IL GIOCO DI UNA GIORNATA QUALSIASI

La logica del dominio è globalizzata. Il mercato detta le regole, lo Stato esegue imponendole a Roma come a Tokyo, a Madrid come a Sydney, a Islamabad come a Antananarivo. Lavoro, commercio, sentimenti, relazioni, consumo, ogni attività è subordinata ad una contropartita. Una mercificazione delle scibile che identifica talmente l’individuo con i beni da renderli un corpo unico.

Gli effetti di questo stravolgimento esistenziale sono molteplici, ma fra tutti si rileva la disumanità, cioè l’incapacità sensoriale e spirituale di cogliere la naturalità originaria; l’annullamento delle potenzialità personali, limitate al mediocre adattamento servile; il soffocamento dei propositi ribelli, o anche solo innovatori, volti ad ascendere i processi di potere per conseguire maggiori profitti. Ovvio che, in questo contesto, i piaceri tossici e le speranze necrofile diventino l’unica rievocazione della sensualità perduta.

L’irreversibilità del sistema rende impossibile ogni alternativa. Possibile invece la sua evoluzione, ma solo in peggio. Al ribelle la scelta: follia o diserzione. E se diserzione, che si manifesti con la dissidente interruzione di ogni sua pratica e con l’unione di persone affratellate che, evitato lo scontro con il Potere, sviluppino dinamiche clandestine fondate sull’antiautoritarismo, sul personalismo, sul pluralismo, sull’autarchia e sulla gratuità. Ma soprattutto sulla naturalitudine, cioè la capacità di concepirsi natura. Il creato deve diventare l’universo personale in cui la volontà spazia liberamente per realizzare le proprie attitudini sensoriali. E ciò è possibile solo rinunciando ai surrogati artificiosi ed estendendo la nicchia ecologica antropica1 all’universalità affinché essa si moltiplichi spontaneamente nelle sue infinite possibilità.

Tanto salda sarà la determinazione dei ribelli, tanto dissociante si svilupperà la loro azione, tanto coordinati saranno gli autogoverni, tanto inarrestabile sarà l’autonomia. Tanto il Potere, pur di mantenere la sovranità sulla maggioranza asservita, arriverà a trattare, legittimandoli di fatto. E magari non potrà fare a meno di riconoscere loro il diritto di astensione e cesserà di ostacolarne la sovranità. Quanto ai garzoni di stalla2 che si oppongono all’autosufficienza libertaria per conservare i propri privilegi, l’unica strategia è ignorarli. Chi vuole vivere si disinteressa della morte!

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Per confrontare gli effetti della società moderna con quella anarchica, posto che quest’ultima può essere rappresentata solo in base alle numerose, ma ancora relative, pratiche clandestine, e che non è possibile predire il futuro, facciamo un gioco.

Dopo tutto giocare è la base dell’educazione libertaria!

Immaginiamo la giornata di tre soggetti: l’omologato, colui che pratica le regole della società civile; il refrattario, ovvero l’attivista che a essa si adegua nonostante la disprezzi; l’illuminato, che invece la rifugge per vivere in una comunità anarchica. E siccome esistono modelli anche molto diversi fra loro, scelgo quella che pratica la biosimbiosi, cioè condivide con la natura l’esperienza esaltante della vita selvaggia.

L’ALBA DI UN DI UN GIORNO QUALSIASI

Squilla la sveglia e l’OMOLOGATO sobbalza di soprassalto come se avesse fatto un brutto incubo. Seduto sul letto con la fronte fradicia e una pesante ipossia, si guarda intorno tramortito. Non riconosce né il posto in cui si trova, né la persona che dorme a suo fianco. Eppure sa che nelle prossime ore lo attende l’ennesimo intermezzo molesto fra un sonno e l’altro.

Ciondola fino al bagno, fa colazione in piedi, si veste a puntino, saluta la moglie con la mano perché detesta l’odore di quella crema con cui si impiastriccia il viso, calza gli occhiali da sole. «Vogliamo andare?» grugnisce alla prole. Al solito l’ascensore è pieno. «Entrate voi, io faccio le scale!» sperando si verifichi un improvviso blackout. Sgomma nel parcheggio condominiale: non vede l’ora di immergersi nel traffico per mandare a quel paese più persone possibile.

