dalla finitezza esistenziale. Disporre di beni, ammassandoli o capitalizzandoli, ripristina l’autostima lesa dalla natura mortale. Padroneggiarli inebria di onnipotenza. La precarietà è un tarlo che perseguita anche il soggetto più superficiale e così l’uomo vive per possedere perché il possesso è il modo più immediato per dare un senso alla vita. Senza trascurare che consente di affrontare con maggior sicurezza la competizione sociale e con l’ambiente e talvolta gratifica pure, vedi la soddisfazione di graffiare il macchinone parcheggiato a cazzo o rifarsi il guardaroba eludendo la sorveglianza.

Nella maggior parte dei casi, però, al godimento di uno fa da contraltare la soggezione e la sofferenza di molti. E questo è un problema! Eppure il creato insegna che gli stormi confondono il rapace e le mandrie si difendono dal predatore. Per non citare le solite formiche, vespe e così via. Gli animali attivano forme di organizzazione collettiva nell’interesse comune. E fra le piante vige il medesimo principio antiautoritario attuato mediante l’interconnessione continua con cui le radici si scambiano informazioni e nutrienti. Se quindi in natura gli esseri applicano il mutuo appoggio nell’interesse comune, come dice Kropotkin, l’uomo sopraffà e distrugge per narcisismo. E se ne vanta pure!

La verità è che il desiderio di possedere beni imprigiona la volontà in gabbie effimere anziché consentirle di realizzarsi in tutta la potenzialità. Solo quando è libera di amare incondizionatamente, infatti, può unirsi alle molteplicità. Essere con, essere per, essere in in una metamorfosi spontanea in cui si rinnova nel continuo divenire della vita. Perdere l’egotismo per fondersi con l’ambiente e, nelle relazioni sociali, creare consorzi autogovernati e sinergici in cui ciascuno possa realizzare se stesso in una continua interconnessione col prossimo.

Comunità è la parola chiave per creare empatia, immedesimazione, contagio emotivo necessari alla fusione d’identità. Comunità con le entità circostanti. Comunità con affini. Fondersi nella realtà da protagonisti. Abbandonare l’interesse edonista che ostacola l’interazione armonica partecipando, al contempo, alle infinite manifestazione della vita affinché divengano proprie. ++++

Applicando il concetto alle relazioni sociali, la comunità non può che essere autarchica.

Non quella pratica dirigista che decreta l’intervento statale nell’economia mediante la regolamentazione del mercato e il controllo centralizzato degli scambi. Tipo il fascismo. Tantomeno quella socialista o comunista che, più o meno celatamente, hanno sempre guazzato nel mercato e nella prepotenza autoritaria. Parlo di autarchia anarchica, che spoglia il concetto del suo esclusivo significato economico per restituirgli l’antico valore filosofico di derivazione cinica e stoica. Dalla prima corrente riprende l’autonomia e il rigetto delle regole che impediscono all’individuo di conseguire la felicità. Dalla seconda che la padronanza del sé si raggiunge perseguendo una pratica ispirata al controllo delle passioni, da intendersi come capacità di godere in maniera vivificante e non autodistruggente, al rifiuto delle comodità artefatte e all’equilibrio dello spirito attraverso la saggezza, senza però abbandonare il piacere della relazione e della solidarietà.

Se colui che è padrone di se stesso non basta a se stesso non c’è evoluzione umana.

Si tratta di una scelta etica attraverso cui ridefinire i rapporti con gli altri, con la natura e con la propria coscienza. Un nuovo modello di autosufficienza dove non si fa economia, non si appropria e accumula, non si preda, ma produce per soddisfare i bisogni primari propri e altrui e condivide gli interessi senza imposizioni o regole, senza centri di potere e divisioni fra dominanti e dominati. E poiché deve essere volontaria affinché cambi il personale rapporto con la contingenza, prima ancora di cancellare il governo e le sue configurazioni, occorre eliminare le storture mentali. Solo chi è libero, cioè affrancato dagli inganni corruttivi, possiede la genuinità necessaria per assaporare l’estasi della comunione.

Non escludo che questo affrancamento possa avvenire in solitudine, dove però l’effetto presto sparisce nella malinconia del silenzio. Ẻ infatti nel gruppo che si esalta. Unità di intenti, parità di rango, pluralismo di idee, solidarietà vera realizzati in un confronto continuo e paritario di economia sostanziale in cui si sviluppano attività ancestrali come l’orticoltura, la selvicoltura, la pesca, l’artigianato e tutte quelle attività che non creano squilibri e non saccheggiano il mondo. La produzione deve concentrarsi sui beni necessari e poi cessare. Non esiste industria, fabbricazione di massa e il commercio è scambio gratuito di necessità. Il lavoro deve essere organizzato applicando il principio fourierano per cui il tempo va impiegato in attività diversificate: dalla terra al laboratorio, dal laboratorio alla scuola, dalla scuola alle necessità comuni e così via. Le eventuali eccedenze devono essere usate per favorire l’esportazione-importazione intercomunitaria dei prodotti basilari, o distribuite per garantire il minimo necessario a chi, per qualunque motivo, non può contribuire. Perché oggi a me è andata meglio che a te, ma domani chissà!

Il progetto è semplice come respirare in un’alba tersa.

L’unico ostacolo consiste nel rimuovere le contaminazioni che ammorbano la società del dominio, senza cui è impossibile crearne una nuova. Uno slancio consapevole che richiede il coraggio del divergente, la determinazione del giusto, la passione dell’innamorato. Non facili da trovare o esprimere in tempi mistificatori dove i dissidenti vengono ignorati, disprezzati, ridicolizzati, isolati, poi eliminati dal consesso sociale. Eppure basterebbe usare la ragione per riappropriarsi del sé anziché adoperarla per annientare il mondo. Abbiamo capito che in quello siamo i numeri uno, ora proviamo a esserlo dove conta davvero!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LA COMUNITA’ MEDIATRICE

Per l’opinione pubblica anarchico è colui che non rispetta le regole e avvinto da una sregolatezza innata o acquisita agisce fregandosene degli interessi della collettività. Un sociopatico, insomma. Di conseguenza la società anarchica è il far west dove ognuno spadroneggia un po’ come gli pare replicando il modello preconizzato da Hobbes a giustificazione del Leviatano.

Socrate diceva che esiste un solo bene, la conoscenza, e un solo male, l’ignoranza. A volte mi fa quasi tenerezza pensare quanto le persone siano masochiste!

L’anarchico, infatti, è consapevole molto più del manipolato e stordito conformista che un consesso sociale ha bisogno di disciplinarsi per armonizzare i diversi interessi. Rileva però due cose.

La prima è che finché esiste il profitto, finché le persone agiscono per un interesse economico, le relazioni sono rapporti di dominio-soggezione dove la sopraffazione e la violenza impediscono l’esercizio della libertà e dell’eguaglianza, rendendole mere leve propagandistiche con cui infinocchiare i sempliciotti. Il denaro infatti crea divisione fra chi ne possiede di più e chi meno, fra l’autorità e chi la subisce, sviluppando rapporti di forza che impediscono all’individuo di agire spontaneamente.

L’interesse è un virus annichilente. Spesso mortifero. Ma se gli effetti sono letali, la cura è elementare e consiste nel rinunciare ai bisogni artefatti per soddisfare unicamente quelli necessari. E poiché il mercato crea solo cose inutili, a questi pensa la natura. Semplice!

La seconda è che l’individuo non deve obbedire a regole stabilite da altri, ma autogovernarsi. Nessuna autorità può arrogarsi il potere di decidere al suo posto e punirlo se non rispetta le sue prescrizioni. Sia perché ciascuno ha le capacità per determinarsi autonomamente senza dover delegare ad cazzum persone che fanno l’interesse proprio e dei privilegiati che proteggono. Sia perché, qualunque disposizione eteronoma è un illegittimo strumento coercitivo creato dal più forte. In natura l’individuo è libero e nessuna entità artefatta può disporne di diritto.

Utopia? Non so se autodeterminarsi senza condizionamenti imposti lo sia più dell’ideale di uno Stato del popolo e per il popolo. Di sicuro la storia insegna che quest’ultimo è un mezzo di coartazione che reprime qualunque alternativa. Fosse democratico come dice di essere, consentirebbe alle comunità anarchiche di uscire dalla clandestinità e svilupparsi spontaneamente. No?

Disconosciuta l’oppressione eteronoma e le sue norme repressive, chiunque può scegliere il governo che preferisce oppure, come fa il bio-anarchico, agire spontaneamente nell’ordine naturale definito da norme ancestrali. Preso, infatti, coscienza di non poter continuare a vivere sotto un imperio che disprezza, negati i principi e i valori che lo giustificano e perpetuano, egli rifugge la società e trova nella natura non colonizzata il suo ambiente ideale. Qui conosce se stesso, si relaziona affettivamente con le specie che la abitano, si organizza autogovernandosi da solo o in compagnia in simbiosi con gli esseri con lo hanno accolto e produce quanto basta per soddisfare i bisogni primari attraverso uno scambio delle eccedenze non fondato sulla transazione, ti do un prodotto e tu me ne dai un altro, bensì sulla reciprocità del dono, quel dare e ricevere informale, non calcolato tipico delle relazioni familiari o amicali1. E poi cerca la felicità. Quella vera intendo. Non quella spacciata dalla propaganda per creare tossici in crisi di astinenza, ma il vivere coscientemente la simbiosi col mondo.

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La società è un fenomeno naturale e gli anarchici non contestano il bisogno di unirsi per realizzare l’interesse comune. Rifiutano invece che si strutturi su rapporti di forza definiti dalla maggiore o minore capacità economica dando vita a forme più o meno mascherate di plutocrazia.

Chiamano società del dominio questo sistema in cui il più forte prevale sul più debole e il rango è determinato dal denaro. In passato pensavano di eliminarla con azioni sovvertitrici. Parlavano di giustizia, equità, diritti. Nel tempo hanno capito che cambiando l’ordine degli addendi, il risultato non cambia. Vedi il socialismo, che ripropone il dominio con una maschera non meno mostruosa del capitalismo. Oggi, almeno i più illuminati, sono consapevoli che la prevaricazione è regola di convivenza finché l’uomo non si evolve in qualcosa di diverso. Un essere altro che sfrutta le proprie potenzialità primigenie non per narcotizzarsi nell’accumulazione, con conseguente violenza perpetrata per procurarsi lo stupefacente, ma per realizzarsi nell’armonia naturale.

Non credendo nella rivoluzione propongono una trasformazione spirituale, intima, prima ancora che sociale, in cui l’antropocentrismo materialistico viene sostituito da una visione fisiocentrica del mondo2. Hanno compreso, e alcuni vissuto, che solo l’interazione paritaria con l’ecosistema è gioia vera, non effimera. E che il benessere non può essere conquistato, ma vissuto nella profonda relazione con i suoi elementi. Una connessione accogliente, mai prevaricatrice, di cui l’armonia naturale è amalgama indispensabile.