 

Il REFRATTARIO spenge la sveglia e si riaddormenta. Profanarla è uno dei pochi piaceri che la società civile gli concede. Si alza fregandosene d’aver perso la coincidenza perché il negozietto di antiquariato è suo e non ha orari. Ma l’ufficiale giudiziario sì ed è già davanti all’ingresso per sfrattarlo. Due anni senza pagare l’affitto più che inadempienza sono un’occupazione. Riflettere su questo addolcisce il risveglio. E sapere che l’inserviente pubblico dovrà tornare perché ha trovato abbassata la saracinesca è l’unico motivo per cui asseconda la richiesta della moglie di portare la figlia a scuola.

 

La sveglia dell’ILLUMINATO è la lingua del cane allo spuntare della prima luce. Lo libera in giardino e già che è lì butta un po’ di mangime alle galline che starnazzano allegre. Agli altri animali si concederà più tardi perché è il momento di chiamare i bambini. Oggi per loro è una giornata speciale. La mattina partecipano a una lezione di orientamento nel bosco, nel pomeriggio alla rottura della cagliata. E infatti sarà per l’eccitazione di imparare cose nuove, sarà per l’aria ancora pungente, prima si saziano con le uova appena sfornate, poi lo aiutano ad accumulare le foglie che verranno utilizzate come concime. Sua moglie invece sta bussando ai vicini per raccogliere gli alimenti che utilizzerà nella preparazione del pranzo comune. Come cuoca non è alla sua altezza, ma migliorerà. Quanto a lui, osserva i figli immergersi nel bosco e poi si gode il tepore del sole che sbuca da dietro le montagne.

LA MATTINA

La mattina dell’OMOLOGATO è come il giorno precedente, quello successivo e così per i prossimi trent’anni. Giunto in ufficio, riordina gli appunti al computer, risponde al telefono, riceve i clienti. Ẻ dipendente di un’agenzia immobiliare per cui l’approccio sgargiante con l’arzilla signora a cui deve mostrare un appartamento del centro è di rito. Quello con il suo barboncino un po’ meno. E infatti le chiede gentilmente se può lasciarlo in auto dopo averlo rimosso dalla propria caviglia.

Tornato alla base, di nuovo computer e telefono. L’appuntamento delle undici è saltato e potrebbe concedersi un caffè alla macchinetta se le cialde non fossero finite. Sbriga le ultime faccende e alle dodici e cinquantanove afferra il panierino. Si alza dalla scrivania attento a non fare rumore e con circospezione scivola lungo il corridoio che percorre a passo di pantera finché una voce grida il suo nome. Ẻ il capo, che lo richiama perché la cliente ha minacciato di far causa all’agenzia per maltrattamento di animali.

 

Dopo aver accompagnato la figlia a un isolato da scuola perché non vuole che gli amici vedano che è con il padre, il REFRATTARIO si rintana nel negozio. Riordina le cianfrusaglie e si piazza dietro il bancone, dove non trova di meglio da fare che sfidare Billo71 a una partita a scacchi on line. Di tanto in tanto saluta con una smorfia lugubre i passanti. Alle dieci e trenta cessa ogni impegno per fumare un sigaro. Alle undici compra il giornale. A mezzogiorno la solita telefonata della moglie in cui si lamenta delle colleghe, del tempo, delle zanzare, della forma delle nuvole, dei reumatismi e di quant’altro le venga in mente in quei trentaquattro fottuti minuti di logorrea. Riattacca che è stremato, ma trincerarsi dietro questa ritualità collaudata è l’unico modo per non finire come Michael Duglas in quel famoso film che spara a tutti3.

Poco prima dell’ora di pranzo finalmente arrivano gli amici del Raggio Nero. Li aspettava impaziente. Chiude a chiave, li interroga eccitato perché non vede l’ora di rivitalizzare le sue abilità sovvertitrici. Propongono di rivestire di pellicola trasparente il monumento a Giuseppe Mazzoni in piazza del Duomo. «Tipo Dexter Morgan?»4 chiede confuso. «Perché non ti piace?» replica uno di loro. «Meraviglioso!» risponde rassegnato.

 

L’autunno è sempre un periodo di fermento nella comunità anarchica. Le famiglie si organizzano nelle attività agrosilvopastorali in maniera da raccoglie quanto dona la natura. Una parte verrà utilizzata per l’inverno, l’altra sarà distribuita fra chi ha bisogno. E così il nostro ILLUMINATO trascorre gran parte della mattinata all’aria aperta raggruppando nelle casse la verdura di stagione. Se avrà tempo, più tardi porterà le eccedenze allo smistamento.

Prima di avviarsi verso la piazza in cui pranzerà insieme agli altri membri della comunità, distribuisce il cibo agli animali che soggiornano vicino casa. I maiali e i cavalli a cui ha costruito un confortevole riparo dalle intemperie, le caprette che scorrazzano instancabili nel prato, le due mucche golosissime del fieno che cresce rigoglioso dopo il torrente. Raccoglie anche qualche fungo e ammucchia gli avanzi per i lupi perché la natura è scambio reciproco attraverso cui i suoi elementi si completano.

Sta rientrando a casa quando ricorda che deve raccogliere i ricci delle castagne. Ma non c’è fretta e dopo essersi intrattenuto coi vicini che organizzano un’orgia per il plenilunio, a cui non parteciperà perché già occupato con un’altra coppia, passa da casa per ritemprarsi con un assaggio abbondante di stufato. Torna indietro per versare un po’ d’acqua nel pentolone sia mai la moglie si accorga che ne ha mangiato troppo. Perché rinunciare alla società del dominio per lo stato di natura estingue ogni forma di subordinazione, tranne quella verso la consorte.

POMERIGGIO

Il pomeriggio dell’OMOLOGATO trascorre fra smancerie ipocrite con i clienti, alienazione davanti al computer, picchi fantasiosi per ammorbidire il boss su quell’aumento che tanto gli servirebbe per pagare il mutuo. Il momento più appagante quando fa le fotocopie. Consumare una risma riproducendo ora la mano, ora la guancia, ora il dito medio è sempre una gran bella soddisfazione. Quello più convulso quando verso le sette meno due minuti si alza dalla scrivania attento a non fare rumore e con circospezione scivola lungo il corridoio che percorre a passo di pantera finché una voce grida il suo nome. Ẻ il capo, che lo richiama per consegnargli la lettere di licenziamento.

Fortunatamente la giornata sta finendo, altrimenti chissà quali altre soddisfazioni gli riserverebbe.

 

Il pomeriggio del REFRATTARIO comincia con un balzo di creatività artistica stimolato dall’ennesima cartella esattoriale. Non la pagherà come non ha pagato le altre. Non è tipo da fare discriminazioni. Con i fogli realizza dei simpatici origami a forma di rana che pone sulla cassapanca del XIX secolo che gli piace tanto. Nella partita a scacchi on line concede a Salsiccia90 un rapido matto del barbiere. Legge il giornale e qualche pagina di una rivista anarchica. Caffè a metà pomeriggio e solo verso le sei entra quello che sembra il primo cliente della giornata. La sua gestualità rileva una certa insicurezza e così: «Se ha bisogno dica pure!» il nostro eroe interviene cortese. Il tipo scuote la testa, fissa la strada e poi: «Via Roma è da queste parti?»

Neanche è uscito che si ripresentano i compagni del Raggio Nero. Dopo una lunga interlocuzione sulla fase distruttrice di Bakunin, il Rosso arriva al punto: hanno modificato il piano pensando a un’azione «bella tosta». Si tratta di scrivere una frase, la appunta su un foglio temendo che nel negozio siano installate delle cimici, sulla facciata del duomo. Il refrattario rilascia un’espressione contorta: «E io che dovrei fare, tenere il sacchetto con le bombolette?»

 

Dopo aver consegno le casse al deposito l’ILLUMINATO raggiunge la grande piazza dove la comunità si ritrova ogni giorno per condividere il pranzo. Pasto frugale e mentre tutti i bambini giocano nel bosco e gli adulti si dividono fra chi fa una pennichella, chi passeggia e chi chiacchera, raggiunge il fico che ha rivitalizzato quando ormai sembrava morto. Ne abbraccia il tronco. Si accovaccia fra le radici, che accarezza con intensità. Appoggia le mani sulla corteccia grigiastra, poi chiude gli occhi rimanendo immobile in attesa che le fronde sussultino. Improvvisamente anche il suo corpo vibra, anzi guizza, come attraversato da una scarica intensa.

Sarà il figlio maggiore a destarlo quando qualcuno invita i comunardi, fra loro si chiamano così in memoria della Comune di Parigi, a tornare nella piazza. Si è sparsa la voce che in mattinata un tizio sia stato trovato a rubare nella rimessa alimentare. Un fatto insolito in un aggruppamento che rifugge il profitto. Ecco perché quando il tipo emaciato fa il suo ingresso il brusio è frastornante.