Esiste un numero infinito di persone che sente il richiamo del soffio primordiale. Sono nascoste perché temono la repressione riservata ai dissidenti, ma quando casualmente si trovano, apprendono il piacere dell’eguale libertà e condividere l’identità è un atto spontaneo come un gioco.

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Ecco il motivo per cui chi ha scelto di vivere la biosimbiosi rifugge i luoghi asfissiati dal cemento, avvelenati dai miasmi del progresso, sfigurati dal mercantilismo, depravati dal profitto e soggiogati dal dominio.

La comunità diventa l’ambiente.

Ambiente che offre il necessario affinché ciascuno sia se stesso. Dove l’umano non è più dominatore, ma elemento della pulsazione naturale, che agisce nella consapevolezza che la sostanza che scorre nel suo corpo sia la medesima di una roccia, di un albero, o di un ratto.

Non edifica strade ma sentieri, né palazzi ma dimore. Non distrugge per sofisticare. Non accumula superfluità. Non combatte per depredare. Non domestica per dominare. Non fabbrica cose e ne desidera sempre di nuove. Non violenta, razzia, depreda, uccide per stupida avidità. Le sue azioni non inseguono il profitto, ma seguono i ritmi biologici celebrando il creato con la gentilezza di chi riceve un dono. Diventa finalmente uomo, cioè essere legato all’humus, la terra, in cui si perfeziona.

Così anche quando capita di dover risolvere questioni pratiche. Penso alla necessità di difendersi dai predatori, intendo il civilizzato non gli animali, così come la realizzazione di una dimora o un ponte, la definizione di attività comuni, l’ammissione di nuovi membri, la distribuzione delle eccedenze e quant’altro. L’assenza di interessi lucrativi, la partecipazione delle volontà, la distribuzione equa, la condivisa realizzazione nel tutto trasformano, infatti, i rapporti competitivi e rapaci della società del dominio in confronti paritari e sinceri. Dal dibattito si giunge alla decisione, sempre modificabile o revocabile. Generalmente è unanime, ma chi è in disaccordo può astenersi e non partecipare senza subire pregiudizi. La volontarietà che ispira ogni scelta non viene mai osteggiata purché non attui forme di dominio. E la divergenza non è mai motivo di conflitto perché l’interessato può sempre unirsi ad una comunità più affine.

Ma trovane una bella come la nostra!

Perché ciascuno è se stesso quando le persone non sono oppresse da regole imposte da altri, la comunione dei beni e la solidarietà esclude l’arroganza del più forte, la clandestinità e il nomadismo agevolano la creativa promiscuità, le decisioni sono personali e ciascuno partecipa come può, l’autarchia e il minimo necessario garantiscono la sopravvivenza e l’assenza di profitto assicura la convivenza pacifica ed egualitaria.

Per affrontare questo percorso liberatorio occorre coraggio. Non basta un animo attizzato dal fuoco della ribellione. Non è facile abbandonarsi all’oblio per trovare la luce e spesso la paura reprime l’istinto. Sono i lacciuoli personali quelli che asfissiano di più.

In questo caso l’estasi non è esclusa, ma non può che essere occasionale, data da rari momenti di fuga, scampoli di libertà nella quotidianità opprimente. Esplosioni di gioia intensa, a cui però segue l’estenuante disforia provocata dall’impossibilità di renderli permanenti. Per questo i libertari che ancora risiedono nella società del dominio lottano. Lotta che è identità ribelle nelle forme della diserzione, della disobbedienza, e dell’opposizione attiva per difendere l’uomo e il creato e infiacchire il Potere, sia mai che un giorno, stremato dai riottosi e depauperato delle sue risorse, si accontenti di governare i fedeli servitori lasciando i refrattari liberi di essere a modo loro. Una lotta che può essere esercitata personalmente, meglio in gruppo. Dopo tutto la natura stessa insegna che quando le prede si uniscono cacciano via il predatore. E se gli butta bene, si nutrono pure del suo cadavere.

NOTE

*1 Marvin Harris, La nostra specie, Rizzoli, 1991. Così dice quando parla delle popolazioni primitive.

*2 Da “phisis” che per i filosofi presocratici era la “realtà prima”: la natura. Quando si dice che non s’inventa più niente!

 

 

 

 

 

 

 

 

LA RIDEFINIZIONE DEL RAPPORTO CON LA NATURA COME PUNTO DI PARTENZA DELL’AZIONE ANARCHICA

Siamo carne, emozioni, ragione. Siamo volontà. Ogni essere vivente dal più al meno evoluto vuole vivere. La gazzella eviterebbe di scappare dal leone, ma corre veloce. Il leone preferirebbe sonnecchiare all’ombra di un albero, ma la insegue. Stessa cosa vale per l’uomo. Nonostante una capacità autodistruttiva superiore a qualunque altro essere, è disposto a tutto, accetta di tutto pur di soddisfare quest’istinto primigenio. Così perché la volontà di vivere non è un desiderio, né un sentimento o un bisogno, ma sostanza primordiale che accumuna ogni essere del mondo. Dalla natura proviene e alla natura torna per rigenerarsi in nuova forma.

Da principio la terra produsse la famiglia delle erbe e il verde splendore intorno ai colli… in seguito creò le stirpi mortali, che nacquero in gran numero. Perciò a terra a ragione ha ricevuto e conserva il nome di madre, poiché da se stessa creò il genere umano1. Da queste parole di Lucrezio l’innegabile verità che il creato è fonte, è casa, è necessità e piacere, è equilibrio, è l’assoluto nelle sue infinite, spettacolari manifestazioni. Se una vita più vicina alla natura ci porta più vicini alle verità2, come diceva Tolstoj, è solo perché siamo la stessa cosa.

Nonostante questo, l’uomo la domina, la altera, la usa, la distrugge, in un processo crudele, vigliacco e irreversibile di cui è fin troppo facile immaginare la fine. Siamo testimoni di una catastrofe e nessuno fa niente. Le persone sono sempre più inebetite. La politica insegue l’economia. L’economia si arricchisce approfittando dell’emergenza.

La sola speranza è data dalle poche, isolate menti ribelli che hanno capito, non accettano e combattono. Individui liberi che non si realizzano nella materialità e vivono in armonia, senza finzioni e attraverso continue relazioni di sympatheya con le cose. Un uomo nuovo che rifiuta il profitto, consapevole che esso genera autorità, da cui deriva il potere, che è arbitrio perché esercitato sempre egoisticamente. Persone che attuano un rapporto paritario e non dominante con l’ambiente, di conseguenza paritario e non dominante con i propri simili.

Il potere è sempre pericoloso, attira le cose peggiori e corrompe le migliori. Non ho mai desiderato il potere. Il potere è dato solo a quelli che sono disposti ad abbassarsi e raccoglierlo dice Ragnar a suo figlio Bjorn3. Anche il re vichingo aveva infatti compreso che per essere, bisogna non avere. Che si è liberi solo quando si è puri. E la purezza è immergersi nella realtà e divenire con essa senza condizionamenti.

La finitezza non può essere sanata con la sopraffazione. La volontà non diventa immortale se domina quella altrui. Può invece essere eterna quando si alza verso il cielo attraverso le ramificazioni degli alberi, affonda nella terra insieme ai vermi, si immerge nelle acque indorate dal sole, corre nelle praterie, riposa sulle rocce e si risveglia uomo.

Se non è determinata dal bieco tornaconto, essa può esprimere la propria creatività. E perché avvenga questo balzo evolutivo occorre che l’individuo cessi di essere homo faber, che si considera anima del mondo4, copula mundi dice Ficino4, e pensi e agisca come homo humilis, che concepisce la terra come geometria, come misura della vita5. Solo così i beni non sono più strumento di privilegio e arbitrio, ma mezzo attraverso cui conseguire l’equilibrio naturale nel quale interagire mettendo la propria soggettività a servizio degli altri esseri viventi.

E quando l’uno diventa tutto, tutto cambia. Spariscono i dannosi rapporti di forza che asfissiano la quotidianità: le relazioni diventano orizzontali, il lavoro si trasforma in prestazione con qualcuno non per qualcuno, l’autogestione favorisce la partecipazione alle decisioni, la cooperazione stimola lo svolgimento delle attività in maniera conviviale, a rotazione e tenendo conto delle capacità e competenze personali, la solidarietà garantisce il minimo necessario, l’equa distribuzione delle eccedenze e il fondamentale sostegno morale. E così via.

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Ma non basta. La consapevolezza identitaria e la pratica etica che ne consegue non sono sufficienti. Non è vero l’assunto di Max Nettlau per cui l’uomo vive libero e felice quando consegue l’indipendenza economica grazie alle condizioni di utilizzo delle risorse della terra e dei doni spontanei della natura nell’ambito di un’organizzazione volontaria6. Occorre che essa non sia condizionata dai retaggi della società civile. Perché come l’arbusto svigorisce e poi muore nel deserto, l’individuo si svuota in un contesto dominato dalla competizione e dal profitto.

Il dominio è un blob che asfissia e, in men che non si dica, ingurgita. Da una parte ci sono lo Stato, l’economia, la religione, il senso comune, che impongono le loro leggi, dall’altra l’antagonista decide personalmente. Lo scontro è inevitabile. Gli anarchici, tuttavia, hanno imparato sulla propria pelle che la suggestione del faccia a faccia col potere fa troppi lividi, così agiscono nell’underground. Non partecipazione alle sue pratiche, non collaborazione con le sue istituzioni, trasgressione alle sue regole. Dopo tutto non c’è bisogno dello Stato perché la società funzioni: la parte essenziale della vita sociale si compie al di fuori dell’intervento governativo, perché le cose in cui esso non ha ingerenza sono quelle che camminano meglio7. La società esiste di per sé quale umano esercizio di sopravvivenza ed è partecipe, efficiente, produttiva, solidale, stimolante quando non viene intorpidita dalle logiche del dominio.

Una volta che le comunità sono attive, strutturate e sviluppate autonomamente, seppur nel rispetto delle specifiche differenze, devono coordinarsi per disobbedire agli ordini del tiranno, sottrargli potere attraverso l’organizzazione di strutture indipendenti che assolvano funzioni sociali, creare meccanismi di protezione che sfruttino quelli prevalenti, e svilupparsi, per quanto possibile, senza vicoli territoriali in maniera da attaccare e fuggire come pirati. E innanzi all’inevitabile repressione, resistere e unire le forze per colpire il Mostro nei punti vitali sottraendogli profitto e autorità.

Depredato, fiaccato, indebolito dall’azione di infinite sovranità che si riproducono continuamente, pur di mantenere i propri privilegi, a quel punto l’oppressore potrebbe concedere il diritto di astensione. Riconoscere che l’individuo non sia più sottoposto alla sua autorità per nascita, ma possa scegliere liberamente se e come governarsi. A parte lo Stato e nonostante esso, possano cioè emergere raggruppamenti legittimati che operano sovranamente per conseguire scopi condivisi. Un sistema di multigoverno non necessariamente territoriale, sviluppato attraverso comunità collegate su base federalista che garantisca l’antiautoritarismo e le preservi dai rischi di isolamento e regressione, svincolato da potere centrale seppur non in conflitto con esso.