Il Poeta, famoso per i versetti in rima che è solito recitare la sera davanti al fuoco, llustra i fatti e poi gli concede la parola. Questi afferma di essersi allontanato dalla comunità capitalista a cui appartiene perché non riusciva a mantenere i suoi quattro figli e che da giorni vaga senza una meta. Gli chiedono da quanto è fuggito, dice di non saperlo. Gli chiedono se lo hanno seguito, risponde che ci hanno provato ma temendo il bosco sono tornati indietro. Gli chiedono dov’è la sua famiglia, replica che si trovano in una catapecchia abbandonata sulla collina. Gli chiedono il motivo per cui aveva scelto quella comunità, risponde che col suo lavoro guadagnava bene, ma… Costretto al silenzio dai fischi di disprezzo, riprende a parlare piangendo a dirotto.

Confortato con pacche sulle spalle, qualche parola gentile e del rum fatto in casa, uno gli domanda che lavoro facesse. «Sono un programmatore» risponde. «Ottimo. Allora programma per domani di pulire il porcile!»  Quando tutti scoppiano a ridere il sole sta già tramontando.

LA SERATA

La serata dell’OMOLOGATO inizia nel momento in cui trova parcheggio nello spazio riservato ai portatori di handicap. Trascorre minuti fissando la specie di Moloch5 in cui abita. Sale in casa, cena in famiglia con i figli che tappezzano il pavimento di sugo, la moglie che non smette di ciarlare, le tette delle soubrette che ballettano in televisione. Segue il solito filmetto con i cattivi astuti, belli e grandi chiavatori, bacetto alla signora e buona notte. Tutto in appena un paio d’ore.

Avrebbe voluto raccontarle cosa è successo in ufficio, ma è meglio così perché adesso può sfogare la sua onnipotenza facendo zapping. Gli basta un filmetto osé per infilare la mano nelle mutande. E’ in ginocchio sul tappeto quando la maniglia della porta cigola.

 

La serata del REFRATTARIO è identica a quella dell’omologato fino al bacetto alla moglie, allorché raggiunge la vetrinetta dei liquori, prende una bottiglia e si chiude in quello che ormai è il suo ufficio. Apre la finestra e seduto sulla tazza del cesso osserva le auto sfrecciare lungo la via, il gruppo di ragazzi che biascica davanti al bar, le creste ombreggiate dei palazzi, sopra i quali il cielo nero viene falciato dal pallido bagliore della luna. La libertà ha sempre un prezzo e il prezzo è l’impossibilità di condividerla.

Anche il ferro ha un prezzo e gli è costato quasi quanto la statua d’oro di Budda che sta nella vetrina del suo negozio. Ma adesso lo sente caldo fra le mani. Lo gira, lo rigira, lo impugna e finalmente punta la canna alla tempia. Spara. Silenzio. Tutto è come prima. Qualche secondo di vuoto e «Cazzo è successo?» gorgoglia frastornato guardandosi intorno come a cercare tracce d’inferno. Si è dimenticato di caricarla. Ma ormai è troppo tardi per rimediare. Anche stavolta è passata la voglia di ammazzarsi.

 

La serata dell’ILLUMINATO è più vivace del solito. Riunitasi la comunità intorno al grande fuoco, la cena è abbondante e i balli sfrenati. La festa per quel nuovo arrivato durerà fino a notte inoltrata, ma ormai è troppo stanco. Peraltro i figli sonnecchiano sull’erba con la testa appoggiata alle gambe della madre, che sorride divertita.

Con lei in testa alla formazione, lui in fondo con il figlio piccolo sulle spalle, si inerpicano lungo il sentiero che sale la collina attraversando il bosco. Quando si dirada l’abbaio dei cani accoglie la famiglia. Una pecora li imita scatenando lo starnazzio delle galline. Allora anche i gufi bubolano. E così i lupi ululano, gli asini ragliano, i cavalli nitriscono, i cervi bramiscono, le rane gracidano in un concerto surreale che solo quello che sembra il ruggito di un leone zittisce. Ma forse è l’alcol che fa effetto.

Allettati i bambini, i due tornano in giardino per gustare qualche attimo ancora della potenza inebriante della notte. «Vieni a letto?» lei gli fa capire che ha freddo. Lui indica l’amaca. «Rimango qui un altro po’!» le risponde. Con quel manto stellato lassù, il fruscio del vento nel bosco e quelle meravigliose lucciole, non si sa mai cosa potrebbe accadere.

NOTE

  • Espressione usata da Telmo Pievani in La natura è più grande di noi, Solferino, 2022.
  • Espressione utilizzata da Michael Onfray, La politica del ribelle, Fazi editore, 1997.
  • *2 Un giorno di ordinaria follia, film del 1993.
  • Dexter, serie televisiva andata in onda in Italia dal 2006 al 2013.
  • Mostro del film Cabiria, 1914.
  • Immagine: Franz Marc, I grandi cavalli azzurri, 1911.