Non è il massimo, ma da qualche parte bisogna pur cominciare.

NOTE

1 – Lucrezio, 94 ac-50 ac, De Rerum Natura.

2 – Una vita più vicina alla natura ci porta più vicini alle verità di una dominata dalle complicate norme della legge e della moda, frase completa.

3 – Così parla Ragnar al figlio Bjorn nella serie televisiva Viking.

4 – Termine usato da Appio Claudio Cieco (350-271 ac) nell’opera Sententiae col significato di uomo che guida il proprio destino e ripreso dall’umanesimo in antitesi all’Homo sapiens, con l’intento di rendere il sapere non più esclusivamente speculativo, quindi fine a se stesso, ma pratico, cioè utile all’edificazione di una realtà funzionale all’uomo.

5 – Concetto espresso dal pioniere dell’ambientalismo Aldo Leopold, 1887-1948, Pensare come una montagna, Piano B edizioni.

6 – Max Nettlau, Alcune idee false sull’anarchia (1905) in Gian Piero de Bellis, Panarchia, D Editore, 2017.

7 – Errico Malatesta, Anarchia, Ed Anarchismo, 2013. Da cui ho tratto le sue citazioni presenti in questo articolo. Testo: la parte essenziale della vita sociale si compie anche oggi al di fuori dell’intervento governativo… le cose in cui lo Stato non ha ingerenza sono quelle che camminano meglio, che fan luogo a minori contestazioni e si accomodano per la volontà di tutti in modo che tutti ci trovino utile e piacere perché la vita quotidiana si svolge al di fuori della portata del codice ed è regolata, quasi inconsciamente, per tacito o volontario assenso di tutti, da una quantità di usi e costumi ben più importanti alla vita sociale che gli articoli del codice penale, o meglio rispettati, quantunque completamente privi di sanzione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

DECIDERE DI ABBANDONARE LA CIVILTA’ PER LO STATO DI NATURA NON E’ UNO SCHERZO

Quando parlo di stato di natura le obbiezioni di solito sono di quattro tipi:

C’è il possibilista con riserva per cui: «Ma come posso lasciare la famiglia?» Con la variante: «Ma dove vado?» oppure «Ma come faccio a…?» «Come fai cosa?» «Come faccio. Punto!» chiude stizzito la questione. C’è il pratico: «Ma nel tuo stato di natura come si campa?» «La natura dà tutto quello che serve!» «Tutto, tutto?» «Tutto!» «E la benza costa come da noi?». C’è l’interessato che ora fa il fatalista: «Capisco cosa vuoi dire, ma questo è il mondo!» «Il tuo, non il mio!» «E che vorresti fare, distruggerlo?» «Ma solo per ricostruire!». C’è il negazionista che, se morigerato: «Ẻ impossibile!» Se verace: «Per me sei fuori di testa!» Vorrei rispondergli che non è vero, ma se sono anarchico, forse un pochino a-normale lo sono davvero.

Pur con le proprie specificità ognuno di loro concepisce l’ordine esistente come unica alternativa possibile. Che siano scettici, complici o remissivi, non comprendono il cambiamento perché temono di perdere la miseria che dà un senso alle loro vite. Preferiscono adattarsi alla realtà e lamentarsi è il massimo del loro dissenso. Ma non li biasimo. Dopo tutto, anche i microcefali vogliono sopravvivere! Certo, sarebbe preferibile evitassero la presunzione del giusto e non impedissero di perseguire la felicità a chi non ha intenzione di arrecare loro alcun tipo di danno, ma fra tante specie perfette, ci stava che la natura ne creasse una che non lo fosse.

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Le persone sono abituate a ragionare per certezze e quando vengono meno le inventano. Al contrario il libertario sana il dubbio con l’esperienza. Non ha paura di negare l’ordine esistente. Lo scardina, lo erode, lo elude per creare il proprio. Non gli basta rifiutare il conformismo, la socializzazione, l’economia, il governo, il dominio. Deve distruggere per rifondare, con la consapevolezza che la vita è un continuo sperimentare, sbagliare, rimediare.

Se una volta infatti l’obbiettivo era il gran giorno in cui dalla rivoluzione sarebbe sorta un’umanità libera ed eguale, la violenza sadica dei mastini, l’assuefazione conformista della massa e soprattutto l’involuzione umana provocata dalla tecnicizzazione, hanno portato a concepire un’anarchia che si spoglia dalle miserie del servo consenziente senza bisogno di vestire quelle del guerrigliero intransigente. Oggi l’anarchico è consapevole che la dittatura della crescita economica, l’etica della competizione, la catalessi uniformante sono irreversibili. Il civilizzato è ormai separato dalla natura, quindi spogliato della sua essenza. Ne ignora ritmi e cicli, ne disprezza le manifestazioni, ne deturpa la bellezza, preda e distrugge per sentirsi migliore. Siamo all’assurdo che la teme e prova a dominarla. Non ci riesce e la stermina. Con la complicità di chi preferisce illudersi che, prima o poi, una mano provvidenziale eviti la catastrofe emendando le responsabilità.

Riappropriarsi del creato, un mondo vivente in cui la diversità caratterizza l’individualità, è pertanto l’unica opzione possibile: la naturalizzazione dell’umano è il presupposto della sua evoluzione.

Il primo passo dell’iniziato consiste nel negare il profitto quale causa di qualunque devianza e respingere ciò che lo alimenta. Una volta eliminato, spariscono gli artifici manipolatori che lo perpetuano: dallo Stato che lo protegge alla religione per cui è grazia divina, dall’economia che lo diffonde alla morale che lo legittima.

Il secondo è abbandonare la civiltà per immergersi nella natura selvaggia. Solo un rapporto diretto e paritario con i suoi elementi, quindi disinteressato, consente all’individuo di essere padrone di se stesso e realizzarsi nella partecipazione alla processualità indivisa. Una scelta che è volontaria perché non imposta, spontanea perché non istintiva, ugualitaria perché ogni soggetto contribuisce per quelle che sono le sue attitudini, armonica perché condiviso è l’interesse di garantirne la perpetuazione. Una simbiosi incessante che rende il singolo universale e l’universale singolo, eternandosi reciprocamente.

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Per capire cosa intendo con l’espressione stato di natura, immagina di trovarti in una città qualsiasi. Non occorre sia New York o Singapore. Va benissimo qualunque strada o piazza di uno dei nostri quartieri. Ovunque palazzi, cemento, auto sfreccianti e parcheggiate in doppia e terza fila, persone che zampettano frettolose, altre che grugniscono al cellulare, manutentori che trapano l’asfalto, operai che fanno i trapezisti sui ponteggi. Ops, ne è caduto uno! L’aria puzza di rancido ed così pesante che non riesci a respirare. La testa scoppia per il frastuono dei clacson, delle grida umane, del rombo dei motori, della sirena delle ambulanze…

Chiudi gli occhi e concentrati sul respiro. Annulla intorno fluttuando insieme a lui. Una, due, dieci volte… Non ho detto che devi addormentarti!

Adesso riaprili!

Il cielo è terso, la luce è nitida e l’odore di erba pizzica il naso. Intorno vedi terra rigogliosa e fiori e animali che pascolano liberi. C’è pure un boschetto che si inerpica sulla collina. Ti volti e il ruscello è così trasparente che quasi ti butteresti dentro. Vicino ci sono alcune capanne, da cui il fumo di un falò ascende ipnotico…

Benvenuto nello stato di natura, dove ciò che conosci, ciò che la civilizzazione ha imposto come giusto e inopinabile, per magia sparisce per lasciare il posto alla natura selvaggia. Niente è contaminato, colonizzato, addomesticato. Non troverai un grattacielo o una fabbrica. Non ci sono auto, né cemento, tantomeno infrastrutture, tecnologia, internet, lavoro, commercio, e la presenza umana si armonizza con l’ambiente. Ovunque animali che vagabondano, piante rigogliose, terra fertile e l’aria riempie i polmoni inebriando i pensieri di ossigeno. Le persone si riuniscono in gruppi nomadi che ora stanno sulla rive, domani le trovi sul monte, dopodomani stanziano sulla vicina scogliera. Se necessario raccolgono, cacciano, pescano e le eccedenze vengono divise equamente perché ciascuno possa praticare la profondità dell’esperienza. Non hanno bisogno di sofisticazioni e artifici, si realizzano dissolvendosi nella biocenosi. Quando invece stazionano in un luogo per più tempo, coltivano rispettando la fertilità del suolo e godendo della spontaneità dei suoi prodotti. E se incontrano altri gruppi, mangiano e bevono davanti al fuoco, poi glorificano tanta opulenza. Non si guerreggia e non si compete giacché non esiste accumulazione e ciò che è mio è tuo non perché lo impone qualcuno, ma perché sono felice di aiutarti e so che faresti la stessa cosa con me. E mentre i bambini sperimentano pericoli e potenzialità per affrontare le sfide future, gli animali oziano e cacciano senza gabbie perché il loro benessere vale quello dell’uomo, le piante inondano l’aria di un profumi, colori, vitalità.

La natura non dissimula, né ha bisogno di doveri o perversioni. Ẻ pratica, empirica, corporea, sensuale, spontanea. Sviluppa rapporti affettivi che appassionano la volontà. Ẻ vero, a volte sembra crudele e spietata. Ma la minaccia non sarà mai come nella società del dominio, dove i predatori violentano, abusano, coartano per il mediocre profitto. Si preda per sopravvivere, non per riempire la bisacca. E quando le esistenze si equiparano, la lotta è leale e l’esisto perpetua comunque il ciclo della vita.

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Per creare lo stato di natura due sono le possibilità: o si sceglie di edificarlo nella società del dominio, oppure si nega l’ordine costituito e si fugge dove esso esiste già.

Consideriamo la prima ipotesi. L’anarchico che risiede nella società del dominio prova a mediare con esso, ma ne viene sempre soggiogato. Vive in ambienti opprimenti, ottempera le sue regole, almeno quelle che non può fare a meno di trasgredire, è condizionato dalla sua morale mercanteggiante. E siccome la miseria del barbone non è auspicabile, deve lavorare. Per cui ogni giorno suona la sveglia, ingurgita frettolosamente una pastina confezionata con del caffè liofilizzato, prende l’auto per andare nell’ufficio di un qualunque palazzo della zona industriale, un bel loculo di due metri per uno con vista sul cesso comune che nessuno pulisce da anni. Qui trascorre ore interminabili con l’unico intermezzo del pranzo. Finito il turno, dopo un tempo eterno passato a bestemmiare nel traffico, finalmente si fionda sul divano per scolare tutta la birra che ha in frigo in maniera da dimenticare che è così da sempre e sempre sarà, ma ormai è troppo esausto per rimediare a tanta idiozia. Ora, mi dici come il nostro eroe può edificare un mondo alternativo?

Supponiamo invece che abbia ricevuto un’eredità da un misterioso zio d’America o abbia vinto la lotteria per cui non è costretto a lavorare. Vivere la natura rimanendo nella società del dominio implica però non interagire con la sua selvaticità, bensì creare un surrogato che si adatti all’ambiente civilizzato, quello urbano. E siccome il nostro campione abita in un appartamento al quarto piano, tempesta ogni angolo della casa di palme, felci, calathee, dracaene, sanseverie, orchidee, bonsai e altro. Compra anche un maialino, due galline e un cane. L’entusiasmo è alto e trascorre le giornate ad innaffiare le piante, dare da mangiare agli animali e pulire i loro escrementi. Quando però invita a cena la morosa, per non sembrare pazzo trasferisce tutto in terrazza e chiude le serrande. La serata va alla grande, ma il giorno dopo il povero maialino è assiderato e le galline sono volate via. Una si è schiantata contro il muso di un autobus, l’altra si è impigliata nei cavi elettrici che passano sotto il balcone. Al cane non è andata meglio poiché si è infilato nel compattatore del camion dell’immondizia dopo essersi lanciato per azzannare quella che stava arrostendo. Distrutto nell’anima, il nostro prode sfoga la disforia con giornate trascorse a guardare i video di shuffle dance sul cellulare, ignorando però che le piante stanno seccando una dopo l’altra. E così finisce la sua esperienza con la natura.

Morale: non si può creare lo stato di natura rimanendo nella società del dominio.

L’anarchico deve dire basta e ricominciare altrove. Deve abbandonare la casa in cui abita, gli amici del calcetto, il lavoro che tanta soddisfazione dava ai suoi creditori, il chiasso della città, ma anche le abitudini, gli affetti ostacolanti, i confort e le suggestioni della vita civilizzata. Deve cercare un luogo in cui di essa non ci sia traccia.

Ma dove può andare se la società del dominio ha colonizzato ogni spazio disponibile sulla terra?

Scartata la possibilità di addentrarsi nell’oceano in cerca di un’isola deserta a causa della scarsa confidenza con gli squali, opta per la montagna. Fra le Alpi e Appennini scegli le prime perché sono più lontane e non c’è il rischio che qualche conoscente venga a bussare. Per non lasciare tracce medita di raggiungerle a piedi. Studiata la cartina però ci ripensa e arriva in treno in un paesino dal nome impronunciabile. Si inerpica sulla prima montagna e bivacca in un bosco, che abbandonerà presto perché non sopporta gli schiamazzi dei turisti che passano da un sentiero attiguo. Cammina finché non trova un luogo inaccessibile dove può costruire la sua prima dimora da anarchico e appropriarsi della vita selvaggia che desiderava. Passano i giorni, passano i mesi ed è sempre più un elemento della natura. Unità fra infinite unità. Adesso è un uomo libero che vive la realtà attraverso le connessioni con le sue molteplicità. Non è solo vivo, è felice. Perché cos’è la felicità se non la volontà che scopre la propria universalità?

E quando lo desta il ronzio di un drone, prima lo abbatte di gusto, la civiltà è sempre molto efficiente se deve reprimere, poi fugge insieme ai compagni che condividono l’esperienza sovversiva. E se ne andranno ogni volta che il dominio proverà a inibire la loro libertà. In questo modo non solo eviteranno l’oppressore, ma la comunità crescerà, si moltiplicherà e i ribelli saranno così numerosi, forti e uniti che il Potere si accontentarà di vessare chi del giogo non può fare a meno.

In conclusione: nella società del dominio la felicità è un rischio che le persone preferiscono evitare. Ẻ più comodo inseguire il profitto, assuefarsi alle sofisticazioni, osservare remissivamente le regole garanti l’ordine costituito, delegare la responsabilità per scaricare i sensi di colpa, alienarsi in pratiche socializzanti e così via. Di contro, per realizzare lo stato di natura bisogna rinunciare alla materialità, abbandonare la civiltà, vivere l’unità del creato. Ciò implica creatività, sacrificio e dedizione, soprattutto all’inizio quando spaventa lasciare l’apatica confortevolezza del vecchio mondo. La scelta è fra tirare avanti senza uno scopo o trovarlo dando dignità alla propria esistenza divenendone protagonisti. E se per molti la felicità è un’impresa troppo faticosa, per gli anarchici tornare alla natura è invece una cosa spontanea. Naturale, direi.

 

 

 

 

 

 

SPIRITO GUIDA

L’uomo è uno sterminatore cinico e spietato. Cinico in quanto il profitto lo deresponsabilizza moralmente da ogni malversazione compiuta. Spietato perché è disposto a realizzare le più terribili nefandezze per conseguirlo.

Per il denaro una volta faceva le guerre. Un re voleva conquistare un territorio, mandava un paio di messaggeri al suo omonimo: «ti arrendi?». «No!». «Allora io stermino te e la tua gente!». E magari smetteva di fare lo sbruffone. Poi però razziare e massacrare umani è diventato monotono come un rituale, e siccome nessuno sapeva dove Dio si nascondesse, ha preso di mira ciò che ne eguagliava l’assolutezza: la natura. Non che essa fosse esente dalla sua prepotenza, la domesticazione risale infatti al momento in cui ha smesso di rallegrarsi di ciò che offre la terra, quando era nomade, per produrre in base ai propri interessi, quando è diventato stanziale. Ma il suo dominio si limitava a recintare un terreno e sfruttarlo per dimostrare a tutti la propria autorità sugli animali, sulle piante e sugli uomini. Compreso che anche l’autostima aveva un prezzo, è nata la civiltà moderna così come viene insegnata dalla storiografia ufficiale.

Gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Dal mangiare ai vestiti, dai mezzi di trasporto alle abitazioni, dal tempo libero al lavoro, dalle infrastrutture allo sfruttamento delle materie prime, come il civilizzato si sveglia, contribuisce al disboscamento di una collina, alla contaminazione di una falda, al massacro di una specie, all’avvelenamento del suolo, del mare, dell’aria. E poiché suona male dire che tale violenza è causata da interessi economici, si parla di progresso.

Ma imputare la catastrofe alla sola economia è sviante. Se l’uomo comune è disposto a tutto per il profitto, figuriamoci l’imprenditore che è il predatore alfa per natura. Tantomeno si può colpevolizzare la politica, che già si impegna a trovare alternative alla devastazione ambientale che non riducano i guadagni di chi la foraggia.

La responsabilità è delle persone così dette perbene, che potrebbero scegliere e non lo fanno. Accettano di essere manipolate e obbediscono alle imposizioni perché nell’asservimento utilitaristico valorizzano esistenze di cui altrimenti non saprebbero che farsene. Si vantano di essere razionali, ma la ragione non le induce a riflettere, vergognarsi, redimersi, fuggendo dall’immoralità, contrastandola, negandola. Le porta invece a orientarsi, scegliere, partecipare all’omologazione standardizzante selezionando con cura le prede e dominandole con maggior perizia. Una disumanizzazione sentimentale che fa quasi rimpiangere i tempi in cui erano solamente indifferenti.

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Animali e piante non possono impedire la catastrofe. La natura ogni tanto reagisce scatenando le sue forze quasi sperasse nel ravvedimento del folle. Ma non si è mai visto un pazzo riconoscere la sua pazzia. Discuterne ancora, oltre a sembrare un trito esercizio retorico, prova quel distacco tipico di quando le persone ignorano la gravità della situazione di cui parlano. Anche gli isolati gesti ribelli si dimostrano inefficaci di fronte all’imperante cupidigia. La verità è che il progresso è irreversibile e inarrestabile perché l’individuo moderno ne è razionalmente partecipe.

Finché il profitto guida le azioni umane sfruttamento e distruzione sono pratiche necessarie alla civilizzazione. Ma se l’uomo non rompe con l’ordine esistente, si fonde con la natura gioendo di quanto offre, appropriandosi della sua multidimensionalità, identificandosi nella sua molteplicità, esaltandosi nello scambio reciproco dei doni, se non trova se stesso e si realizza attraverso connessioni simbiotiche che gli consentono di essere anziché dover essere, la violenza presto finirà perché non ci sarà più niente da violentare.

Eppure se al termine “uomo” sostituisci quello di cane, muflone, giraffa, lombrico oppure ulivo, felce, baobab, pino ma anche sasso, minerale, cielo, mare e così via, il risultato non cambia. Perché la natura è volontà animata dalle infinite volontà che la compongono, che plasmano e da cui sono plasmate attraverso un’interazione inesauribile. Essa è un corpo indiviso dove le singolarità si influenzano casualmente ma incessantemente, ognuna con una propria soggettività che si fa azione, attiva o passiva, attraverso la forma di cui dispone. In questa simbiosi non c’è domesticazione, ma esplorazione selvatica, irrefrenabile di istinti, passioni e desideri che si mischiano, contrastano, si incontrano e si fondono. Che sia alga marina, leone, sequoia, batterio, umano o roccia “così fredda, così dura, così prosciugata, così refrattaria, così totalmente disanimata”1, ciascuna partecipa alla processualità della vita.

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L’anarchico opera per realizzare un’umanità libera in un mondo che lo è stato finché l’uomo non se ne è appropriato. La sua civiltà è realizzare la propria personalità per ciò che è interagendo con entità che sono altrettanto pure. Vuole condividere con gli esseri del mondo la meraviglia dell’esistenza attraverso un’affettività sincera, spontanea, senza impedimenti, senza vendersi o vendere, comprare, desiderare, senza recinti, senza domesticazione, senza dipendere o obbedire, senza sfruttare, mortificare, violentare, uccidere. Un uomo finalmente guidato dall’armonia universale che ora raccoglie, ora caccia, ora condivide, ora riposa, ora interagisce, ora aiuta, ora protegge, ora ozia, ora esplora, esattamente come la terra insegna. E a tarda sera, davanti al fuoco, canta le lodi di tanta opulenza.

Ma se questa sentimentalità per molti è un’attitudine, per la maggioranza dei refrattari trasformarla in pratica è una conquista. Affrancatosi dalle pastoie sociali spesso il libertario è talmente intontito che deve imparare a dialogare con le cose. Un dialogo che non è fatto di parole, ma è gestuale e sensuale. Ẻ istintuale e spontaneo e consiste nel connettersi con le volontà altre non per trovare in esse il proprio alter-ego, ma per fondersi nell’identità comune.

Ecco che, soprattutto le prime volte, la presenza di uno spirito guida incoraggia e facilita.

Prendi quell’albero in giardino. Se il civilizzato lo guarda e pensa a uno sgabello o una mensola, il libertario ne subisce il fascino e lo osserva con attenzione. Segue la sua chioma che oscilla al vento, ascolta il fruscio delle foglie, vibra con esse mentre captano la luce. Lo sfiora, lo tocca, lo abbraccia. Sente il fremito allorché la volontà ne attraversa la corteccia. Ora scorre nell’alburno, dove fluttua nei vasi conduttori che portano la linfa, scende e penetra il durame fino al midollo e poi si irradia nella terra attraverso le radici. Lo so, vorresti grattarti perché quelle formiche ti danno prurito, ma ormai la metamorfosi è compiuta.

Vogliamo provare con un animale o preferisci un sasso?

Intanto che saltella felice, ti concentri sul suo corpo, i suoi movimenti, la sua gestualità. I pensieri evaporano, intorno si oscura, ancora il fremito e stavolta vedi con i suoi occhi, respiri con la sua bocca, le gambe zampettano, il ventre sobbalza, il cuore batte… Insegui la farfalla, annusi l’erbetta, fai pure una pisciatina. E corri, saltelli di gioia, ti accovacci fra le gambe e sollevi il muso perché non puoi fare a meno del grattino. «Ecco, bravo. Accarezza proprio lì!» mugoli. E come sei felice quando senti che ti vuoi bene!

In fondo è facile connettersi con le entità del mondo: basta solo dare amore.

NOTE

*1 Poesia di Ungaretti: Sono una creatura, da Il porto sepolto, 1916.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IL GIOCO DI UNA GIORNATA QUALSIASI

La logica del dominio è globalizzata. Il mercato detta le regole, lo Stato esegue imponendole a Roma come a Tokyo, a Madrid come a Sydney, a Islamabad come a Antananarivo. Ovunque lavoro, commercio, sentimenti, relazioni, consumo, ogni energia profusa è subordinata a una contropartita. Una mercificazione delle scibile che identifica talmente l’individuo con i beni da renderli un corpo unico.

Gli effetti di questo stravolgimento esistenziale sono molteplici, ma fra tutti si rileva la disumanità, cioè l’incapacità sensoriale e spirituale di cogliere la naturalità originaria; l’annullamento delle potenzialità personali, limitate al mediocre adattamento servile; la deformazione dei propositi ribelli e innovatori destinati ad ascendere i processi di potere, non a eliminarli. Ovvio che, in questo contesto, i piaceri tossici e le speranze necrofile diventino l’unica rievocazione della sensualità perduta.

L’irreversibilità del sistema rende impossibile ogni alternativa intra moenia. Possibile invece la sua evoluzione, ma solo in peggio. Al ribelle la scelta: follia o diserzione. E se diserzione, che si manifesti con la dissidente interruzione di ogni sua pratica e con l’unione di persone affratellate che, evitato lo scontro con il Potere, sviluppino dinamiche clandestine fondate sull’antiautoritarismo, sul personalismo, sul pluralismo, sull’autarchia e sulla gratuità. Ma soprattutto sulla naturalitudine, cioè la capacità di concepirsi natura. Il creato deve diventare l’universo personale in cui la volontà spazia liberamente per realizzare le proprie attitudini sensoriali, intellettive e morali. E ciò è possibile solo estendendo la nicchia ecologica antropica1 all’universalità affinché essa si moltiplichi spontaneamente nelle sue infinite possibilità.

Tanto salda sarà la determinazione dei ribelli, tanto dissociante si svilupperà la loro azione, tanto coordinati saranno gli autogoverni, tanto inarrestabile sarà l’autonomia. Tanto il Potere, pur di mantenere la sovranità sulla maggioranza asservita, arriverà a trattare, legittimandoli di fatto. Quanto ai garzoni di stalla2 che si oppongono alla sovranità libertaria per conservare i propri privilegi, l’unica strategia è ignorarli. La volontà di vivere si disinteressa della morte!

++++

Per confrontare la società del dominio, nelle specifico quella moderna, con quella anarchica, posto che quest’ultima può essere rappresentata solo in base alle numerose, ma ancora relative, pratiche clandestine, e che non è possibile predire il futuro, facciamo un gioco. Dopo tutto giocare è la base dell’educazione e della pratica libertaria!

Immaginiamo la giornata di tre soggetti: l’omologato, colui che pratica le regole della società civile; il refrattario, ovvero l’attivista che a essa si adegua nonostante la disprezzi; l’illuminato, che invece la rifugge per vivere in una comunità anarchica. E siccome esistono modelli anche molto diversi fra loro, scelgo quella che pratica la biosimbiosi, cioè condivide con la natura l’esperienza esaltante della vita selvaggia.

L’ALBA DI UN DI UN GIORNO QUALSIASI

Squilla la sveglia e l’OMOLOGATO sobbalza di soprassalto come se avesse fatto un brutto incubo. Seduto sul letto con la fronte fradicia e una pesante ipossia, si guarda intorno tramortito. Non riconosce né il posto in cui si trova, né la persona che dorme a suo fianco. La sola cosa di cui è consapevole è che lo attende l’ennesimo intermezzo molesto fra un sonno e l’altro.

Ciondola fino al bagno, fa colazione in piedi, si veste a puntino, saluta la moglie con la mano perché detesta l’odore di quella crema con cui si impiastriccia il viso, calza gli occhiali da sole. «Vogliamo andare?» grugnisce alla prole anestetizzata davanti allo schermo del telefonino. Al solito l’ascensore è pieno. «Entrate voi, io faccio le scale!» sperando si verifichi un improvviso blackout. Sgomma nel parcheggio condominiale: non vede l’ora di immergersi nel traffico per mandare a quel paese più persone possibile.

 

Il REFRATTARIO spenge la sveglia e si riaddormenta. Profanarla è uno dei pochi piaceri che la società civile gli concede. Si alza fregandosene d’aver perso la coincidenza perché il negozietto di antiquariato è suo e non ha orari. Ma l’ufficiale giudiziario sì ed è già davanti all’ingresso per sfrattarlo. Due anni senza pagare l’affitto più che inadempienza sono un’occupazione. Riflettere su questo addolcisce il risveglio. E sapere che l’inserviente pubblico dovrà tornare perché ha trovato abbassata la saracinesca è l’unico motivo per cui asseconda la richiesta della moglie di portare la figlia a scuola.

 

La sveglia dell’ILLUMINATO è la lingua del cane allo spuntare della prima luce. Lo libera in giardino e già che è lì butta un po’ di mangime alle galline che starnazzano allegre. Agli altri animali si concederà più tardi perché è il momento di dedicarsi ai figli. Oggi per loro è una giornata speciale. La mattina partecipano a una lezione di orientamento nel bosco, nel pomeriggio alla rottura della cagliata. E infatti sarà per l’eccitazione di imparare cose nuove, sarà per l’aria ancora pungente, prima si saziano con le uova appena sfornate, poi lo aiutano ad accumulare le foglie che verranno utilizzate come concime. Sua moglie invece sta bussando ai vicini per raccogliere gli alimenti che utilizzerà nella preparazione del pranzo comune. Come cuoca non è alla sua altezza, ma migliorerà. Quanto a lui, osserva i bambini immergersi nel bosco e poi si gode il tepore del sole che sbuca da dietro le montagne.

LA MATTINA

La mattina dell’OMOLOGATO è come il giorno precedente, quello successivo e così per i prossimi trent’anni. Giunto in ufficio, riordina gli appunti al computer, risponde al telefono, riceve i clienti. Ẻ dipendente di un’agenzia immobiliare per cui l’approccio sgargiante con l’arzilla signora a cui deve mostrare un appartamento del centro è di rito. Quello con il suo barboncino un po’ meno. E infatti le chiede gentilmente se può lasciarlo in auto dopo averlo rimosso dalla propria caviglia.

Tornato alla base, di nuovo computer e telefono. L’appuntamento delle undici è saltato e potrebbe concedersi un caffè alla macchinetta se le cialde non fossero finite. Sbriga le ultime faccende e alle dodici e cinquantanove afferra il panierino. Si alza dalla scrivania attento a non fare rumore e con circospezione scivola lungo il corridoio che percorre a passo di pantera finché una voce grida il suo nome. Ẻ il capo, che lo richiama perché la cliente della mattinata ha minacciato di far causa all’agenzia per maltrattamento di animali.

 

Dopo aver accompagnato la figlia a un isolato da scuola perché non vuole che gli amici vedano che è con il padre, il REFRATTARIO si rintana nel negozio. Riordina le cianfrusaglie e si piazza dietro il bancone, dove non trova di meglio da fare che sfidare Billo71 a una partita a scacchi on line. Di tanto in tanto saluta con una smorfia lugubre i passanti. Alle dieci e trenta cessa ogni impegno per fumare un sigaro. Alle undici compra il giornale. A mezzogiorno la solita telefonata della moglie in cui si lamenta delle colleghe, del tempo, delle zanzare, della forma delle nuvole, dei reumatismi e di quant’altro le venga in mente in quei trentaquattro fottuti minuti di logorrea. Riattacca che è stremato, ma trincerarsi dietro questa ritualità collaudata è l’unico modo per non finire come Michael Duglas in quel famoso film che spara a tutti3.

Poco prima dell’ora di pranzo finalmente arrivano gli amici del Raggio Nero. Li aspettava impaziente. Chiude a chiave, li interroga eccitato perché non vede l’ora di rivitalizzare le sue abilità sovvertitrici. Propongono di rivestire di pellicola trasparente il monumento a Giuseppe Mazzoni in piazza del Duomo. «Tipo Dexter Morgan?»4 chiede confuso. «Perché non ti piace?» replica uno di loro. «Meraviglioso!» risponde rassegnato.

 

L’autunno è sempre un periodo di fermento nella comunità anarchica. Le famiglie si organizzano nelle attività agrosilvopastorali in maniera da raccoglie quanto dona la natura. Una parte verrà utilizzata per l’inverno, l’altra sarà distribuita fra chi ha bisogno. E così il nostro ILLUMINATO trascorre gran parte della mattinata all’aria aperta raggruppando nelle casse la verdura di stagione. Se avrà tempo, più tardi porterà le eccedenze allo smistamento.

Prima di avviarsi verso la piazza in cui pranzerà insieme agli altri membri della comunità, distribuisce il cibo agli animali che soggiornano intorno alla sua abitazione. I maiali e i cavalli a cui ha costruito un confortevole riparo dalle intemperie, le caprette che scorrazzano instancabili nel prato, le mucche golosissime del fieno che cresce rigoglioso dopo il torrente. Raccoglie anche qualche fungo e ammucchia gli avanzi per i lupi perché la natura è scambio reciproco attraverso cui i suoi elementi si completano.

Dopo essersi intrattenuto coi vicini che organizzano un’orgia per il plenilunio, a cui non parteciperà perché già occupato con un’altra coppia, passa da casa per ritemprarsi con un assaggio abbondante di stufato. Torna indietro per versare un po’ d’acqua nel pentolone sia mai la moglie si accorga che ne ha mangiato troppo. Perché rinunciare alla società del dominio per lo stato di natura estingue ogni forma di subordinazione, tranne quella verso la consorte.

POMERIGGIO

Il pomeriggio dell’OMOLOGATO trascorre fra smancerie ipocrite con i clienti, alienazione davanti al computer, picchi fantasiosi per ammorbidire il boss su quell’aumento che tanto gli servirebbe per pagare il mutuo. Il momento più appagante quando fa le fotocopie. Consumare una risma riproducendo ora la mano, ora la guancia, ora il dito medio è sempre una gran bella soddisfazione. Quello più convulso quando verso le sette meno due minuti si alza dalla scrivania attento a non fare rumore e con circospezione scivola lungo il corridoio che percorre a passo di pantera finché una voce grida il suo nome. Ẻ il capo, che lo richiama per consegnargli la lettere di licenziamento.

Fortunatamente la giornata sta finendo, altrimenti chissà quali altre soddisfazioni gli riserverebbe.

 

Il pomeriggio del REFRATTARIO comincia con un balzo di creatività artistica stimolato dall’ennesima cartella esattoriale. Non la pagherà come non ha pagato le altre. Non è tipo da fare discriminazioni. Con i fogli realizza dei simpatici origami a forma di rana che pone sulla cassapanca del XIX secolo che gli piace tanto. Nella partita a scacchi on line concede a Salsiccia90 un rapido matto del barbiere. Legge il giornale e qualche pagina di una rivista anarchica. Caffè a metà pomeriggio e solo verso le sei entra quello che sembra il primo cliente della giornata. La sua gestualità rileva una certa insicurezza e così: «Se ha bisogno dica pure!» il nostro eroe interviene cortese. Il tipo scuote la testa, fissa la strada e poi: «Via Roma è da queste parti?»

Neanche è uscito che si ripresentano i compagni del Raggio Nero. Dopo una lunga interlocuzione sulla fase distruttrice di Bakunin, il Rosso arriva al punto: hanno modificato il piano pensando a un’azione «bella tosta!». Si tratta di scrivere una frase, la appunta su un foglio temendo che nel negozio siano installate delle cimici, sulle mura del Castello dell’Imperatore5. Il refrattario rilascia un’espressione contorta: «E io che dovrei fare, tenere il sacchetto con le bombolette?»

 

Dopo aver consegno le casse al deposito l’ILLUMINATO raggiunge la grande piazza dove la comunità si ritrova ogni giorno per condividere il pranzo. Pasto frugale e mentre tutti i bambini giocano nel bosco e gli adulti si dividono fra chi fa una pennichella, chi passeggia e chi chiacchera, raggiunge il fico che ha rivitalizzato quando ormai sembrava morto. Ne abbraccia il tronco. Si accovaccia fra le radici, che accarezza con intensità. Appoggia le mani sulla corteccia grigiastra, poi chiude gli occhi rimanendo immobile in attesa che le fronde sussultino. Improvvisamente anche il suo corpo guizza come attraversato da una scarica intensa.

Sarà il figlio maggiore a destarlo quando qualcuno invita i comunardi, fra loro si chiamano così in memoria della Comune di Parigi, a tornare nella piazza. Si è sparsa la voce che in mattinata un tizio sia stato trovato a rubare nella rimessa alimentare. Un fatto insolito in un aggruppamento che rifugge il profitto e condivide i beni. Ecco perché quando il tipo fa il suo ingresso il brusio è frastornante.

Il Poeta, famoso per i versetti in rima che è solito recitare la sera davanti al fuoco, llustra i fatti e poi gli concede la parola. Questi afferma di essersi allontanato dalla comunità capitalista a cui appartiene perché non riusciva a mantenere i suoi quattro figli e che da giorni vaga senza una meta. Gli chiedono da quanto è fuggito, dice di non saperlo. Gli chiedono se lo hanno seguito, risponde che ci hanno provato ma temendo il bosco sono tornati indietro. Gli chiedono dov’è la sua famiglia, replica che si trova in un rudere abbandonato sulla collina. Gli chiedono il motivo per cui aveva scelto quella comunità, risponde che col suo lavoro guadagnava bene, ma… Costretto al silenzio dai fischi di disprezzo, scoppia in un pianto infantile.

Confortato con pacche sulle spalle, qualche parola gentile e del liquore fatto in casa, uno gli domanda che lavoro facesse. «Sono un programmatore» risponde. «Ottimo. Allora programma per domani di pulire il porcile!» Quando tutti scoppiano a ridere il sole sta già tramontando.

LA SERA

La sera dell’OMOLOGATO inizia nel momento in cui trova parcheggio nello spazio riservato ai portatori di handicap. Trascorre minuti fissando la specie di Moloch6 in cui abita. Sale in casa, cena in famiglia con i figli che tappezzano le pareti di sugo, la moglie che non smette di ciarlare, le tette delle soubrette che ballettano in televisione. Segue il solito filmetto con i cattivi astuti, belli e grandi chiavatori, bacetto alla signora e buona notte. Tutto in appena un paio d’ore.

Avrebbe voluto raccontarle cosa è successo in ufficio, ma è meglio così perché adesso può sfogarsi facendo zapping. Gli basta un filmetto osé per infilare la mano nelle mutande.

E’ in ginocchio sul tappeto quando la maniglia della porta cigola.

 

La serata del REFRATTARIO è identica a quella dell’omologato fino al bacetto alla moglie, allorché raggiunge la vetrinetta dei liquori, prende una bottiglia e si chiude in quello che ormai è il suo ufficio. Apre la finestra e seduto sulla tazza del cesso osserva le auto sfrecciare lungo la via, il gruppo di ragazzi che biascica davanti al bar, le creste ombreggiate dei palazzi, sopra i quali il cielo nero viene falciato dal pallido bagliore della luna. La libertà ha sempre un prezzo e il prezzo è l’impossibilità di condividerla.

Anche il ferro ha un prezzo e gli è costato quasi quanto la statua d’oro di Budda che sta nella vetrina del suo negozio. Ma adesso lo sente caldo fra le mani. Lo gira, lo rigira, lo impugna e finalmente punta la canna alla tempia. Spara. Silenzio. Tutto è come prima. Qualche secondo di vuoto e «Cazzo è successo?» gorgoglia frastornato guardandosi intorno come a cercare tracce d’inferno. Si è dimenticato di caricarla. Ma ormai è troppo tardi per rimediare. Anche stavolta è passata la voglia di ammazzarsi.

 

La serata dell’ILLUMINATO è più vivace del solito. Riunitasi la comunità intorno al grande fuoco, la cena è abbondante e i balli sfrenati. La festa per quel nuovo arrivato durerà fino a notte inoltrata. Sfatto dalla stanchezza, osserva i figli che sonnecchiano sull’erba e ammicca alla madre che sorride divertita.

Con lei in testa alla formazione, lui in fondo con quello piccolo sulle spalle, si inerpicano lungo il sentiero che sale la collina attraversando il bosco. Quando si dirada l’abbaio dei cani accoglie la famiglia. Una pecora li imita scatenando lo starnazzio delle galline. Allora anche i gufi bubolano. E così i lupi ululano, gli asini ragliano, i cavalli nitriscono, i cervi bramiscono, le rane gracidano in un concerto surreale che solo quello che sembra il ruggito di un leone zittisce. Ma forse è l’alcol che fa effetto.

Allettati i bambini, i due tornano in giardino per gustare qualche attimo ancora della potenza inebriante della notte. «Vieni a letto?» lei gli fa capire che ha freddo. Lui indica l’amaca. «Rimango qui un altro po’!» le risponde. Con quel manto stellato lassù, il sibilo del vento nel bosco, il fruscio degli animali e le meravigliose lucciole che indorano la valle, non si sa mai cosa potrebbe accadere.

NOTE

  • Espressione usata da Telmo Pievani in La natura è più grande di noi, Solferino, 2022.
  • Espressione utilizzata da Michael Onfray, La politica del ribelle, Fazi editore, 1997.
  • *2 Un giorno di ordinaria follia, film del 1993.
  • Dexter, serie televisiva andata in onda in Italia dal 2006 al 2013.
  • Il Castello dell’Imperatore è stato costruito da Federico II di Svevia e si trova a Prato in Piazza delle Carceri.
  • Mostro del film Cabiria, 1914.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ULTIMO DISCORSO DI RAIMONDO MARIA DOPRAHO

Lo accoglie un applauso intenso. Nella piazza vibra rispetto e devozione per quel guerrigliero solitario la cui leggenda ha ispirato numerose comunità anarchiche. Dall’epopea della dissidenza clandestina alla creazione di centri antiautoritari, dalla resistenza armata alla trattativa per l’indipendenza, dalla lotta contro l’industrializzazione allo spiritualismo naturista, la sua storia racconta di un uomo che con il pensiero ha bandito l’autorità e con le azioni ha realizzato l’eguaglianza delle molteplicità in cui la natura non è riparo né conforto, ma fratelli, amici, compagni con i quali condividere una nuova esistenza.

Cammina appoggiandosi al ramo levigato che lo accompagna da quando un proiettile sparato da un blindato gli perforò la coscia. Indossa un mantello color ruggine. Il volto è nascosto dal cappuccio, che improvvisamente abbassa con una mano mentre con l’altra saluta i presenti. Ha l’espressione stanca e la carne emaciata, ma gli occhi scuri scintillano in affettuosi abbracci. Mangiucchia il sigaro spento mentre ringrazia con la mano. Una donna gli offre una tazza di tè, che beve nell’attesa la folla si accomodi sull’erba.

Osserva le montagne lontane e con lo sguardo scende lentamente fino al bosco, dove chiude gli occhi e respira profondamente, quasi volesse inalarne l’aroma. Si china e raccoglie una pallina di mota. «Questa è tutto!» dice con voce flebile. «Ma anche quello è tutto!» indica il cielo. «Pure quelle!» punta il dito sulle vacche che pascolano distanti. «E questo!» batte la mano sul tronco su cui è seduto. «E voi gli appartenete!» Sorride teneramente agli sguardi carichi di attesa.

Quasi in contrasto con il mito che rappresenta, i suoi gesti sono lenti, le parole sussurrate, a tratti biascicate. Strofina spesso le mani. Volteggia con lo sguardo senza mai posarsi su qualcosa in particolare. Continua a mordicchiare il sigaro. Stringe la tazza di tè e la porta alla bocca. Sembra intimidito da tutta quella attenzione. Come se intimamente la giudicasse esagerata e, al contempo, non volesse manifestare la propria avversione per non sembrare irrispettoso.

Nella folla qualcuno osanna il suo nome. Parte un breve applauso.

Il compagno seduto vicino lo sollecita a parlare con un cenno.

Annuisce con una carezza al suo interlocutore. Osserva fuggente la folla. «Siete più numerosi dall’ultima volta!» proferisce sornione. «Tu mi sembri pure ringiovato!» Gli stringe il braccio affettuosamente. «Mi fa piacere incontrarvi prima di ripartire…» La nuova sospensione sembra più per distribuire gratitudine che per trovare le parole con cui proseguire. «Questi due giorni sono stati davvero molto istruttivi e piacevoli… Guarda qui!» Teatralmente si tocca il ventre eccitando l’ilarità dei presenti. Schiarisce la voce. Con la lingua scosta il sigaro su un angolo della bocca. Si alza e si rimette subito a sedere.

«Preferite che stia in piedi o seduto?» chiede.

«Ci tenevo a ringraziarvi tutti. La vostra esperienza dimostra che libertà e eguaglianza non sono concetti astratti, ma pratiche concrete realizzabili da uomini di buona volontà.

Avete rifiutato l’ingannevole civiltà, le sue perversioni e le sue false lusinghe e vi siete riappropriati della vostra umanità fuggendo nella natura, quel luogo meraviglioso e incontaminato in cui potete essere voi stessi. Guidati dalla genuinità che le appartiene avete costituito questa comunità forte e solida, dove ciascuno pensa e agisce in simbiosi con l’ecosistema. Avete dimostrato che è possibile vivere senza profitto e senza strutture di dominio. Avete creato un antiautoritarismo simbiotico, paritario e solidale in cui ogni elemento dell’ambiente è imprescindibile. Donandovi al selvaggio avete ripristinato la primordiale armonia grazie alla quale vi identificate nell’unità indivisibile e divenite coscientemente con essa.

Non avete leggi che vi impongono chi essere e cosa fare perché la spontaneità e la condivisione sono regole di vita. Non siete schiavi dei commerci perché soddisfatti i bisogni primari, godete i piaceri del mondo. Non competete perché la gratuità è il vostro premio. Non avete tecnologia che vi renda suoi ingranaggi in quanto le mani sono più che sufficienti per accarezzare la terra e l’istinto vi aiuta a districarvi nella boscaglia. Conoscete il significato del gesto, la profondità dell’esperienza, l’appagamento affettivo. Siete finalmente uomini liberi che agiscono paritariamente con gli esseri del mondo.

Questo, non l’ipocrisia, non il pregiudizio, non la finzione, vi rende forti, vivi, felici. E deve riempire d’orgoglio non me, non voi, ma l’umanità intera, perché avete dimostrato che può essere migliore di ciò che è».

++++

Solleva la mano per fermare l’applauso e prosegue: «Quando ieri sono arrivato, mi avete accolto con entusiasmo che non merito.

Mi avete illustrato le molteplici attività che svolgete, di quanto la vostra praticità rispetti e onori l’ambiente. Ed è stato esaltante osservare come progrediate senza modificare, come interagiate senza competere, come solidarizzate senza pretendere. L’armonia con cui vi organizzate, l’affetto attraverso cui comunicate con gli animali, la devozione che riservate alle piante sono la prova che quando l’interesse egoistico non corrisponde al profitto ma si conforma spontaneamente all’equilibrio naturale, è possibile restituire l’esistenza alla sua originaria vitalità, che è semplicemente condivisione dei piaceri offerti dalla natura. Quella schiettezza dei rapporti che ho ritrovato partecipando ai vostri giochi, distribuendo le eccedenze, osservando i bambini che si addestravano sulle creste delle montagne o imparavano a pescare con le mani è la solita degli insetti che gustano il nettare e poi impollinano il pistillo, delle fronde che cercano la luce, dei cuccioli di lupo che si azzuffano, dei volatili che si uniscono in un’unica unità cognitiva.

Essendo voi stessi l’ecosistema, intelletto e corpo operano guidati dal solo istinto e la volontà si perfeziona nella cosa in sé, il tutto in divenire a cui appartenete. Ciò rende il vostro pensiero unitario ma mai retrivo poiché vi identificate nella mutevolezza, pluralista giacché nell’alterità si perfeziona perseguendo il medesimo obbiettivo di vivere, armonico in quanto la non interferenza sulla natura delle cose ne consente la perpetuazione. Il vostro interagire con le molteplicità è reciproco, perché si realizza attraverso relazioni omogenee, dinamiche e cooperanti. Ẻ gratuito, giacché le connessioni non vengono mai contraffatte dall’utile. Ẻ temperante, poiché la volontà di vivere si esprime senza che gli eccessi generino prevaricazione. Siete natura, siete bellezza!

Se la terra è protagonista dei vostri sogni e ambiente delle vostre storie è perché quando l’individuo non è depravato da falsità, non domestica, non sfrutta, non sofistica, non distrugge, né sottostà al tiranno con la speranza di sedere al suo tavolo. Ẻ libero. E se è libero cerca e trova godimento nelle cose che lo attorniano, senza bisogni di inganni che ne deformino l’essenza.

Avete rifiutato la falsa civiltà perché siete quella vera. Una civiltà nuova che prospera simbioticamente con l’ecosistema. L’autonomia conquistata vi rende spiriti del creato che realizzano l’interesse personale compiendo il bene universale. Conoscete il giusto. Ed è per questo e in virtù di questo che sapete amare.

Ma della vostra felicità i servitori del male sono invidiosi. Vi temono perché l’autenticità pregiudica le loro false certezze, il loro illusorio benessere. Faranno di tutto per ostacolarvi, perseguirvi e reprimervi. E una volta trovati vi elimineranno se non vi convertirete o sarete utili ai loro scopi. Diffidate sempre delle loro lusinghe. Sono come gli avventurieri che ingannarono gli indigeni per sterminarli e sfruttare i loro territori. Se necessario combatteteli con voluttà e senza rimpianti. Con l’empio progresso non c’è negoziazione! La natura vi proteggerà. Le altre comunità vi sosterranno. Mentre i gruppi che operano all’interno del sistema continueranno ad eroderlo lentamente affinché smetta di corrompere i deboli e le coscienze si sveglino.

Lasciate la paura ai gretti. Che crepino oppressi dalla società del dominio mentre voi vi sublimate nella condivisione di tanta meraviglia!»

++++

Dopraho si alza. Sospira profondamente, poi conclude sfumando il tono di voce: «Volevo infine regalarvi questo libro» dice. Lo estrae da una tasca del mantello e lo appoggia sul tronco. «Ẻ una raccolta di riflessioni sul rapporto uomo-natura scritte durante questo mio ultimo pellegrinaggio. Sintetizza il pensiero e l’esperienza condivisi con le comunità anarchiche incontrate lungo il cammino. Ve lo consegno perché temo che non ci vedremo per molto tempo…» Solleva la testa e abbozza un sorriso persuasivo: «Ẻ mia intenzione tornare alla terra» sentenzia con tono sfuggente.

La folla rumoreggia confusa.

«Non ho deciso così perché i mastini sono sulle mie tracce. Tutti dobbiamo morire, benché per mano loro sia un’opzione che non ho mai preso in considerazione. Il mio umore è allegro e gioioso. La mia salute va alla grande. Ẻ arrivato però il momento di provare nuove esperienze. E mi piace l’idea di decidere quando ricominciare. Non dobbiamo essere padroni di noi stessi?

Credetemi, non ho rimpianti e sono orgoglioso della mia vita. So di aver dato tutto e ricevuto oltre le attese. Ho solcato terre lontane e ovunque mi sono sentito a casa. Ho amato con passione viscerale e tenerezza premurosa. Ho fraternizzato con ogni tipo di persona e imparato da tutti. Non ho mai avuto padroni, né assaporato la denigrante servitù. Combattere gli uni e liberare dall’altra è stato il mio più grande successo. Ho avuto il privilegio di vivere senza morale, religione, legge perché il giusto non è imposto ma è nella natura. Grazie a lei ho imparato a essere l’altro ed essere tutto. Mi sono lasciato trasportare dalla sua corrente ed è stato possente. Ed è giunto il momento di restituirle ciò che ho preso affinché altri esseri ne godano. Il mio corpo è una giara piena il cui contenuto deborderebbe se aggiungessi un’altra goccia. Devo svuotarla e riempirla. L’armoniosa casualità saprà donarmi nuove sembianze. Magari trasformerà la mia volontà in un aquila e proverò l’esperienza di volare fra le ruvide vette dei monti. Magari sarò una mangrovia che guazza nel mare, oppure diverrò un lombrico che scava cunicoli, ingoia terra e fertilizza la terra. Comunque sarà meraviglioso divenire!»

Conforta i presenti con un altro sorriso.

«Adesso devo proprio andare!» dice. «Porterò con me il vostro coraggio e il vostro ardore. Che la natura vi protegga e vi ispiri sempre. Che la libertà e l’eguaglianza siano il vostro baluardo contro la malvagità dell’incivile progresso». Poi si rivolge alla donna che gli sta vicino: «Posso avere un cicchino che si è alzato il vento?». «Vuole del tè caldo, signor Dopraho?». «Tè caldo?» ci pensa. «Forse è più salutare un goccetto di rum!» se la ride.

Scolato il bicchiere, congiunge le mani e abbozza un inchino. Biascica il sigaro compulsivamente prima degli ultimi abbracci. Tira su il cappuccio del mantello e con agilità si volta verso il sentiero che porta al bosco, nella cui vegetazione poi si dissolve.

 

Si dice che dopo quell’incontro sia stato avvistato presso alcune comunità sulle Alpi. Altri giurano d’averlo visto vagare per mare su una zattera. Altri ancora sono certi che giocasse con i leoni. A me piace pensare che si sia ricongiunto a quella terra che amava tanto e ora volteggi nei cieli come un’aquila o guazzi nel mare come una mangrovia o scavi come un lombrico. Dovunque sia, qualunque cosa sia, starà sicuramente condividendo la felicità con le molteplicità che gli stanno intorno.

ULTIMO DISCORSO DI RAIMONDO MARIA DOPRAHO

ULTIMO DISCORSO DI RAIMONDO MARIA DOPRAHO

Lo accoglie un applauso intenso. Nella piazza vibra rispetto e devozione per quel guerrigliero solitario la cui leggenda ha ispirato numerose comunità anarchiche. Dall’epopea della dissidenza clandestina alla creazione di centri antiautoritari, dalla resistenza armata alla trattativa per l’indipendenza, dalla lotta contro l’industrializzazione allo spiritualismo naturista, la sua storia racconta di un uomo che con il pensiero ha bandito l’autorità e con le azioni ha realizzato l’eguaglianza delle molteplicità in cui la natura non è riparo né conforto, ma fratelli, amici, compagni con i quali condividere una nuova esistenza.

Cammina appoggiandosi al ramo levigato che lo accompagna da quando un proiettile sparato da un blindato gli perforò la coscia. Indossa un mantello color ruggine. Il volto è nascosto dal cappuccio, che improvvisamente abbassa con una mano mentre con l’altra saluta i presenti. Ha l’espressione stanca e la carne emaciata, ma gli occhi scuri scintillano in affettuosi abbracci. Mangiucchia il sigaro spento mentre ringrazia con la mano. Una donna gli offre una tazza di tè, che beve nell’attesa la folla si accomodi sull’erba.

Osserva le montagne lontane e con lo sguardo scende lentamente fino al bosco, dove chiude gli occhi e respira profondamente, quasi volesse inalarne l’aroma. Si china e raccoglie una pallina di mota. «Questa è tutto!» dice con voce flebile. «Ma anche quello è tutto!» indica il cielo. «Pure quelle!» punta il dito sulle vacche che pascolano distanti. «E questo!» batte la mano sul tronco su cui è seduto. «E voi gli appartenete!» Sorride teneramente agli sguardi carichi di attesa.

Quasi in contrasto con il mito che rappresenta, i suoi gesti sono lenti, le parole sussurrate, a tratti biascicate. Strofina spesso le mani. Volteggia con lo sguardo senza mai posarsi su qualcosa in particolare. Continua a mordicchiare il sigaro. Stringe la tazza di tè e la porta alla bocca. Sembra intimidito da tutta quella attenzione. Come se intimamente la giudicasse esagerata e, al contempo, non volesse manifestare la propria avversione per non sembrare irrispettoso.

Nella folla qualcuno osanna il suo nome. Parte un breve applauso.

Il compagno seduto vicino lo sollecita a parlare con un cenno.

Annuisce con una carezza al suo interlocutore. Osserva fuggente la folla. «Siete più numerosi dall’ultima volta!» proferisce sornione. «Tu mi sembri pure ringiovato!» Gli stringe il braccio affettuosamente. «Mi fa piacere incontrarvi prima di ripartire…» La nuova sospensione sembra più per distribuire gratitudine che per trovare le parole con cui proseguire. «Questi due giorni sono stati davvero molto istruttivi e piacevoli… Guarda qui!» Teatralmente si tocca il ventre eccitando l’ilarità dei presenti. Schiarisce la voce. Con la lingua scosta il sigaro su un angolo della bocca. Si alza e si rimette subito a sedere.

«Preferite che stia in piedi o seduto?» chiede.

«Ci tenevo a ringraziarvi tutti. La vostra esperienza dimostra che libertà e eguaglianza non sono concetti astratti, ma pratiche concrete realizzabili da uomini di buona volontà.

Avete rifiutato l’ingannevole civiltà, le sue perversioni e le sue false lusinghe e vi siete riappropriati della vostra umanità fuggendo nella natura, quel luogo meraviglioso e incontaminato in cui potete essere voi stessi. Guidati dalla genuinità che le appartiene avete costituito questa comunità forte e solida, dove ciascuno pensa e agisce in simbiosi con l’ecosistema. Avete dimostrato che è possibile vivere senza profitto e senza strutture di dominio. Avete creato un antiautoritarismo simbiotico, paritario e solidale in cui ogni elemento dell’ambiente è imprescindibile. Donandovi al selvaggio avete ripristinato la primordiale armonia grazie alla quale vi identificate nell’unità indivisibile e divenite coscientemente con essa.

Non avete leggi che vi impongono chi essere e cosa fare perché la spontaneità e la condivisione sono regole di vita. Non siete schiavi dei commerci perché soddisfatti i bisogni primari, godete i piaceri del mondo. Non competete perché la gratuità è il vostro premio. Non avete tecnologia che vi renda suoi ingranaggi in quanto le mani sono più che sufficienti per accarezzare la terra e l’istinto vi aiuta a districarvi nella boscaglia. Conoscete il significato del gesto, la profondità dell’esperienza, l’appagamento affettivo. Siete finalmente uomini liberi che agiscono paritariamente con gli esseri del mondo.

Questo, non l’ipocrisia, non il pregiudizio, non la finzione, vi rende forti, vivi, felici. E deve riempire d’orgoglio non me, non voi, ma l’umanità intera, perché avete dimostrato che può essere migliore di ciò che è».

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Solleva la mano per fermare l’applauso e prosegue: «Quando ieri sono arrivato, mi avete accolto con entusiasmo che non merito.

Mi avete illustrato le molteplici attività che svolgete, di quanto la vostra praticità rispetti e onori l’ambiente. Ed è stato esaltante osservare come progrediate senza modificare, come interagiate senza competere, come solidarizzate senza pretendere. L’armonia con cui vi organizzate, l’affetto attraverso cui comunicate con gli animali, la devozione che riservate alle piante sono la prova che quando l’interesse egoistico non corrisponde al profitto ma si conforma spontaneamente all’equilibrio naturale, è possibile restituire l’esistenza alla sua originaria vitalità, che è semplicemente condivisione dei piaceri offerti dalla natura. Quella schiettezza dei rapporti che ho ritrovato partecipando ai vostri giochi, distribuendo le eccedenze, osservando i bambini che si addestravano sulle creste delle montagne o imparavano a pescare con le mani è la solita degli insetti che gustano il nettare e poi impollinano il pistillo, delle fronde che cercano la luce, dei cuccioli di lupo che si azzuffano, dei volatili che si uniscono in un’unica unità cognitiva.

Essendo voi stessi l’ecosistema, intelletto e corpo operano guidati dal solo istinto e la volontà si perfeziona nella cosa in sé, il tutto in divenire a cui appartenete. Ciò rende il vostro pensiero unitario ma mai retrivo poiché vi identificate nella mutevolezza, pluralista giacché nell’alterità si perfeziona perseguendo il medesimo obbiettivo di vivere, armonico in quanto la non interferenza sulla natura delle cose ne consente la perpetuazione. Il vostro interagire con le molteplicità è reciproco, perché si realizza attraverso relazioni omogenee, dinamiche e cooperanti. Ẻ gratuito, giacché le connessioni non vengono mai contraffatte dall’utile. Ẻ temperante, poiché la volontà di vivere si esprime senza che gli eccessi generino prevaricazione. Siete natura, siete bellezza!

Se la terra è protagonista dei vostri sogni e ambiente delle vostre storie è perché quando l’individuo non è depravato da falsità, non domestica, non sfrutta, non sofistica, non distrugge, né sottostà al tiranno con la speranza di sedere al suo tavolo. Ẻ libero. E se è libero cerca e trova godimento nelle cose che lo attorniano, senza bisogni di inganni che ne deformino l’essenza.

Avete rifiutato la falsa civiltà perché siete quella vera. Una civiltà nuova che prospera simbioticamente con l’ecosistema. L’autonomia conquistata vi rende spiriti del creato che realizzano l’interesse personale compiendo il bene universale. Conoscete il giusto. Ed è per questo e in virtù di questo che sapete amare.

Ma della vostra felicità i servitori del male sono invidiosi. Vi temono perché l’autenticità pregiudica le loro false certezze, il loro illusorio benessere. Faranno di tutto per ostacolarvi, perseguirvi e reprimervi. E una volta trovati vi elimineranno se non vi convertirete o sarete utili ai loro scopi. Diffidate sempre delle loro lusinghe. Sono come gli avventurieri che ingannarono gli indigeni per sterminarli e sfruttare i loro territori. Se necessario combatteteli con voluttà e senza rimpianti. Con l’empio progresso non c’è negoziazione! La natura vi proteggerà. Le altre comunità vi sosterranno. Mentre i gruppi che operano all’interno del sistema continueranno ad eroderlo lentamente affinché smetta di corrompere i deboli e le coscienze si sveglino.

Lasciate la paura ai gretti. Che crepino oppressi dalla società del dominio mentre voi vi sublimate nella condivisione di tanta meraviglia!»

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Dopraho si alza. Sospira profondamente, poi conclude sfumando il tono di voce: «Volevo infine regalarvi questo libro» dice. Lo estrae da una tasca del mantello e lo appoggia sul tronco. «Ẻ una raccolta di riflessioni sul rapporto uomo-natura scritte durante questo mio ultimo pellegrinaggio. Sintetizza il pensiero e l’esperienza condivisi con le comunità anarchiche incontrate lungo il cammino. Ve lo consegno perché temo che non ci vedremo per molto tempo…» Solleva la testa e abbozza un sorriso persuasivo: «Ẻ mia intenzione tornare alla terra» sentenzia con tono sfuggente.

La folla rumoreggia confusa.

«Non ho deciso così perché i mastini sono sulle mie tracce. Tutti dobbiamo morire, benché per mano loro sia un’opzione che non ho mai preso in considerazione. Il mio umore è allegro e gioioso. La mia salute va alla grande. Ẻ arrivato però il momento di provare nuove esperienze. E mi piace l’idea di decidere quando ricominciare. Non dobbiamo essere padroni di noi stessi?

Credetemi, non ho rimpianti e sono orgoglioso della mia vita. So di aver dato tutto e ricevuto oltre le attese. Ho solcato terre lontane e ovunque mi sono sentito a casa. Ho amato con passione viscerale e tenerezza premurosa. Ho fraternizzato con ogni tipo di persona e imparato da tutti. Non ho mai avuto padroni, né assaporato la denigrante servitù. Combattere gli uni e liberare dall’altra è stato il mio più grande successo. Ho avuto il privilegio di vivere senza morale, religione, legge perché il giusto non è imposto ma è nella natura. Grazie a lei ho imparato a essere l’altro ed essere tutto. Mi sono lasciato trasportare dalla sua corrente ed è stato possente. Ed è giunto il momento di restituirle ciò che ho preso affinché altri esseri ne godano. Il mio corpo è una giara piena il cui contenuto deborderebbe se aggiungessi un’altra goccia. Devo svuotarla e riempirla. L’armoniosa casualità saprà donarmi nuove sembianze. Magari trasformerà la mia volontà in un aquila e proverò l’esperienza di volare fra le ruvide vette dei monti. Magari sarò una mangrovia che guazza nel mare, oppure diverrò un lombrico che scava cunicoli, ingoia terra e fertilizza la terra. Comunque sarà meraviglioso divenire!»

Conforta i presenti con un altro sorriso.

«Adesso devo proprio andare!» dice. «Porterò con me il vostro coraggio e il vostro ardore. Che la natura vi protegga e vi ispiri sempre. Che la libertà e l’eguaglianza siano il vostro baluardo contro la malvagità dell’incivile progresso». Poi si rivolge alla donna che gli sta vicino: «Posso avere un cicchino che si è alzato il vento?». «Vuole del tè caldo, signor Dopraho?». «Tè caldo?» ci pensa. «Forse è più salutare un goccetto di rum!» se la ride.

Scolato il bicchiere, congiunge le mani e abbozza un inchino. Biascica il sigaro compulsivamente prima degli ultimi abbracci. Tira su il cappuccio del mantello e con agilità si volta verso il sentiero che porta al bosco, nella cui vegetazione poi si dissolve.

 

Si dice che dopo quell’incontro sia stato avvistato presso alcune comunità sulle Alpi. Altri giurano d’averlo visto vagare per mare su una zattera. Altri ancora sono certi che giocasse con i leoni. A me piace pensare che si sia ricongiunto a quella terra che amava tanto e ora volteggi nei cieli come un’aquila o guazzi nel mare come una mangrovia o scavi come un lombrico. Dovunque sia, qualunque cosa sia, starà sicuramente condividendo la felicità con le molteplicità che gli stanno intorno.

Immagine: I cavalli di Nettuno, Walter Crane